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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Se non sbaglio, questo è il secondo romanzo giapponese che vien tradotto in una lingua europea.
Il primo tentativo fu fatto dal Pfizmaier nel 1847, quando diede alla luce in Vienna un racconto di Tane Hico pubblicato al Giappone nel 1821. Il nostro Severini lo tradusse in italiano, correggendo i mille errori d'interpretazione del testo nei quali era incorso il professore tedesco; ma confessò schiettamente che in molti luoghi anche egli non era arrivato a capire, e che per parecchi altri dubitava di avere ben reso l'originale.
Il racconto di Tane Hico è una graziosa storia di amore che i colti lettori certamente conoscono col titolo Uomini e Paraventi, abbreviato dal vero titolo, un po' lungo: Sei paraventi proposti a regola della fugace vita. Chi ha un'idea dell'ingenuità raffinata della pittura giapponese, la ritrova quasi identica nella forma letteraria del romanzo. Non faccia specie quel raffinata accoppiato ad ingenuità; nel Giappone è così. Pittura e letteratura non sono tanto rozze e primitive da non rivelare una più progredita abilità di esecuzione, una meravigliosa complicazione di processi e di ricerche, una delicatezza e una squisitezza di sentimento che certe quasi incredibili puerilità di mezzi e di forma contribuiscono a rendere più attraenti per noi.
La storia della simpatica Misávo (Modesta) è un vero idillio dirimpetto alla tragica narrazione dei Fedeli rônini di Tamenaga Shounsoni, della quale intendo ora dar qualche ragguaglio.
Peccato che questa volta non ci troviamo faccia a faccia con un'opera d'arte giapponese quale uscì dalla penna del suo autore! I traduttori si son creduto in obbligo di facilitarne, a modo loro, l'intendimento ai lettori europei: e per scansare le note a piè di pagina e una breve introduzione sulla storia dei quarantasette rônini, hanno commesso il sacrilegio artistico di rimaneggiare tutto il lavoro, spostando l'ordine dei capitoli e colmando le pretese lacune con estratti di altri lavori innestati nel testo.
Non conoscendo l'originale, è impossibile rendersi conto fin dove sia arrivato quest'atto di vandalismo; certamente esso ha tolto alla narrazione gran parte di quella caratteristica particolare che ne avrebbe formato il maggior pregio. La quale però dev'essere grande davvero se, a dispetto di tante violazioni, rimane ancora abbastanza spiccata da darci alla lettura un sapore affatto nuovo ed esotico che diletta e sorprende.
La storia dei quarantasette rônini è popolare al Giappone. La breve prefazione dell'autore dice:
«Nella mia infanzia, durante le lunghe serate d'inverno, quando la lampada accesa dentro la lanterna di carta rischiarava appena colla sua dubbia luce le figure dipinte sui paraventi, spesso, seduto accanto al braciere, cogli occhi pieni di un rispettoso terrore, io ascoltavo dalla mia venerata madre la narrazione delle avventure dei quarantasette rônini, che, in compenso dell'oscurità della stanza, m'illuminava lo spirito coi raggi della fedeltà».
Infatti essa è una meravigliosa storia di fedeltà, come poteva ispirarla quel sistema feudale che esercitò per più di settecento anni la sua straordinaria influenza sul Giappone. Oggi quel mondo feudale è un ricordo storico anche là; ma le tombe dei quarantasette rônini continuano ad essere tuttavia oggetto di venerazione e di culto.
«Furono uomini leali e perciò patriotti! Essi han dato un esempio che sarà sempre imitato, e verrà tempo in cui il loro valore sarà riconosciuto anche in alto». Questo scriveva l'autore nel 1848; e nel 1869 il Mikado Montsouhito insigniva la tomba del capo dei rônini dell'Ordine della Foglia d'Oro, adempiendo appuntino la profezia del romanziere.
Rônini vien chiamato quel samurai — nobile — che per qualunque cagione trovasi sciolto dal diretto legame del vassallaggio verso un principe — daïmio.
Il motivo che fece diventar rônini i samuraï del principe d'Ako fu il seguente.
Nel dicembre del 1698 il presidente del Consiglio degli Anziani di Yedo, saputo che dovevano arrivare alla Corte dei Taicum tre inviati della Corte imperiale di Kioto, destinò a riceverli Asano-Takumino-Kami (Campomattino) principe d'Ako e il principe Kamai Suma (Pozzo della tartaruga). — Essi dovevano prendere gli ordini dal Kira, Gran cerimoniere del Taicum.
Avido, venale, insolente, il Kira ricevette con tale aria di disprezzo i regali che i due principi gli presentarono, e trattò essi stessi con sì rozza alterigia che questi perdettero la pazienza e decisero di vendicarsi ammazzandolo.
