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Un dramma? Niente affatto. Dite meglio una fantasia lirica grottesca e sublime, e darete nel segno.
Hermani, Lucrezia Borgia, Marion de Lorme, perfino quei Burgravi che paiono il borbottamento d'un Eschilo rimbambito, tutti han tentato la prova della scena prima di presentarsi al pubblico sotto la meschina forma del volume. Tutti, uno dopo l'altro, ci han declamato, sonoramente, i loro amori cavallereschi, i loro terrori e i loro spasimi di madre e di amante, i loro sogni da leggenda; tutti, uno dopo l'altro, han cercato di illuderci con un sembiante di corpo, con una simulazione di vita; e tutti sono spariti, fantasmi grandiosi, lasciandosi dietro un rumore vago di cose, un bagliore strano di apparizioni che fa sorridere e pensare.
Torquemada, invece, ci viene dinanzi direttamente, senza passar per la scena.
Ah! i tempi son mutati. Oggi non basta più l'essere un fantasma e il poter declamare dei versi sublimi per osar di salire il palcoscenico e mostrarsi alla gente. Bisogna essere una creatura umana vivente, una creatura nervosa, debole o forte, appassionata o cattiva, ma che si dibatta fra le strette della realtà, che parli il nostro linguaggio, che indossi i nostri vestiti, che ci faccia sentire quei singhiozzi rotti, quegli scoppi di pianto e tutte le ribellioni e le ironie che ci sconvolgono il cuore perché son cosa nostra: bisogna, insomma, chiamarsi Margherita Gautier, Navarrette, Susanna d'Ange, oppure de Jalin, Maitre Guerin, Giboyer, Giovanni Giraud, e non Borgia o De Lorme, e non Hernani o Torquemada.
Infatti il poeta ha esitato lunghi anni intorno alla sorte di questo lavoro. E rassegnandosi finalmente a metterlo fuori in volume, pare voglia dirci:
— Prendetelo qual è, dramma, lirica, poema, visione...; a me non ne importa nulla. È il mio concetto, la mia emozione, la mia parola; non cercate altro: vi basti.
No, non basta!
Che c'importa del concetto astratto, della emozione indefinita del poema?
Ecco qui la terribile figura del grande Inquisitore di Spagna. Il poeta le ha ficcato dentro l'anima quelle sue pupille di veggente ed ha carpito il segreto della forza, della personalità, del carattere di essa o quello che a lui è parso tale.
E la terribile figura di quel frate domenicano che bruciò in sedici anni ottomila persone, che cinquemila e cinquecento ne bruciò in effigie, che d'altre novantamila parte bollò col marchio d'infamia, parte seppellì nel carcere perpetuo, parte spogliò e disperse colla confisca; e quella bieca figura d'inquisitore che dominò il re, che lottò col papa, che non si curò d'altro al mondo fuorché del suo terribile tribunale e delle sue tremende Istruzioni, non gli parve più una figura volgare, di frate sanguinario, compiacente strumento politico in mano di un monarca spagnuolo, crudele persecutore di vittime innocenti per avidità di ricchezze; ma gli si rizzò dinanzi gigantesca, fiera del suo alto concetto di redenzione, forte della sua coscienza di teologo e d'ispirato da Dio. Allora egli la sentì gemere con un accento di immensa tristezza:
D'un cóté
La terre, avec la faute, avec l'humanité,
Les princes tous couverts de crimes misérables,
Les savants ignorants, les sages incurables,
La luxure, l'orgueil, le blasphéme écumant,
Sennachérib qui tue et Dalila qui ment!
...
Tous, grands, petits, souillant le signe baptismal,
A tâtons, reniant Jésus, faisant le mal,
Tous, le pape, le roi, l'evêque, le ministre...
Et de 'autre côté, l'immense feu sinistre!
Ici l'homme, oubliant, vivant, mangeant, dormant,
Et lá les profondeurs sombres du flamboiement!
L'enfer!...
...Mond Dieu! qui donc aura pitié?
E trasalì al suo urlo di gioia:
Moi! Je viens sauver l'homme. Oui, l'homme amnistié
J'ai cette obsession. En moi l'amour sublime
Crie, et je combatterai l'abime par l'abime!
...
Que faut-il? Le bûcher. Cautériser l'enfer.
E le sue viscere si commossero a quella profonda compassione che si trasformava in delirio:
Terre, au prix de la chair je vien racheter l'âme.
