IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Come è triste il rovistare dopo più di venti anni nelle carte di un amico morto nel fiore della giovinezza!
Dentro la dubbia luce dei ricordi quella amata persona riviveva, di tanto in tanto, con la evidenza di un'allucinazione e facea sussultare il nostro cuore. Un gesto, un motto, un aneddoto, e la gentile figura ci sorrideva, fugacemente, quasi per ringraziarci di averla evocata; e per qualche tempo, dentro e attorno, ci lasciava come uno splendore di altri giorni, come un profumo di altre primavere; sensazione dolce e penosa nello stesso punto, perché il passato prende sempre qualcosa delle misteriose attrattive dell'avvenire — una venatura, una sfumatura — per cui ci sembra assai migliore del presente, anche quando il presente lo superi in bontà fuor d'ogni confronto.
Poi, un giorno, ci capita tra le mani un oggetto, uno schizzo, un fascio di carte che ci riaccostano in un modo più immediato a quella figura indecisa che si moveva fra le nebbie della memoria, ingrandita dalla mancanza di contorno, col fascino della cosa intravveduta; la malìa si rompe, la figura riprende le giuste proporzioni della realtà, e noi proviamo la fredda sensazione di un distacco immenso.
Quel fantasma era dunque una creazione incosciente della nostra immaginazione, uno strano lavoro di sensazioni e sentimenti nuovi, avvenuto di mano in mano che noi ci siamo andati trasformando nella terribile lotta per vivere ed anche le sensazioni e i sentimenti del nostro passato si son trasformati con noi? Che desolazione! Che rovine! E come il superbo rigoglio della vita nuova trionfante ci pare un vigliacco insulto a quanto cadde per via!
Leggiamo, commossi, tutti quei fogli che furono gran parte di quell'amata persona, forse la miglior parte, ma stentiamo a riconoscerla in essi; la pietà si trasforma a poco a poco in un sorriso più doloroso della pietà stessa! Come? Era questo che ci commoveva, ci esaltava? Tutta la nostra vita di allora si agitava dentro così breve sponda? E bisogna proprio far uno sforzo di riflessione per domandarci severamente; ma, è poi vero che siamo migliori ora, uomini fatti, di quando eravamo appena fanciulli?
Così mi è accaduto leggendo l'affettuoso scritto del signor Russo intorno a Beppino Macherione, un poeta siciliano morto a ventun'anni nel 1861 a Torino.
Io conobbi il Macherione nell'Università di Catania. Da principio quella sua figura bruna, pallida, cogli occhi un po' velati dalle palpebre, coi capelli neri lasciati crescere alla moda dei romantici del 1830, mi era riuscita un po' antipatica, pei capelli soprattutto. Ma quando potei avvicinarlo, ci legammo d'una amicizia forte e sincera che soltanto la morte spezzò.
Allora facevo anch'io dei versi e credevo che non avrei fatto mai altro per tutta la vita. E come seppi che il mio nuovo amico ne aveva già pubblicato un volume, fui preso da un specie di venerazione per lui che aveva già stampato! Florido di salute, gl'invidiavo quella tinta di persona malaticcia; con un precoce istinto di osservazione che indicava un certo equilibrio dell'organismo, mi arrabbiavo di non provare anch'io quei brividi che scuotevano tutta la persona del giovane poeta quando la sua sensibilità veniva esaltata da un'impressione che mi lasciava freddo e indifferente.
In realtà egli aveva provato delle forti scosse. Aveva perduto la madre e una sorella colpiti da tisi; uno dei suoi fratelli era morto annegato fra gli scogli ove era andato a prendere un bagno. Egli stesso portava dentro di sé i germi micidiali che dovevano così rapidamente ucciderlo a Torino quattr'anni dopo.
* * *
Quello che ci aveva legati strettissimamente era stato questo.
Una mattina l'avevo visto entrare nella mia camera di studente con un'aria misteriosa. Avea chiuso l'uscio con cautela e poi, tirato fuori da una tasca interna del vestito una lettera, mi avea domandato:
— Vuoi firmarla anche te?
Era diretta al Guerrazzi. Gli si mandava un saluto da quell'estremo lembo di Italia per dirgli che ci sentivamo italiani anche noi e che speravamo di poterlo affermar presto davanti la sacra faccia del sole. La lettera era firmata dal Macherione e da altri quattro o cinque nomi, fra i quali ricordo quello di Francesco Tenerelli ora deputato al Parlamento.