Il primo consigliere del principe Kamai Suma capì subito il pericolo in cui si trovava il suo signore, e pensò di presentarsi segretamente al Kira con ricchi doni che disse inviati direttamente da quello.
Il principe Asano Takumi-no-Kami non fu così fortunato. Il suo primo consigliere era lontano. Pure, siccome questi conosceva benissimo l'avida natura del Kira, pensò d'inviare un messo con dugento rios d'oro ai due consiglieri che stavano presso il principe, ordinando che li presentassero subito al Kira come regalo del loro signore.
I due consiglieri stimarono che dare al Kira quel denaro equivaleva a buttarlo in mare; e così, per la loro stupida tirchieria, produssero la rovina del principe d'Ako. Infatti, la mattina dopo, Sua Eccellenza Kamai Sama fu ricevuto dal Kira con grandissimi segni di rispetto, mentre Sua Eccellenza il principe d'Ako fu trattato peggio del solito.
— Principe d'Ako, mi si è sciolto il nastro di un calzaretto; annodatemelo.
Il principe si rassegnò anche a quest'insolenza, giurando in cor suo di farne vendetta più tardi.
— Come siete goffo questa mattina! - soggiunse il Kira. - Sembrate un contadino!
Il principe non ne poté più e tirò fuori la sua sciabola:
— Difendetevi, cavalier Kira! Io non sopporto simili affronti!
Il Kira, invece, cominciò a urlare, cercando di scapparsela, già ferito alla testa; e il principe l'avrebbe finito, se un ufficiale accorso agli urli non lo avesse trattenuto pel braccio.
Un'ora dopo il principe d'Ako riceveva l'ordine di ritirarsi nella sua residenza e di considerarsi come prigioniero.
La prigionia e la morte del principe occupano il secondo capitolo del romanzo, uno dei più belli di tutto il libro. Credo far cosa grata ai lettori, dandone un lungo brano; così potranno formarsi un concetto più immediato del romanziere giapponese.
Il principe d'Ako aspettava tranquillamente la sentenza del Consiglio degli Anziani; vestito del suo abito ufficiale, ginocchioni presso un piccolo tavolino, intingeva nell'inchiostro il suo pennello. Egli scriveva con rapido movimento una poesia ispiratagli dalla pianta di man-rio dalle diecimila bacche d'oro che trovavasi sul davanzale della finestra colle foglie coperte di neve: «Il man-rio cresce e si abbellisce sotto le nevi dell'inverno. — L'ingiustizia contro il suo signore rivela e accresce la fedeltà del samurai». Terminato di scrivere, egli voltò la testa verso la pianta, e «il sole nascente inondò coi suoi raggi obliqui quella scena, e fece scintillare i cristalli della neve come grappoli di stelle.
«Mentre il padrone era assorto nel suo geniale lavoro, le persone di casa andavano e venivano, silenziose, occupandosi delle faccende domestiche. Nessuno cantarellava nella cucina, nessuno per le stanze alzava la voce; non si sentivano che susurri. L'uscio principale era chiuso. Davanti di esso era stata costruita una barriera provvisoria di bambù verde per indicare che il principe era prigioniero. Un amico di famiglia, che aveva prestato cauzione per lui impartiva gli ordini, e accordava i permessi di entrare e di uscire. Una profonda tristezza regnava in tutta la casa; solo il capo di famiglia era calmo.
Nel mezzo del suo dolce fantasticare, un paravento fu rimosso con cautela dietro di lui, e la principessa Belviso, sua moglie, entrò nella stanza. L'aspetto della principessa rivelava il gran turbamento del suo cuore. Ella si avanzò verso il marito, si lasciò cadere con abbandono sul pavimento, e, chinata la fronte fino a toccare la stuoia, con voce commossa disse:
— Spero che il mio Signore si senta bene!
Il principe la guardò teneramente, e rispose:
— Sto bene, Belviso. E voi perché siete così triste?
La principessa represse il suo dolore e disse:
— Mio signore, come potrei mostrarmi lieta, mentre un pericolo vi sovrasta?
Benché commosso da quelle parole, egli non lasciò trasparire nessun turbamento; ma invitandola ad avvicinarsi, le additò i versi che aveva scritto.
La principessa Belviso lesse, lentamente; poi, levando gli occhi verso suo marito:
— Ah, mio signore esclamò; — voi vi aspettate la più grande sventura! Il Kira è onnipotente presso il Taicum, e i suoi amici faranno ogni sforzo per schiacciare la casa d'Ako.
— Non abbiate paura, Belviso. Ma io sono inquieto per voi. Io so quello che avviene in questo momento nell'animo vostro. Le vostre azioni vi tradiscono.
— Sì — e mostrò il man-rio. — Voi non potrete mai ingannarmi. Ieri sera, nel ripulire questa pianta, vi siete servita di uno dei vostri spilli per togliere una bacca inaridita e avete lasciato sull'orlo del vaso quel piccolo arnese di toletta: poi vi siete scordata di riprendere anche i vostri fazzoletti di carta: sono ancora lì.
