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Wil'hem Getziier è figlio di un povero pastore protestante nel piccolo villaggio di Ærhielsberg. Nato il 29 maggio 1839, ebbe a maestro suo padre che intendeva di farne un pastore come lui. La madre, una giovane donna assai colta, gl'insegnò la musica e il disegno. Visse fino ai diciott'anni una vita, com'egli dice, quasi selvaggia, perdendosi ogni giorno per la campagna con un libro sotto braccio e la colazione in tasca. La sera lo coglieva spesso a mezza costa di una montagna, o fra i sentieri intricati d'una foresta. Una impressione di queste corse la troviamo nella sua ode Altitudo:
«Lontano dietro le nere nubi — che serravano sull'orizzonte — le loro fantastiche torri — il sole lanciava i suoi fiammanti — raggi, simili a quelli delle glorie — dei quadri degli antichi maestri.
E laggiù, ai miei piedi, si stendeva — la pianura gibbosa, già accovacciata — sotto le prime ombre della sera, — sotto le ali dell'immenso silenzio — contro cui brontolava, in lontananza, — il mare biancheggiante sulla riva.
E poi dai prati e dalle valli — vedevo sollevarsi lentamente — il latteo vapore della nebbia — che si addensava, si addensava, — come un altro cielo che a poco a poco — inghiottisse nel suo abisso la terra.
E in quell'immensità si perdeva — l'animo mio spaurito e tremante; — e provavo un assottigliarsi — soave di tutto il mio corpo, — come se gli atomi di esso dileguassero — disgregati, via per l'infinito!»
Aveva cominciato a studiare filosofia e teologia: e componeva già delle poesie ma di nascosto del padre, perché questi giudicava la poesia un'occupazione indegna di un vero uomo, d'un cristiano, sebbene il Re David avesse composto i salmi: però non si sapeva se questi fossero stati proprio scritti in versi.
Una mattina (agosto 1857) il Getziier era partito dal presbitero col solito libro sotto l'ascella e la colazione in tasca; ma si era allontanato troppo, e la sera gli fu impossibile tornare a casa. Passò la notte in una capanna di carbonai, facendosi raccontare antiche leggende e ripetere canti popolari. Il giorno dopo, trascinato dalla sua curiosità, andò avanti, sempre a piedi, dormendo nei villaggi e nelle fattorie dove lo sopraggiungeva la notte, sentendosi ricco con quei tre talleri di argento che per caso si trovava nel borsellino. Così un dopopranzo arrivò a Copenhaghen.
«Scrissi subito a mio padre, egli racconta nei suoi Ricordi di giovinezza, domandandogli perdono della mia scappata. Il brav'uomo rispose: «che questa era la volontà di Dio; ascoltassi la voce del Signore che parlava nel mio interno». Niente altro.
Non era precisamente quello che gli occorreva in quel momento; ma egli ebbe la buona idea di presentarsi al dotto pastore Boyerch, vecchio amico della famiglia di sua madre, che l'accolse in casa e l'aiutò in tutti i modi. Due anni dopo il Getziier sposava Iudith Boyerch, la figlia unica del suo protettore, una bionda e linfatica creatura, innamorata di lui e dei suoi versi.
Il primo volume delle poesie del Getziier (1859) fu dedicato alla sua fidanzata:
«Queste melodie che tu ami, o gentile — e che, ripetute dalla tua bocca, sembrano — deliziose anche a me, nella tranquilla e fida — intimità del focolare, possano, o cara — far dire alla gente del nostro paese — che il tuo cuore di amante non si è ingannato!»
L'augurio del poeta non andò a vuoto. I suoi canti ebbero dal pubblico una festosa accoglienza. D'allora in poi, ad intervalli di tre o quattro anni, sono comparsi: Nuvole autunnali (1863) Echi del mondo incivilito (1866), Voci della foresta (1871), tre raccolte dove il Getziier ha tentato quasi tutti i generi poetici, la piccola lirica, la leggenda epica, l'apologo, il dramma medievale, l'idillio, la satira; e sempre con felicissima riuscita.
Getziier è un poeta intimo: ma soprattutto, è un assimilatore, come si compiace di giudicarlo l'alta critica delle riviste letterarie danesi: un poeta, che ha fatto davvero risuonare sotto il fosco cielo della Danimarca gli echi del mondo incivilito (Windspiel). Infatti, ordinariamente, la sua poesia è impersonale. L'anima sua è come uno specchio dove ogni cosa esteriore si riflette nitidamente. L'arte antica, l'arte moderna di tutti i paesi vi hanno lasciato qualche cosa della loro particolare essenza, un balenìo di luce, un profumo, un'impronta; ma quello che in ogni altro rimarrebbe allo stato di semplice imitazione, in lui si trasforma in una creazione geniale che ha tutto il sapore della originalità.
Il suo mistero del Nazzareno pare un mistero medievale, con quella semplicità di forma arcaica che inganna, quasi fosse la voce di un'altra epoca.
«Cogli occhi e cogli orecchi — state intenti ad ascoltare — questa pietosa storia — che noi vogliamo rappresentarvi. — Vedrete nostro Signore — preso, legato, e condannato; — e i veri giudei furono — i miei e i vostri peccati».