J'apporte le salut, j'apporte le dictame,
Gloire à Dieu! Joie á tous! Les cœurs, ces durs rochers,
Fondront. Je couvrirai l'univers de bûchers,
Je jetterai le cri profond de la Genèse:
Lumière! et l'on verra resplendir la fournaise.
...
Je ferai flamboyer l'autodafé suprême,
Joyeux, vivant, céleste! — O genre humain, je t'aime.
* * *
Certamente, a questo modo, Torquemada è una nobile creazione, forse più vicina al vero di quello che molti non credano; e l'averlo così concepito, serenamente, senza preoccupazioni umanitarie, fuori da qualunque rancore politico e religioso; e il non aver visto in esso null'altro che l'altezza del giustiziere che percuote inesorabile, perché ama fortemente, che ammazza il corpo, l'accidente, perché vuol salvar l'anima, l'essenziale, è un lampo di genio degno di Victor Hugo e di qualunque altro grande poeta. Lo Shakespeare, il gran creatore di uomini, non l'avrebbe concepito altrimenti.
Senza dubbio, a tanta forza d'ideale celeste, lo Shakespeare avrebbe mescolato qualche cosa di umano. Un'ombra di dubbio, un lampo d'esistenza sarebbe venuto di tanto in tanto a turbare quelle fibre tese, a battere all'uscio di quel cuore così violentemente chiuso ad ogni sentimento di terrena pietà.
Lo Shakespeare non ci avrebbe dato un Torquemada tutto d'un pezzo, senza scoraggiamenti, senza paure. Si sarebbe rammentato che ci fu un tempo in cui il Torquemada della storia tremava per la sua vita e non osava fare un passo senz'essere scortato da quaranta famigliari dell'Inquisizione a cavallo e da dugento pedoni; si sarebbe rammentato che il grande Inquisitore, accoppiando all'assoluta certezza della fede le superstizioni dell'alchimia contemporanea, teneva sempre sul tavolino un dente di liocorno per difendersi colla supposta virtù di esso dalle insidie dei veleni.
Ci avrebbe dato, insomma, una creatura vivente, non un'astrattezza.
— Prendetelo qual è, dramma, lirica, poema, visione; a me non ne importa nulla. È il mio concetto, la mia emozione, la mia parola; non cercate altro; vi basti.
No, non può bastare; perché non c'è forza di genio, né splendore di immagini, né musiche beethoveniane di verso che possano supplire a quello che rappresenta l'assoluto nell'arte: l'organismo, la forma.
E poi, un dramma dev'essere un dramma, non lirica, non epopea. Non basta prendere tre concetti e metterli in riscontro o anche in lotta, per poter dire: ecco la vita; il dramma è qui! Nel mondo del pensiero, può darsi; nel mondo dell'arte, no davvero.
È puerile, o senile (a vostra scelta), il figurarsi che chiamando Francesco di Paola il concetto astratto dell'ascetismo egoistico, occupato soltanto della propria salvezza spirituale; che chiamando Borgia il concetto astratto del godimento fisico e bestiale dei piaceri della carne; che chiamando Torquemada il concetto astratto del veggente che abbraccia col suo slancio di amore tutte le umane creature, si sia fatto quanto occorreva per la trasformazione di tali concetti in realtà artistiche viventi. Ci vuole ben altro.
Perciò, incontrando nel secondo atto queste tre parvenze, non restiamo illusi un momento. E allorché sentiamo dire da Francesco di Paola, col suo sorriso di santo:
Fils, toujours pardonner et toujours espérer,
Ne rien frapper, ne point prononcer de sentence,
Si l'on voit une faute en faire pénitence,
Prier, croir, adorer. C'est la loi. C'est ma loi.
e sentiamo Torquemada rispondergli:
Mais qu'est-ce que tu fais de tes frères les hommes?
...
Tu n'as donc pas en toi, comme le Dieu qui crée,
Une paternité formidable et sacrée?
Et la famille humaine est-ce que ce n'est rien?
Mais ori a soin d'un bœuf! Mais ori guérit un chien!
Et l'homme est en danger! Tu n'as donc pas d'entrailles!
...
Ces petites enfants, ciel! être à jamais brûlés!
Toutes ces femmes, tous ces veillards, tous ces hommes,
Tous ces esprits, tomber aux hurlantes sodomes!