— Che dimenticona! — esclamò la principessa, fissandolo con uno sguardo pieno di tristezza. — Tutti potrei ingannare, ma non voi!
E pronunziando queste parole, chinò la testa, posò le mani sui suoi ginocchi e vi appoggiò la faccia. Il principe la guardò con gli occhi quasi in lagrime, e le mise una mano sulla spalla.
— Belviso — le disse — l'uccello scacciato dal suo nido trova sempre qualche ricovero nelle tempeste. Qualunque cosa accada, io desidero che voi accordiate piena e cieca confidenza al mio primo consigliere Roccagrossa... È un uomo che vale milioni, bravo, onesto, ricco di risorse, paziente nelle difficoltà, insomma, un vero uomo di Stato.
— Un uomo di Stato! — ella esclamò. Ma perché dunque non ci difende dal presente pericolo?
Il principe Campomattino non le fece nessun rimprovero per quel grido di donna e di sposa; si contentò di rispondere:
— Son certo che il Roccagrossa ha fatto il suo dovere.
La principessa abbassò la testa e si afferrò, convulsa, al marito, sapendo bene che fra non molto dovea dividersi per sempre da lui. Il principe si sforzò di darle coraggio, e quando fu un po' calma la condusse per mano verso l'uscio dicendole:
— Belviso, io vi manderò a chiamare più tardi. Mi accorgo che in tutta la notte non avete chiuso occhio. Andate a letto e cercate di trovare qualche ristoro nel sonno.
Ella entrò barcollando nel corridoio, e, gettandosi sul pavimento, lo salutò coi singhiozzi, come se il cuore fosse per scoppiarle. La sua prima dama di compagnia si avanzò rapidamente, chiuse il paravento che separa le due stanze, e così nascose agli occhi del suo signore quel doloroso spettacolo».
Poco dopo arrivarono i commissari del Consiglio degli Anziani. Ricevuti nella gran sala con tutti gli onori di rito, essi diedero a leggere al principe la sentenza del Consiglio. Il principe la portò riverentemente alla fronte e poi la scorse senza mostrare nessuna commozione.
«Mi si condanna a darmi la morte — egli disse, — e mi si annuncia la confisca dei miei beni e l'estinzione del nome della mia famiglia. Mi sottometto, rispettosamente.
— In questo caso siamo pronti a farvi da testimoni — rispose impassibile il capo dei commissari.
Un paravento fu rimosso: tutto era preparato per la solenne cerimonia. Il principe si cavò l'abito ufficiale: avea già indosso sotto di quello il shisomoukou (abito bianco che si mette pel lutto o pei sacrifizii). Sedette sulle grosse stuoie, e fece segno a due samuraï del suo seguito di accostarsi.
— Col vostro permesso — disse rivolgendosi ai commissarii — darò le ultime istruzioni ai miei consiglieri.
Parlò a bassa voce, poi consegnò ad essi una piccola cassetta di legno bianco di pino insieme con una lettera che avea cavato dal seno.
I due samuraï si allontanarono con riverenza.
Era una scena commoventissima. Nel centro stava il principe, in ginocchio, calmo e risoluto: di faccia a lui i commissari, seduti, severi e freddi: dietro a lui i fedeli samuraï; prosternati, pronti a rendere al loro capo gli estremi onori.
Fuori, tutto era tranquillo. Un leggiero strato di neve copriva il suolo. Nella casa regnava un silenzio di morte. I samuraï serravano forte i denti e si torcevano le dita dal dolore; ma dalle loro labbra non scappava neppure un sospiro.
Il principe Campomattino contemplò dai paraventi aperti a metà il magnifico spettacolo che si stendeva fuori sotto i suoi occhi e dato ad esso un muto addio, portò la mano, con aria calma, al pugnale che aveva a destra...».
Da quel giorno in poi i fedeli samuraï; diventati rônini per la confisca dei beni e l'estinzione del nome del loro signore, non pensarono che a vendicarne la ingiustissima morte. Il consigliere Roccagrossa diresse le fila della congiura. Per addormentare i sospetti del cavalier Kira che non usciva più di casa ed era sempre circondato di guardie, i fedeli rônini si dispersero; e travestiti, esercitando umili mestieri, osservavano le minime mosse dell'infame nemico del loro capo. Il consigliere Roccagrossa, che si sapeva particolarmente sorvegliato dalle spie del Kira, finse di abbandonarsi ai liquori inebbrianti, alle donne di mal affare; ripudiò la moglie, sopportò perfino gli insulti dei suoi compagni, che, ingannati anch'essi dall'apparenza, lo credettero dimentico del suo giuramento di vendetta. Ma il giorno che il cavalier Kira si stimò sicuro e accettò un invito in casa di suo genero, il consigliere Roccagrossa convocò rapidamente i rônini rimasti fedeli (erano quarantasei) e con essi assaltò di notte quella casa, scovò il vile Kira in un ripostiglio di carbone dove s'era nascosto; e, siccome invitato a darsi la morte quel vile non ne avea il coraggio, egli lo uccise e gli staccò la testa per portarla, in offerta, alla tomba del suo signore.