Poi comincia l'azione: un'azione che segue passo per passo la narrazione evangelica, mostrando nei sentimenti dei personaggi la rozza ingenuità così propria dei misteri. Ecco la scena tra Pilato e sua moglie:
«La moglie di Pilato. Ho fatto un brutto sogno: — ho sognato un cielo di sangue — e il velo del tempio — che si squarciava in due. — Si spegnevano il sole e la luna — e tutte le stelle del firmamento — e una voce gridava forte:— Pilato ha condannato il giusto!
Pilato. Non ho l'animo tranquillo;— quel nazzareno è innocente.— È forse un poco matto — perché si crede figlio di Dio. — Ma io voglio interrogarlo — per l'ultima volta, e poi — lo consegnerò ai sacerdoti — e me ne laverò le mani».
La moglie insiste; ma Pilato risponde:
«Quando me ne sarò lavato le mani — io non vi entrerò per nulla.
Lasciami in pace, o donna;— ho tanti affari pel capo!— I sogni sono una cosa vana;— sono immagini scappate — dalle case del cervello — che vanno attorno per la mente — finché la ragione dorme.
Sono anche scherzi degli umori caldi e freddi,— o capricci di spiriti — notturni, perturbatori.— Ecco il gran Sacerdote;— lasciami solo con lui.— Non senti fuora il popolo — che urla come mare in tempesta?»
Non posso trattenermi dal trascrivere il coro delle donne gerosolimitane e il lamento di Maria sotto la croce.
«Donne. Che strazio inaudito — vedere il figliuolo di Dio — colla croce sulle spalle — e il volto insanguinato!— Non ha angioli il cielo — o squadre di serafini — per toglierlo alle empie mani — di questi carnefici spietati?
Signore, Signore!— Come siete sfigurato!— Questi non sono i vostri — occhi cerulei sorridenti!— Questa non è la fronte — che pareva un sole nascente!— Questa non è la bocca — che sanava colla parola!»
Commoventissimo mi sembra il lamento di Maria a pié della croce.
«Maria. Figliuolo, mio dolce figliuolo — che pendete da questa croce!— Ecco perché nel seno — vi portai nove mesi!— Ecco perché dal petto — vi diedi il latte nutriente — che vi alimentò — bambino nelle fasce!
Figliuolo, mio dolce figliuolo!— Ecco perché quelle labbra — apersero il sigillo — del sepolcro di Lazzaro!— Ecco perché il vostro sputo — misto a un po' di polvere — rese agli occhi ottenebrati — il soave riso del sole!
Figliuolo, mio dolce figliuolo!— Ecco perché questi piedi — camminarono sulle acque — come su terreno solido!— Ecco perché quel petto — fu pieno di carità — e vi batteva il cuore — più generoso del mondo!
O bionda testa, incoronata — di atrocissime spine!— O smorte labbra amareggiate — dall'aceto e dal fiele!— O mani che acuti chiodi — lacerano ed insanguinano!— O piedi che vi squarciate sotto il peso del suo corpo!
Sono mute quelle labbra, — che ridiedero vita ai morti!— E non hanno neppure una parola — per consolare la madre!— La madre più desolata — che videro cielo e terra!— Oh dite se vi è strazio — che rassomigli questo ch'io provo!»
Ma ecco qui una nota tutta moderna, una serenata del mezzogiorno, che non parrebbe possibile incontrare in Danimarca:
«La luna, dal rotondo — volto, lentamente — si affaccia sulla silenziosa — schiena dei monti addormentati.— La sua pallida luce inonda — valli e pianure che riposano — fra gli abbracci dei fiumi, — coperte di erbe nereggianti.
Con la luna si destano — le aurette tra le fronde — a pispigliare cose gentili, — non fatte per orecchio umano. — Ecco: fra i melogranati — l'usignolo ch'era in attesa — comincia i suoi gorgheggi — simili a sospiri di amore.
Oh, pari al sorriso — dell'aurora in primavera — già si aprì la finestra — nera come la notte! — Già spunta nel vano — il sole, il mio sole sfolgorante; — e porge attento orecchio, — mentre le ridono gli occhi.
Pispigliate pure, o fronde,— le vostre cose gentili! Usignolo, non interrompere — i tuoi melodiosi gorgheggi! — Io solo, io solo, io solo, — meglio di tutti voialtri,— io solo posso dirle:T'amo! T'amo! T'amo!»
Questo che siegue è un cammeo antico, scolpito con plasticità tutta pagana. Tento di tradurlo alla meglio, benché una versione letterale, anzi interlineare come le precedenti, mi paia incapace di rendere la squisita purezza della forma:
«Presso la fonte cristallina che mormora, — sotto gli ombrosi rami dell'alloro e del mirto — Endimione dorme — bello come un Dio dell'Olimpo, sull'erba fresca.
Tacciono attorno a lui i sussurri delle fronde; — i zefiri meridiani non osano agitare le ali; — Diana lo contempla — appoggiata sull'arco, col volto sospeso, e il seno
della vergine dea si gonfia dalla commozione; — mentre un cenno della sua mano tien lungi — i suoi cani fedeli,— che agitano la coda e la guardano intenti».
