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Quando penso che noi, generazione venuta su dopo il quarantotto, non intendiamo più quasi nulla del gran complesso di sentimenti e di idee che formarono quella gloriosa rivoluzione; quando penso che il secolo decimottavo, del quale possiamo studiare da vicino qualcuna delle reliquie viventi, ci fa lo stesso effetto delle epoche greca e romana, tanto ci apparisce diverso da tutto quello che costituisce la nostra vita presente; mi meraviglio che si possa tentare con animo sereno un'interpretazione artistica (la parola non è eccessiva) di epoche che per costumi, sentimenti, religione, scienza e filosofia, furono, si può dire, agli antipodi di quello che siamo ora noi.
Dicono: c'è il documento scritto, c'è il documento archeologico. Noi facciamo delle ricostruzioni meravigliosamente esatte. Per ogni parola, per ogni frase noi vi presentiamo un testo, venti testi che potranno servirvi da controlli. Abbiamo i poeti, gli storici, i comici, i tragici: abbiamo le statue, le pitture antiche, le rovine, e poi tutto il grande arsenale archeologico, un'infinità di arnesi domestici e di gingilli che ci mettono sotto gli occhi l'esteriore della vita antica in modo da non poter prendere nessun abbaglio. «Quella vita intima d'allora, così diversa per chi la guardi alla superficie, studiata dappresso e minutamente, somiglia in moltissime cose, come due gocce d'acqua si somigliano, alla vita intima di oggidì; molti di quei tipi, di quei caratteri, di quegli affetti della commedia greca del IV secolo, trovano ancora oggi negli affetti e nei tipi della società nostra, riscontro meraviglioso»1.
Infatti il Cavallotti ha pubblicato la sua Sposa di Mènecle con una vera catasta di note zeppe di citazioni e di testi greci, per dimostrare che i suoi critici hanno avuto torto ostinandosi a non riconoscere delle persone greche sotto i nomi greci dei suoi personaggi.
A prima vista la prova è, come suol dirsi, schiacciante. Quei personaggi non pronunziano una sola parola che non abbiano già detto Aristofane, Demostene, Menandro, Andocide, Platone, Eschine, Iseo, Luciano, Plutarco, Aristotile, Senofonte, Euripide, Alessi, Calisseno rodio, Teofrasto, Alcifrone, Eubulo ecc. e che tutti gli scoliasti e tutti gl'interpreti moderni non possano, all'occorrenza, confermare o schiarire. Il Cavallotti, si sa, è un erudito di prima forza; e se le note della commedia hanno un ugual volume di essa, questo devesi soltanto alla sua moderazione; potevano facilmente diventare il doppio, il triplo.
Bisogna aggiungere che esse non dimostrano unicamente la sua erudizione, ma anche la sua coscienza di scrittore. Egli era pieno del suo soggetto quando, come ho inteso raccontare, si metteva a comporre, sul lago di Como, quasi scherzando, questa sua interpretazione artistica della vita ateniese del IV secolo. Non gli occorreva di racimolare penosamente da questo o quel manuale archeologico i materiali esteriori del lavoro. Essi andavano, sto per dire, a mettersi al posto da loro medesimi, talché la commedia doveva naturalmente prendere un'aria di scioltezza e di franchezza che in mani diverse non avrebbe ottenuto giammai.
Il poeta aveva avuto un'altra fortuna, quella che capita soltanto ai cercatori, ai curiosi, agli studiosi appassionati: il soggetto gli era venuto dinanzi quasi bello e completo in un'arringa dell'oratore Iseo, intitolata appunto dell'Eredità di Mènecle. Il documento era preziosissimo per la sua natura e la sua estensione. C'era l'emozione dell'oratore, l'evidenza della narrazione dei fatti, una testimonianza di prim'ordine, contro la quale non è possibile presentare obbiezioni. Rare volte uno scrittore, intento a risuscitare con un'opera d'immaginazione un momento della vita antica, si era trovato in condizioni così favorevoli per la riuscita.
Esteriormente, non occorre dirlo, la riuscita è completa.
Ma è proprio sicuro il Cavallotti della realtà greca della sua sentimentale Aglae e del suo non meno sentimentale Elèo? È proprio sicuro che questi versi:
Te fuggo com'esule che disse l'addio,
Ma volge la testa tornando a guardar;
E fugge... ma il siegue più lungo il desio...
E fugge... ma indietro vorrebbe tornar!
Mia trista, mia trista battaglia del core!
Scrutarla non cerchi pupilla d'uman!
Lasciatemi questo mio povero amore!
Per viverne solo, lo porto lontan!
è proprio sicuro che non siano versi di un poeta romantico di quarant'anni fa, da lui dati ad imprestito al suo greco personaggio?
La vera vitalità di un personaggio consiste appunto nei suoi sentimenti, nelle sue passioni: e la realtà storica di questi sentimenti e di queste passioni sta tutta nella loro caratteristica che li rende diversi dai sentimenti e dalle passioni di un'epoca precedente o posteriore. Certamente l'amore di oggi ha molti punti di contatto con lo stesso sentimento provato dai Greci e dai Romani ed anche dagli uomini primitivi: ma l'amore di oggi contiene, innegabilmente, degli elementi che allora non esistevano affatto; e non ha, nelle stesse proporzioni di allora, gli elementi che una volta dovettero essere predominanti. L'artista che, volendo darci la rappresentazione dell'amore, non riesce ad afferrare la caratteristica propria di una data epoca, fa opera sbagliata. E questa caratteristica sta tutta nella differenza, non nella rassomiglianza.