Courez! Sauvez á coups de fourche ces maudits,
Et faites les rentrer de roce au paradis!
e allorché, venuto terzo fra loro, il Borgia canta il suo inno epicureo alla vita, al piacere, al trionfo dei sensi:
Je suis une faim, vaste, ardente, inassouvie.
Mort, je veux t'oublier; Dieu, je veux t'ignorer!
e il santo domanda, atterrito:
noi restiamo freddi, diffidenti, come dinanzi a tutto quello che è pura declamazione, puro sfoggio di concetti, pura rettorica insomma.
* * *
E così, quel grand'uomo d'azione che fu Torquemada, non fa quasi altro che recitar splendide tirate in tutti i cinque atti del dramma.
Al poeta è parso sufficiente mettergli attorno le marionette di Ferdinando, della regina Isabella, del marchese Fuentel e di Gucho il buffone del re; gli è parso sufficiente dar in preda alla mistica esaltazione di lui i due poveri amanti Don Sanchez de Solinas e Dona Rosa d'Orthez, ombre preraffaellesche, che per salvarlo dall'in pace a cui egli era stato condannato dai superiori del suo ordine, han sollevato la lastra sepolcrale con l'asta di ferro d'una croce.
Che vorremmo di più? Il poeta, ormai lo sappiamo, non cerca una realtà artistica ma un velo che adombri il suo concetto, ma una immagine senza consistenza che lo lasci agevolmente trasparire. Non gli preme che quello, soprattutto. Il resto è una concessione che egli ci fa, a malincuore. Perciò tutto gli par buono e sufficiente, anche il bambinesco, anche l'assurdo.
— Vous me sauvez. Je jure, enfants, de vous le rendre!
dice Torquemada, sulla fine del prologo, ai due giovani innamorati.
E parecchi anni dopo, nel punto in cui questi trepidano sotto la minaccia di un grave pericolo, nel punto in cui la loro felicità di amanti, la loro vita, tutto, pende da un filo attaccato alle mani onnipossenti di lui, una parola, un ricordo sfugge dal labbro a Don Sancio:
Oui, j'ai pris la croix, bon levier, certe,
Et grâce á cette croix la tombe s'est ouverte,
Et vous êtes sorti du sépulcre, vivant.
Torquemada (á part). O ciel! Ils sont damnés!
Don Sanchez. A nous deux, moi levant
La pierre, elle pesant sur la sbarre et penchée,
Torquemada. (á part). Une croix arrachée;
Sacrilège majeur! Le feu, l'éternel feu
Sous eux s'entr'ouvre! Ils son hors du salut!
...
Une croix! — C'est égal. Sauvons-les. Autrement.
Don Sanchez. Notre salut, c'est vous, seigneur.
Torquemada. Soyez tranquilles,
E mentre i due amanti, ebbri di felicità, si mormorano nell'orecchio le più soavi parole d'amore, ecco apparir da lontano e appressarsi lentamente i familiari della Santa Inquisizione, colla loro bandiera nera e su una testa di morto fra due ossi in croce per stemma.
- Cielo! - Esclama Don Sancio, spaventato.
* * *
Tutto questo è artificiale, meschino, supremamente ridicolo. Quel Torquemada che ha indetta la sua crociata contro il peccato, contro la bestemmia, contro i brutali rinnegatori del sangue di Gesù; quel Torquemada che accende roghi, che bolla col marchio rovente, che imprigiona, che confisca in nome e per conto della giustizia di Dio; quel grande inquisitore, quel gran teologo può dunque, tutto ad un tratto, precipitar dalla sua altezza, diventare un volgare superstizioso, un gretto casista, un frate imbecille, non distinguere tra una buona intenzione e un peccato mortale, e mandar al rogo due giovani belli ed amanti, la stessa innocenza, la stessa purità?
Ma Vittor Hugo non se ne cura.
Torquemada che soffoca ogni suo sentimento di gratitudine quando c'è Dio da vendicare; Torquemada che non si lascia commuovere dalla giovinezza, dalla bellezza, dall'amore, neppur dall'incoscienza del male, è senza dubbio il sublime della follia del divino...
Sì, senza dubbio. Ma la forma, ma la vita? Il poeta voleva darci, mi pare, un'opera d'arte; un dramma... se non m'inganno...
Ed ecco a quale vacuità di frasche rettoriche egli ha potuto ridurre una concezione nuova, arditissima, profondamente vera e drammaticamente sublime.
O poeti, o artisti, piccoli e grandi,
Discite iustitiam moniti et non temnere divos!