Il poeta ama il mezzogiorno, l'oriente, forse per contrasto. L'ode La fontana del Pascià potrà dare un saggio di quella varia potenza assimilatrice che è la caratteristica del Getziier: si direbbe tradotta dall'arabo; ha la raffinatezza concettosa di una cacidas dell'El—Mofadaliat:
«Zampillo di argento che continuamente — continuamente ti lamenti, sommesso,— cascando nella rosea conchiglia — tra i profumi delle piante fiorite.
Io venni a cercarti lontano, — nella rozza grotta ove la fonte, — tua madre, si distende fra il capel venere — e una folla di pianticine villane.
Con arte industre ti formai — una via facile, riparata da ogni insulto; — e ti condussi in questo gentile albergo — di marmo prezioso, fra le piante verdi.
Perché dunque, o zampillo, continuamente — stai a lamentarti sommesso, — cascando nella rosea conchiglia — tra i profumi delle piante fiorite?
— Avresti dovuto lasciarmi lontano, — nella rozza grotta ove la fonte — mia madre, si distende fra il capel venere — e una folla di amiche pianticine.
Avrei continuato nella natia ombra fresca — il mio sonno di liquido argento; — qui tratto per forza, che può importarmi — dei tuoi ricchi doni? E mi lamento, mi lamento!»
Ma sentiamo ora un accento originale: ecco una di quelle piccole liriche dove il Getziier è proprio lui, un vero poeta del Nord. Nella foresta, per la snellezza del verso e l'eleganza della forma, è una della più belle fra le sue prime poesie. Peccato che questi pregi non sia possibile riprodurli in una traduzione in prosa! Però il lettore può essere sicuro di trovarvi l'accento, l'intonazione dell'originale: è qualche cosa.
«Nella notte, per la foresta, — sotto gli alberi annosi e tra le — macchie folte, errano — silenziosi e tristi — i Geni d'una volta, — ora dimenticati.
Poi quelle tenebre si riempiono — di sussurri e di pianti sommessi:— e sul tremulo specchio delle fonti — che riflette le fioche stelle — suonano maledizioni — in un linguaggio divino. Gittati sui muschi e sulle erbe, — ch'essi strappano con mani — convulse dallo sdegno,— imprecano contro gli ingrati — che dei loro benefici — non si sovvengono più! Non passare, quand'è già notte, — non passate per la foresta! — I Geni d'una volta — ora son diventati cattivi.— Ma io posso avvicinarli... Per me son sempre Iddì!»
L'ode saffica Ad una barca, che si legge nel volume ultimamente pubblicato, è dedicata alla memoria del gran poeta nazionale Œhlenschlaeger), e i danesi la ritengono uno dei più perfetti capolavori di stile della loro moderna letteratura:
«Barca abbandonata in cotesto seno — melmoso del fiume, fra gli alti giunchi — che sembri di essere una nera culla — mossa dalle acque:
Io ti vidi scorrere altieramente — sullo spumante dorso di quest'onda orgogliosa; — e parevi un allegro pesce guizzante — a fior d'acqua...
Avevi la rossa prora incoronata di fiori — e i tuoi sottili remi si piacevano di tuffarsi — per levarsi subito tutti grondanti — di liquide perle.
Mentre i tuoi fianchi si agitavano contro — l'urto stizzoso della corrente, pari — ai fianchi di una bella fanciulla — quando il braccio
Ardito d'un amante li cinge; e gloriosa — recavi da una sponda all'altra, rapidamente,— i tuoi fieri barcaiuoli che parevano — l'anima tua.
Ahimé, quella tua rossa prora scolorossi!— E i tuoi sottili remi si consunsero, ahimé — sotto i perfidi baci e continuati — delle liquide perle!
E i superbi tuoi fianchi furono sdruciti — dall'urto vincitore della forza del fiume — e l'anima tua i tuoi fieri barcaiuoli,— ti abbandonarono!
«Fra la melma e gli alti giunchi, tutta — rosa dall'umido, senza remi, senza — nulla, ora tu sembri cosa morta; e di tanto in tanto — l'onda ti culla.
Oh come sei piena di tristezza! Oh come — devi invocare che questo fiume si rigonfi, — e che, dal tuo seno melmoso, al mare, al mare — sfasciata ti trascini!»
Il Getziier ha già annunciato la prossima pubblicazione di un altro volume di poesie dal titolo tedesco Frômmingkleit!, tutto di piccole liriche che segneranno, dice il Bluhend, una nuova evoluzione del suo spirito e del suo ingegno. Forse potrò darne qualche saggio nel volume di traduzioni di questo poeta straniero che sto preparando e che stamperò fra non molto, se le primizie che il Fanfulla della Domenica oggi presenta ai lettori troveranno presso il pubblico italiano una benigna accoglienza14.
Le poesie qui citate furono raccolte insieme ad altre nei Semiritmi, Treves, Milano 1888 (v.ne l'ediz. a c. di E. Ghidetti, Guida, Napoli 1922).