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Alla domanda: Perché Fausto si salva? non c'è da dare altra risposta che quella data dal Bonghi nel Fanfulla della Domenica4. Poche cose italiane ho lette in questi ultimi tempi così finamente e profondamente pensate. Il soggetto n'è rischiarato di una luce viva, fatta scaturire dalle sue stesse intime viscere, senza sforzo, senza sottigliezze sofistiche, e la convinzione afferra la mente del lettore e se ne impossessa in modo definitivo, per la sua chiarezza e per la sua giustezza.
La medesima cosa avviene colla risposta all'ultima domanda: Se la donna salva Fausto?5 Non so se essa sia originale, dopo quello che si è scritto, pensato, fantasticato e anche delirato in Germania sul capolavoro goethiano; ma originale la fa apparire e divenire il complesso delle idee che rende importantissimo questo studio dell'Eterna leggenda.
Però il Bonghi vorrà perdonarmi se io trovo poco soddisfacente la conchiusione ch'egli ne trae. È proprio vero che corra una gran differenza tra la Giustina del Mago d'Antiochia e la Margherita del Fausto del poeta?
Mi par di no. Anzi mi pare che il ragionamento, esattissimo, del suo ultimo articolo, doveva condurlo ad una conchiusione affatto diversa. Mi sorprende che una mente come la sua si sia lasciata ingannare dalle apparenze. La parentela fra la leggenda di Cipriano d'Antiochia e quella del Fausto è evidentissima; tutte e due son nate, come vien notato dal Bonghi, dallo stesso concetto astratto, che ha preso forma rappresentativa nella immaginazione popolare. È opportuno citare le sue parole: «Le leggende che dànno atteggiamento di fatto al pensiero possono essere parecchie...; casi succeduti in realtà e vani possono aver data la prima mossa a cotesta diversità di narrazioni ma non è necessario che la leggenda inventata dopo sia un'imitazione di quella inventata prima; o che l'una abbia influito sull'altra; tutte e due possono esserci derivate direttamente dalla fonte dell'animo umano e dalla fantasia popolare».
Nel caso presente, qual'è il concetto astratto da cui sono scaturite le due leggende di Cipriano e di Fausto? Rispondo collo stesso Bonghi; è il meglio che possa fare: «Traversa i secoli, nella coscienza popolare, un pensiero che il sapere non basti a soddisfare l'animo e possa, quando eccede, corromperlo. C'è qualcosa, si crede o s'immagina, oltre il sapere, ed esso oltrepassa da parte sua il reale ed il vero. Non basta a nutrire la vita e la confonde. Empie la mente e lascia vuoto il cuore; sicché all'uomo bisogna un più potente, un più fresco alito per sentirsi vivere nel bene o nel male».
Al più potente e più fresco alito si arriva nelle due leggende per mezzo della donna. Nella prima Cipriano vien convertito al cristianesimo per via della resistenza che la fede di Giustina oppone alla potenza del diavolo. Qui l'eterno femminino è rappresentato materialmente dalla bellezza di lei. Il sentimento prodotto da questa non va più oltre del possesso nella sua indeterminatezza di sentimento. La conversione alla fede, la trasformazione morale di Cipriano ne procedono, si può dire, casualmente.
— Come? domanda Cipriano al diavolo: il Crocifisso è più grande di te?
— Sì, di certo: è più grande di tutti.
— Adunque io lascio te e divento amico del Crocifisso.
Ed ecco che l'ideale religioso, sostituitosi all'altro della bellezza fisica, riempie di sé tutta l'anima di Cipriano. Giustina, come donna, sparisce dalla vita di lui; se rimane qualche relazione tra quell'uomo e quella donna, riducesi alla comunanza d'un medesimo oggetto nell'amore di ciascuno, Dio; e all'altra assai più esteriore, del martirio subito.
Non è dunque la donna credente che salva l'uomo diventato credente al pari di lei, come il Bonghi conchiude. Perché se così fosse, la leggenda dovrebbe avere una forma affatto diversa: e l'azione avrebbe dovuto raggirarsi sopra un altro pernio, cioè, sopra l'azione diretta, immediata, volontaria della donna amata sull'amante.