Allora questo era un atto audace, e noi ci sentivamo superiori a noi medesimi nel compirlo. Verso le 11 antimeridiane dello stesso giorno ci riunimmo alla Marina, ad uno ad uno, come dei congiurati che volessero ingannare la sorveglianza della polizia. Bisognava andare a consegnare quella lettera e il volume delle poesie di Beppino al capitano di un legno mercantile genovese ancorato nel porto, presso la banchina, dove prendeva il suo carico di zolfo. Una grossa tavola metteva in comunicazione la banchina col legno e si piegava sotto il passo dei facchini che andavano e venivano colle grosse lastre dello zolfo sulla spalle e coi sacchi vuoti sul braccio. Due poliziotti sorvegliavano l'operazione e parevano messi lì apposta per noi.
Ci accostammo, fingendo indifferenza. Poi il Macherione disse:
— Non ho mai visto caricare una stiva: montiamo?
— Senza il permesso del capitano? — rispose uno di noi.
— Non sarà così scortese da mandarci via.
E montò, ridendo; noi gli andammo dietro, barcollando sulla tavola che dondolava.
Il capitano, uno dei tanti Capitan Dodero della Riviera, ci accolse gentilmente. Avendo manifestato lo scopo della nostra visita, ci rispose che egli non conosceva personalmente il Guerrazzi, il quale non dimorava in Genova ma in Livorno, dove il bastimento non approdava. Però si incaricava di fargli recapitare la lettera e il volume: era orgoglioso di poter servire a quello scambio di generosi sentimenti.
Non capivamo dentro i panni, dalla gioia. Quella cabina ci sembrava un pezzetto della libera terra genovese: e vi facemmo dei brindisi all'Italia, un po' sottovoce sì, ma coi cuori in fiamme e colle labbra scottate dai forti liquori del capitano.
Due mesi dopo il Guerrazzi rispondeva da Livorno al Macherione, ringraziando tutti dei saluti e lui anche del regalo. E quella lettera fu un altro talismano che ci unì più fraternamente.
* * *
Le questioni di arte che ci appassionano e ci dividono ora, in quei tempi, che sembrano lontani più di un secolo, non si sospettavano neppure. La nostra cultura letteraria era molto scarsa e in gran parte sbagliata; quelli che abbiam voluto, bene o male, continuare, come si dice, a coltivar le lettere, abbiamo dovuto poi rifarla (qualcuno più volte) da capo. In poesia eravamo romantici; in filosofia, giobertiani, e ci pareva un'arditezza; in politica, monarchici e moderati, e (cosa notevole) siamo quasi tutti rimasti tali fino al presente. Ci fu un tempo in cui Augusto Conti fu, per noi che non avevamo avuto agio di passare oltre i primi principi della filosofia, un rivelatore, un maestro. Questo filosofo che avea combattuto a Curtatone ci sembrava un fatto sorprendente; questo cattolico, che non era papalino e parlava della nostra patria italiana, si staccava di mille miglia dai nostri professori di filosofia, monaci o preti. C'è voluto del tempo per capire che qualcuno dei nostri monaci e preti era più libero filosofo di quel volontario di Curtatone immiserito dalla scolastica e dal senso comune, quando tra i nostri aleggiava da un pezzo lo spirito metafisico del Miceli, un Hegel prematuro.
Ma, infine, della filosofia ce ne preoccupavamo assai poco: non sognavamo che l'Arte! L'Arte civile, l'Arte battagliera, l'Arte redentrice, alla Berchet, alla Niccolini, alla Guerrazzi, alla Prati, il Prati dei Canti politici.
I versi del Macherione, che oggi passerebbero affatto inosservati, in quel tempo erano notevolissimi per quell'intimo calore da cui veniva rivelata nell'ingegno rude la vigoria naturale che nessun insegnamento può comunicare. Leggendo i brani di componimenti riportati dal Russo nel suo lavoro, ho provato un sentimento di grande tristezza, come davanti ai frantumi di un naufragio.
Bisogna aver vissuto la stessa sua vita, bisogna aver provato in qualche modo le sue stesse commozioni per non giudicare cose fredde e sbiadite quei canti che sgorgavano come lava dal cuore vulcanico del giovane poeta. In che modo la nuova generazione saprebbe ricostruirsi quell'ambiente, per giudicare con serenità le prime prove del Macherione? Oggi è un altro mondo. La vita ha altri ideali, altre esigenze; l'Arte, altre tendenze, altri metodi, altra coscienza. Che importerà di quei vecchi tentativi alla presente generazione impegnata in lotte ben diverse e interamente assorbita dall'affrettata attività del presente?