Per dirne una, la tristezza, la malinconia, quel che di vago, di sfumato del sentimento che la parola stenta a rappresentare, non sono sentimenti greci, al modo che ci vengono presentati nella commedia del Cavallotti. Questo non significa che i Greci non conoscessero, non provassero, alle loro ore, la tristezza, la malinconia, e, forse, anche un po' di sentimentalità. Soltanto, a giudicarne dalle testimonianze letterarie che ci restano, le proporzioni di tali sentimenti erano assai diverse presso di loro e per moltissime ragioni. La misura noi la sentiamo e la giudichiamo leggendo Eschilo, Aristofane, Sofocle, Euripide, Pindaro, Anacreonte, Menandro: è come un profumo, come qualcosa di imponderabile che si stacca da quelle opere immortali e ci fa provare la sensazione delle sensazioni dell'antichità.
I riscontri colla vita moderna vi s'incontrano di tratto in tratto, e sorprendenti; ma sono più esteriori che intimi, o, per dir meglio, che organici e fondamentali. Sarebbe proprio meraviglioso non fosse così: perché in questo caso bisognerebbe conchiudere che l'opera di due civiltà, la romana e la cristiana (senza voler contare quella delle altre influenze intermedie) sia stata a dirittura o inutile o inefficace per lo spirito umano: e dovremmo dare una solenne smentita e alla storia e alla scienza.
Ora, nella commedia del Cavallotti a me pare ci siano evidentemente i moltissimi punti di rassomiglianza esteriore tra la vita greca del IV secolo e la nostra; ma non la differenza interiore, ch'era la più importante e la sola caratteristica. Forse la troppa erudizione ha nociuto allo scrittore: lo ha fermato innanzi all'apparenza. Meno testi e più di quella intuizione divinatoria che è la maggiore delle facoltà d'un artista, e la commedia avrebbe, probabilmente, guadagnato molto come ricostruzione e interpretazione della vita antica. Probabilmente, ripeto: giacché sarebbe tempo di rassegnarsi a credere, come ha ben detto il Taine, che non vi possano essere altre tragedie greche che le tragedie greche, né altre commedie greche... che le commedie greche.
Però meno male quando l'interpretazione del mondo antico vien fatta al modo del Cavallotti, con un apparecchio di studi e di ricerche, quasi con un lusso di materiali scientificamente accertati, da mascherare in parte la pochezza del resultato, anzi, l'impossibilità del buon resultato!
Ma ecco qui un altro poeta2 che procede precisamente al modo opposto. La sua confessione è di un'ingenuità quasi incredibile. Egli ha scelto per protagonista Orfeo, l'antico cantore di Tracia. Dovea forse adattarsi all'incerta nebbia del mito, o alla narrazione, prima idillica e poi tragica, della leggenda? L'incertezza del mito, la dubbiezza della leggenda gli son parse, invece, ragioni sufficienti per creare un Orfeo nuovo di pianta, tenendo soltanto fermo che esso era «avant tout, un poète, un amoureux, un civilisateur. Une fois que les diverses passions inspirées par ces trois rôles sont en jeu dans une âme, c'est à l'auteur de les faire lutter ensemble, d'en assurer le développement et de conclure par un dénouement logique». Ed ecco, sous un nouveau jour, il tipo d'Orfeo.
La confessione non è completa.
«Je dois dire en terminant que j'ai mis dans mes vers tout ce que j'ai pu trouver en moi de fièvre et d'amour». Infatti egli ha avuto fin scrupolo di far discendere il poeta all'inferno per trovarvi Euridice; e, conformandosi, dice, alle realtà psicologiche, gliela ha mostrata in sogno, dopo una lunga serie di tentazioni e di prove.
Il Grandmougin, che non è un poeta volgare, non ha avuto neppure il sospetto che tutto questo era perfettamente antiartistico. «L'arte, egli esclama, non deve circoscriversi alla constatazione più o meno scientifica delle turpitudini contemporanee». Benissimo.
«Io credo che la vera modernità non consista lì, e che, sotto una forma antica, si possano esporre, con originalità, gli eterni sentimenti umani...». No davvero.
Che vuol dire questa distinzione di forma antica e di sentimenti umani eterni, che poi si riducono unicamente ai vostri sentimenti personali modernissimi?
Quando volete parlarci di spirito che:
Vibre pour la révolte et pour l'humanité;
quando volete esclamare per conto vostro:
Salut, ô mort longtemps rêvée!
Je vais trouver enfin dans ton gouffre béant
L'éternelle Eurydice ou l'éternelle Néant,
ma ditelo, alla buon'ora, in persona prima, in versi lirici, splendidi e sonori come voi avete mostrato qualche volta di saperne coniare; e lasciate che le grandiose creazioni dell'immaginazione primitiva, colle quali noi non abbiamo quasi più nulla di comune, lasciate che dal loro mitico cielo, fra gli splendori abbaglianti della leggenda, continuino a parlarci serenamente il lor divino linguaggio!