I quarantasette rônini andarono la mattina dopo a fare un solenne sacrifizio su quella tomba, nel cimitero del tempio di Sengakugi; e lì aspettarono tranquillamente che i soldati del Taicum venissero ad arrestarli.
Quando ebbero comunicata la sentenza che li condannava a compiere l'harakiri, cioè il suicidio aprendosi il ventre, essi non domandarono altra grazia che di esser sepolti presso la tomba del loro capo.
Nello stesso giorno, alla stessa ora «prima che i rintocchi delle campane del tempio avesser cessato di vibrare nell'aria, quarantasei ombre, condotte dall'ombra del consigliere Roccagrossa, si disposero in riga e s'incamminarono per la Via solitaria. Insieme montarono la collina della Morte; insieme fecero alto nel punto dove le tre vie si incontrano, si spogliarono delle loro vesti bianche e le diedero a Sanzouno-Baba. Poi, lanciandosi arditamente nella trista riviera, passarono nel Gokurakou (Paradiso), ove furono bene accolte dallo spirito del loro amatissimo signore».
Le diverse avventure dei rônini mentre cercavano di raggiungere il loro scopo, porgono al romanziere l'occasione di fare una svariata e vivacissima pittura della vita giapponese di tutte le classi. Mi duole che la tirannia dello spazio non permetta di dare estratti di altre caratteristiche scene; scene altamente tragiche come quella dove la vecchia madre del cavalier Comunale, uno dei rônini, si ammazza per levar al figliuolo l'ostacolo del suo affetto che poteva farlo esitare nell'intrapresa vendetta; scene divertenti come l'episodio del dottor Villa-Farfalla, un ciarlatano che può dar dei punti ai suoi colleghi europei; scene di passione gentili come l'altro episodio graziosissimo della signorina Tranquilla; scene dove anche il supernaturale ha la sua parte, quando il dio Volpe prende le sembianze di un familiare del cavalier Fianco della Costa, caduto ammalato d'occhi lontano dalla sua famiglia, e lo serve umilmente fino all'arrivo di quel familiare che così fa scoprire lo strano raddoppiamento di persona.
«Se il lettore desidera assicurarsi dell'autenticità del fatto — aggiunge a questo proposito l'autore, — vada nel quartiere della Collina blu; vi troverà l'altare che gli abitanti del vicinato mantengono con molta cura. E con tutto questo c'è ancora degli scettici che ghignano quando si parla del potere soprannaturale del dio Volpe!».
Le tombe del principe d'Ako e dei quarantasette rônini esistono ancora nel cimitero del tempio di Sengakugi, sotto l'ombra de' pini maestosi, circondate da un ricinto di pali. In un cortile del convento presso una cappella dedicata al bosatù Kuau-où veggonsi le loro statue abilmente scolpite in legno, colle faccie dipinte, cogli abiti riprodotti benissimo in lacca e l'arma prediletta a ognuno di essi.
Nei Tales of old Japan del Mitford si legge che nel 1868 un rônin andò ad aprirsi il ventre fra quelle tombe perché avevano rifiutato di accettarlo fra i samuraï della famiglia Coscia di Nagato ritenuta da lui la più nobile del paese. Il Mitford potè vedere le reliquie dei rônini gelosamente conservate e prender copia di alcuni manoscritti che trovansi fra esse.
Quell'eroismo, già diventato leggendario, scalda le immaginazioni popolari e prende quasi forma di un mistero religioso. Forse per questo è proibito di far conoscere i veri nomi dei rônini e alcuni episodî dell'impresa. Le molte versioni spurie della storia dei quarantasette devon esser prodotte da tale divieto.
Pare che il romanzo del Tamenaga sia una delle versioni più pure. Ve n'ha alcune dove tutto è arruffato in modo da rendere il racconto irriconoscibile. Un principe giapponese e la sua Corte nel secolo XV del professor Severini è appunto la traduzione di una di queste; ma non ho potuto vederla.
Dirò, per finire, che i lettori italiani leggerebbero certamente con vivissimo interesse la storia dei fedeli rônini tradotta nella loro lingua. E se a questo lavoro volesse dedicarsi il nostro valente professor Severini, sarebbe superfluo il raccomandargli di darci una semplice letterale traduzione e non un sacrilego rimaneggiamento simile a questo che il giapponese Shiouichiro Saito e il signor Edward Grecy hanno osato di fare.