Perciò oggi si sorriderà nel sentire che il Macherione sognava un poema sulla Lega Lombarda, come altri sognava un teatro storico da far un riscontro ai grandi drammi shakesperiani, una vera storia d'Italia drammatizzata. Si sorriderà leggendo quel brano dei Ricordi del Macherione dove dice: l'anno scorso mi balenò un concetto grande, ma di difficilissima esecuzione. Ideavo, stendevo un Dramma-poema; argomento doveva esserne l'Italia; personaggi umani e supernaturali, presenti, passati e futuri, Dio e Satana, la Libertà e la Fatalità, Romolo e Numa, Tarquinio e Bruto primo, Monarchia e Repubblica... Ogni scena del mio dramma poema conterrebbe uno o più secoli; ogni atto un'êra che produce una rinnovazione nell'interesse di tutta l'umanità; sarebbero quattro o cinque gruppi principali, come la Repubblica, l'Impero, i Barbari, il Papato, la Riforma, la Rigenerazione. La storia d'Italia è la storia del mondo, e il mio lavoro sarebbe nazionale eminentemente al tempo stesso che universale.
Ma quando io penso che anche il suo forte ingegno si sarebbe modificato e rinnovato al soffio dell'arte contemporanea; quando penso che anche lui avrebbe preso larga parte nel lavoro che tutti noi, grandi e piccini, ci sforziamo di condurre innanzi, senza secondi fini, ma col semplice ideale dell'arte davanti agli occhi, sento una pietà immensa pel povero amico colpito dalla fatalità e caduto sui suoi primi passi, per lui che prometteva di essere un valoroso e che era degno di lasciare un'orma incancellabile nella via della gloria!
Il Macherione pareva invaso dalla nera visione della sua fine immatura. La sua tristezza, che qualcuno scambiava con una posa di poeta novellino, era vera e profonda. Nelle nostre passeggiate lungo la spiaggia del mare o per le strade dei sobborghi di Catania, nei più caldi momenti di entusiasmo, egli s'interrompeva per dirmi sconsolatamente:
— À quoi bon? Io morrò presto, senza aver fatto nulla di bello!
Allora egli cercava di vincere l'ossessione di quel presentimento e la sua allegria diventava chiassosa; però ci si vedeva lo sforzo.
Una sera con una comitiva di amici eravamo andati fuor di Catania, a Cibali. Splendeva un magnifico lume di luna e la campagna attorno era tutta profumata dalla zàgara dei giardini. Verso la mezzanotte picchiammo all'uscio di una casa rustica, domandando del vino. I contadini ci apersero, e mentre preparavan le bottiglie e i bicchieri, la casa risuonava dei nostri canti, delle nostre risate. Beppino quella volta era più rumoroso di tutti. Parodiava i professori dell'Università e noi applaudivamo e fischiavamo. La caricatura più riuscita fu quella di un professore di diritto naturale che aveva un tic al collo e alla faccia e si era storto il naso a furia di appoggiarvi un dito o il pomo della mazza da una parte. In quel momento i nostri urli naturalmente raddoppiarono; domandavamo già il bis della lezione parodiata... quando la vecchia contadina che ci aveva aperto venne a pregarci di non fare molto chiasso:
— Su c'era il professore che dormiva.
— Quale professore?
— Il professore Pizzarelli, il padrone. Era lui! Tableau.
* * *
E fu quella una delle ultime volte che io vidi il Macherione.
Il sessanta ci disperse chi qua, chi là. Egli fu un po' volontario tra le squadre che si riunirono attorno a Messina prima della giornata di Milazzo, poi giornalista serio e coraggioso. Ma la vita nuova lo attraeva al centro, a Torino ancora capitale. I medici, gli amici lo sconsigliarono invano. Vi morì serenamente la sera del 21 maggio 1861.
Oggi questo vinto nella lotta della vita rivive per poco nell'affettuoso lavoro del professore Russo, e l'averlo ricordato è opera di gratitudine e di pietà di concittadino.
Ma io credo che basti. Col pubblicare gli scritti editi e quelli lasciati inediti dal Macherione, come pare n'abbiano l'intenzione, non si gioverà in nulla alla sua fama. La storia, spietata e inesorabile al pari della Natura, si inchina soltanto ai forti vittoriosi.