Invece anche nella leggenda greca del IV secolo la donna non rappresenta che uno dei tanti aspetti di quella naturale passione dell'ignoto che agita l'animo di Cipriano. Cipriano ha trovato un punto dove fermarsi nelle sue corse a traverso il mondo reale e il mondo della scienza di allora. La bellezza di Giustina lo affascina d'un tratto. Quella vergine galilea è un nuovo ignoto che lo attira e lo seduce: e vuol possederla ad ogni costo. Ma dal momento che un altro ignoto, un altro ideale si presenta improvvisamente e inattesamente al suo intelletto e al suo cuore, Giustina vien lasciata da parte. Dio, Cristo, la sua misericordia, la sua redenzione, quel mondo di divine promesse colla sua eterna felicità o colla sua eterna dannazione attraggono, occupano intieramente lo spirito ardente e appassionato di Cipriano. E con il ragionamento, è il sentimento, il sentimento religioso, quello che opera la trasformazione: è, precisamente, l'Ewig-Weibliche, l'eterno femminino, cioè, l'astrazione della donna; la quale col suo organismo, col suo carattere, colla sua funzione umana, lo incarna e lo rappresenta meglio e assai più completamente che l'uomo, troppo intellettuale e troppo riflessivo, non possa e non debba fare.
La medesima cosa avviene nel Fausto. Margherita, come donna reale, interessa e attrae Fausto perché in essa gli par di dover trovare un appagamento, un ristoro a quella smaniosa sete dell'ignoto che anche qui si presenta sotto l'aspetto della pura e semplice sensazione. Se non che qui interviene il dolore, la realtà della vita, per lanciar di nuovo Fausto nella sua corsa verso l'ideale. Allora Margherita, come donna reale, sparisce dalla scena; ma quello che lei rappresentava, l'eterno femminino, sussiste sempre, perché è fuori di lei, ed essa non n'era che una forma caduca e passeggíera.
Perciò era logico, era inevitabile che il poeta la facesse ricomparire all'ultimo, quando la esistenza terrena di Fausto si compie, o meglio quando continua a svolgersi in una sfera più elevata dove l'eterno femminino diventa forza di attrazione: «S'egli si accorge di te, ti vien dietro...».
Certamente, invece di Margherita, quest'ultima parte avrebbe potuto rappresentarla qualunque altra figura: la Magna peccatrix, la Mulier samaritana, la Maria Ægyptiaca, la stessa Mater Gloriosa; ma in questo caso il Goethe avrebbe dovuto dimenticare che era un poeta; ed egli, odiatore acerrimo d'ogni astrattezza in poesia, voleva sempre dare, invece, qualcosa di concreto e di reale sotto di cui potesse nascondersi, sparire e lasciar indovinare, più che far scorgere, la sua arida essenza.
È abbastanza che ci faccia dare dal coro la sintesi del poema, con quei versi che, me lo perdoni il Bonghi, a me non paiono punto strani. Se l'eterno femminino non volesse dire il sentimento, cioè l'indefinito, il vago opposto alla riflessione, al determinato, al preciso, non avrebbe davvero nessun senso.
All'ignoto, all'ideale noi, per la nostra natura, non possiamo avviarci e accostarci che pel sentimento. Quando la riflessione sopraggiunge, l'ideale diventa reale e dal sentimento passa all'intelletto. Ma lo spirito umano non si ferma un solo istante; ed ecco che, subito dopo, riprende il suo viaggio di purificazione, di divinizzazione; ed ecco daccapo l'ignoto, l'indefinito, il vago, l'eterno femminino, che lo attrae su su e lo aiuta a poggiare per lo spazio infinito.
Può ora dirsi, guardando la cosa da questo punto di vista (che è quello stesso del Bonghi) può ora dirsi che tra Giustina e Margherita la differenza sia grande?
La differenza è puramente esteriore.
Nei primi secoli cristiani la religione era l'ideale e il reale ad una volta.
Nei tempi moderni l'ideale e il reale s'incarnano nella scienza, e da essa ci viene la nuova, ma non diversa, non opposta, redenzione e purificazione dello spirito umano.
Però nell'un tempo o nell'altro non è la donna che salva o dà impulso a salvarsi, bensì quello che il Goethe battezzò, con una frase da gran poeta l'eterno femminino, e che così sarà chiamato per tutti i secoli avvenire: