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TOMO I
I
Senza dubbio l'avevo veduta un'altra volta. Ma dove? Ma quando? Per tutta la giornata non ci fu verso di ricordarmene. E volevo rivederla, interrogarla, riannodare con lei una di quelle amicizie che cominciano da un nonnulla e diventano infine, massime trattandosi di donne, qualcosa di piú intimo dell'amicizia, un amore, che so io? Anche un matrimonio; ma dove cercarla? Come farmi intendere dalle persone che avrei dovuto interrogare?
Intanto l'imaginazione lavorava senza posa, e il cuore si accalorava e batteva piú forte. E piú mi accanivo a trovare nella memoria un ricordo di lei, piú i miei dubbi si accrescevano e le incertezze diventavan maggiori.
Il suo aspetto non mi sembrava punto cambiato. Erano scorsi degli anni, ma ella aveva conservato intatta la sua freschezza giovanile. Quel che di lievemente roseo e di diafano della sua pelle; quella delicata bianchezza delle sue mani; quella gentile e, direi quasi, carezzevole flessibilità della sua personcina: quell'incanto dell'andare, del muoversi di tutto il suo corpo bello di proporzioni e di struttura; tutto era rimasto tal quale, senza il menomo cambiamento. La voce dapprima, la voce soltanto, mi parve sonasse un po' diversa da quella di una volta. Il suo tono vivo, argentino si era alquanto abbassato, e aveva preso un che indefinibile di piú melodioso e di mesto che un giorno, mi sembrava, non ci era affatto. Ma riflettendo meglio, credetti di scorgere un'uguale mestizia nei suoi occhi, anzi un po' piú apertamente manifesta che non fosse nella voce. Che cosa le era accaduto? E, innanzi tutto, come si trovava ella in Catania? Le cento interrogazioni che mi rivolgevo affollatamente rimasero per quel giorno tutte senza risposta.
La mia memoria ha di rado un vivo ricordo dei luoghi e delle fisonomie; è un difetto che non son riuscito a correggere per quanto me ne fossi impegnato. Il giorno appresso però i luoghi mi vennero in mente con notevole precisione. Ricordavo benissimo di aver veduto quella donna in Firenze quattro o cinque volte, non piú, sui Lungarni, alle Cascine, a San Miniato al Monte, in casa di una persona a me carissima, la quale amareggiò da indi a poco la mia vita con un'indegna azione. Ricordavo di averle anche indirizzato una o due volte la parola; a che proposito e in quali circostanze mi era completamente sfuggito.
Non sapevo però capacitarmi per quale ragione l'impressione ora ricevuta fosse cosí potente da commuovermi, ed agitarmi come se io avessi riveduto in lei qualcosa di piú che una semplice conoscenza. Le sensazioni di cinque anni fa si erano rinnovate, rese piú appariscenti. Avevo tutto l'agio di osservarle, di studiarle; e piú le fissavo piú si facevano intense e fresche, tanto da produrmi l'illusione di una realtà lí presente. Gli atteggiamenti, i vestiti, la voce, il sorriso mi ritornavano alla memoria netti, precisi, benché avessi la certezza che allora ci avevo badato assai poco; e questo fenomeno cosí strano o molto fuor del comune contribuiva in gran parte ad accrescere la mia curiosità.
Ritornai due giorni di seguito alla Villa Bellini, gironzolai per le principali vie della città senza lasciar passare inosservato un sol viso di donna; ma nulla di nulla. Corsi al Grande Albergo. Chiesi ad un cameriere se vi fosse alloggiata una signora piccola, delicata, bionda; una lombarda dall'abito color perla, con un cappellino di velluto nero a fiori turchini, un manicotto di vera martora e un mantello color marrone a frange della stessa stoffa (indicazioni troppo vaghe e confuse, ma non potevo darne delle altre). Il cameriere rispose di no. Gli sembrava però di aver veduto, giorni fa, entrare nell'albergo una persona che quasi corrispondeva a quelle indicazioni; ma, dopo aver mangiato alla tavola rotonda, era ita via.
- Sola? - chiesi ansiosamente
Quel «mi pare» intorbidò un pochino il piacere che avevo provato alla prima parola.
Corsi allo stesso modo per altri due o tre dei principali alberghi della città e con ugual resultato Cominciavo ad arrabbiarmi. E piú che colla cattiva sorte, me la prendevo con me stesso. Perché non me gli ero avvicinato quando la incontrai sullo spianato della Villa? Ella mi aveva guardato a lungo, aveva quasi fatto le viste di riconoscermi; perché avevo esitato?
Passò una settimana. Quella donna mi aveva intanto messo il cuore sossopra. Già da due notti non chiudevo occhio. Ero, al mio solito, caduto in preda di una di quelle subitanee, irragionevoli passioni che mi han reso cosí infelice, e dal principio venivo condotto a non presagire nulla di bono per la mia salute e la mia pace. Avessi almeno potuto rivederla!
Il decimo giorno, un giovedí, mi recai alla Villetta della Marina, e stavo da un'ora appoggiato ad uno dei piloni del ponte della ferrovia, senza sentir nulla della musica e senza intender verbo di un lungo discorso del mio amico Michele che mi parlava di positivismo e di filosofia, un discorso opportuno! Divoravo cogli occhi tutte le signore che mi passavano davanti, provando spesso un sussulto, un fremito a un color di veste, ad un agitarsi di cappellino che scambiavo per la veste e pel cappellino di lei; e soffrivo una vera tortura in quel vano attendere, in quel frequente ingannarmi, in quel persistente sperare. Finalmente, quando la folla era piú densa, quando il passeggio era piú lieto e piú svariato, mentre la banda militare suonava il magnifico valzer del Fausto di Gounod, ecco affacciarsi al cancello della Villetta chi? Lei, proprio lei! E sola! Fui sul punto di venir meno, tanto il sangue mi rifluí violentissimo al cuore.
Passò davanti a me, a pochi passi di distanza; ma non potè vedermi, impacciata come pareva del rivolgersi degli occhi di tutti curiosamente su lei: sincero e tacito elogio della sua grazia, della sua bellezza e della sua eleganza. Un giovane uffiziale la salutò. Ella rispose con un piccolo cenno del capo ed un sorriso. Io ne avevo un gran dispetto. Un vivo sentimento di gelosia si era già destato a poco a poco dal fondo del cuore, e potevo a stento frenarmi di non impertinenzare tutti coloro che osavano metterle gli occhi addosso e far chiose e comenti.
Non volli avvicinarmele nemmen questa volta. Ero troppo commosso. Mi sarei imbrogliato. Tant'occhi si sarebbero fissati sopra di noi due! Ella girò pei viali, fermossi un istante sul ponticello di legno che cavalca il piccolo canale dove nuotano i cigni e uscí fuori della Villa. Lasciai Michele con un pretesto, deciso di seguirla con cuore tremante fino all'uscio di casa.
Le andai dietro un gran pezzo lungo la via Etnea, tenendomi sempre a distanza, ma non tanto che l'occhio potesse facilmente smarrirla. Evidentemente essa ritornava al solito posto della Villa Bellini. Avrei amato meglio che fosse andata a casa. Chi sa? Nella Villa Bellini mi sarebbe forse di bel nuovo mancato il coraggio di farmele innanzi.
Il mio turbamento infatti era straordinario davvero; ne stupivo io medesimo. Perché quella donna mi trascinava dietro a sé come legato da una catena invisibile, ma possente? Che sarebbe accaduto tra me e quella donna dopo che mi sarei fatto riconoscere? Speravo e temevo. La testa era confusa, il cuore palpitava rapidissimo. Riflettevo però come tutte le volte che mi era accaduto di amare avessi sempre amato a quel modo, con improvvisa violenza. In due, tre giorni l'amore era celeramente montato per tutti i gradini della passione, saltandone forse qualcuno; e prima che avessi avuto tempo di riflettere era giunto alla cima; forza era stato subirlo in santa pace, rassegnarsi a godere e a soffrire. Quello che in questo caso mi dava piú pensiero era un intuito confuso, inesprimibile di un passato che la memoria non riusciva ad afferrare; un sentimento egualmente confuso ed inesprimibile di gioie amare, di dolori profondi che l'avvicinamento di quella donna mi avrebbe fatto patire. Eppure la seguivo, e con acre voluttà avevo a poco a poco fatto sparire la distanza; talché, passato appena il cancello della Villa Bellini, mi ero trovato a pari passo con lei.
Si volse, ci guardammo un momento, io aspettando che fosse lei la prima a farmi un accenno, ella quasi tacitamente richiedendo ch'io fossi il primo a rompere quel diaccio importuno. Ci risolvemmo tutti e due nello stesso punto, tutti e due pronunziammo con vera soddisfazione un unisono «Oh! Lei!» e ci stringemmo la mano.
Cominciò una conversazione disordinata, arruffata. Eravamo impacciati allo stesso modo. Si taceva, ci facevamo delle domande, si tornava a tacere. Io godevo ch'ella potesse notare la mia confusione. - La donna - pensavo - è cosí acuta! Ne indovinerà subito il motivo. Qual donna non ha avuto la certezza di essere amata almeno due mesi avanti di sentirselo dire? Ci fermammo innanzi alla gabbia delle tortorelle e dei fagiani. Io dissi una delle solite trivialità sull'amore pacifico delle tortorelle. Ella notò invece il fagiano dal mantello bianco brizzolato, dalla cresta rossa, vellutata, che passeggiava altiero attorno alla modesta sua femina e di tanto in tanto la beccava.
- Creda - ella disse - non son le tortorelle l'ideale del la donna. Ecco una grulleria data ad intendere dai poeti! Se tutte le donne avesser agio di vedere questa scena dei fagiani, le direbbero di una voce che voglion essere amate a quella guisa. Il ragionare si metteva su di una buona via. Ma io tacqui, assorto com'ero in ciò che udivo; beato di vedere le sue labbra piccole, rosee, sottili muoversi e dare il varco ad una voce flautina, la quale pareva uscire proprio dal profondo del petto.
Sedemmo sur uno dei sedili dello spianato, a mano destra della cattiva statua di Androne. Non c'era anima viva. La giornata non pareva di gennaio. Il cielo limpidissimo. Il sole caldo come nel maggio. Le campagne attorno coperte di verde come nel meglio della primavera. L'aria tiepida, profumata, voluttuosissima.
- E non l'ha piú riveduta? - fece ella, riattaccando improvvisamente il discorso (Accennava alla persona un dí a me cara che aveva poi, come dissi sul principio, avvelenata la mia vita con una indegna azione.)
Risposi col capo di no. Guardavo ora il suo irrequieto piedino imprigionato in un elegantissimo stivaletto, ora le sue manine rivestite di guanti color perla, pari all'abito (lo stesso abito di quando l'avevo incontrata l'altra volta), ed ero come trasognato.
- Sono stata troppo importuna - soggiunse subito quasi mortificata - richiamandole alla niente dei dolorosi ricordi. Gliene chiedo perdono. La piaga non ha forse ancora fatto il margine, ed io…
- Ella s'inganna - mi affrettai a rispondere - non vi è nemmen cicatrice. Quella persona, quei fatti son già per me divenuti assai meno che un ricordo, quasi meno che un sogno. Sa? Io ho un'abitudine poco comune (forse dovrei dire: un singolare organismo); dei casi della vita ricordo i lieti soltanto. Mi pare che i dolori si succedano cosí frequenti nei pochi giorni della nostra esistenza da non dover poi tenerli, come si suol fare, in gran conto. Chi ne avrà mai difetto? Ma le gioie! Ecco: io ho segnato con delle gioie, piccole o grandi importa poco, i piú notevoli punti della mia vita… Dio volesse potessi aggiungervene presto un'altra che oso appena sperare!
- Ah! - esclamò ella con un tono tra la sorpresa e il disinganno. Ed abbassò il capo e chiuse gli occhi come per raccogliersi meglio e pensare.
A me pareva di aver detto, colle ultime parole, una gran cosa. Se ella fosse stata curiosa di domandarmi qual'era quella gioia che osavo appena sperare, la risposta era pronta sulle mie labbra; non l'avrei fatta mica attendere. Ma quell'«ah!» pronunziato a quel modo! Restammo silenziosi un buon pezzo.
Io avrei voluto rimaner lí, al suo fianco, per tutta l'eternità. Ero, oso dire, inebriato dal dolce profumo della sua persona, e godevo in vedere il fascino che mi aveva soggiogato, accrescersi a dismisura, invadermi e penetrarmi tutto con sensazione ineffabile.
Quei popoli che chiamano il fiore e la donna collo stesso nome, hanno indovinato un mistero. Vi son dei momenti però nella vita della donna nei quali il suo profumo si spande piú soave e piú ricco intorno a lei. Che un uomo capace di gustarlo e di apprezzarlo le passi allora di accanto, foss'anche alla sfuggita; sarà vinto, ammaliato, non potrà non amarla. Or io in quel punto non respiravo altro che questi divini profumi. Ad ogni boccata d'aria me gli sentivo confondere col sangue, immedesimar proprio colla pura essenza dell'organismo.
Già i minuti, segnati dal battito accelerato del mio cuore, contavano piú assai degli anni nella vita di quell'affetto nato da poco oltre una settimana. Piú stavo lí, al fianco di lei, e piú un'intima, rapida trasformazione mi faceva perdere il senso della realtà e delle convenienze sociali Mi pareva naturale ch'ella dovesse aver coscienza di ciò che il suo potere aveva operato dentro l'anima mia; mi pareva ancora piú naturale ch'ella sentisse nel suo cuore quel profondo rimescolarsi della vita che io provavo nel mio. Sicché il tagliar corto a tutti i preamboli, il fare a meno delle delicate transizioni, il lasciar da banda le riguardose reticenze mi sembrava una cosa non solo opportuna, ma urgente. Come la vita interiore, che batteva il suo ritmo sublime in noi due, non aveva niente di comune coll'andare ordinario del mondo, cosí non era sciocchezza l'assoggettarla nella sua rivelazione alle stupide leggi del mondo?
Io pensavo questo e ben altro durante quei momenti di silenzio, mentre gli occhi si deliziavano nella contemplazione di quella bellezza gentile. Ed ella intanto a che mai pensava? Sembrava assai trista. I suoi occhi stavano, è vero, fissati sull'Etna che si elevava orrido e maestoso lí rimpetto, ma pareva guardassero senza vedere. Da certi quasi impercettibili movimenti della pupilla, da certo sorriso leggiero e sfumatamente ironico che appariva ad intervalli sulle sue labbra, io capivo benissimo che quell'anima era anch'essa agitata; che un mondo forse di ricordi, forse di sogni e di speranze si muoveva confuso innanzi alla sua mente e la rapiva e teneva assorta. Ma, entrava il mio povero fantasma in un breve cantuccio di quel mondo? O era ella tanto lontana da me col cuore quanto io le ero vicino?
Scosse e levò in alto, sospirando, la bionda testina, come per cacciar via i tristi pensieri che le si affollavano innanzi, e si volse a me cogli occhi e colle labbra sfavillanti di una luce e di un sorriso inattesi. Io, che non avevo perduto il piú piccolo dei suoi movimenti, le avevo letto nell'anima. Mi era parso di vederla fortemente lottare, esitare a lungo, poi decidersi a un tratto con risoluzione improvvisa. Aspettavo quindi ansioso che da quelle sue labbra cosí fresche e cosí belle uscisser parole da spiegarmi il mistero.
Giacché io non avevo siffattamente perduto il senso della realtà da non piú comprendere che quanto accadeva tra me e quella donna non fosse una cosa ordinaria; ma, circostanza ben strana, non ne provavo meraviglia. Vi sono certe situazioni dello spirito cosí complicate e sorprendenti, che un breve minuto può talvolta formare il tormento e la consolazione di tutta la vita. In quel punto (lo sentivo senza intenderlo) mi trovavo in una di esse.
- Chi l'avrebbe mai creduto - diss'ella cavandosi un guanto - che un giorno ci saremmo riveduti qui, in faccia al suo Etna e con questo magnifico sole che quasi sembra ci festeggi? Eppure, ora che ci siamo, mi par la cosa piú naturale del mondo
- Le cose piú naturali - risposi - non sono punto quelle che piú facilmente comprendiamo. Potrà ella, per esempio, spiegarmi perché non ebbi il coraggio di avvicinarmele la prima volta? Perché la memoria non mi diè subito i ricordi che la mia curiosità le chiedeva? Perché questi ricordi mi si destarono in mente a poco a poco, provocando nel cuore un lavorio, un turbamento, una smania che non si sono ancora acchetati? Intanto, che cosa di piú naturale?
- Davvero? -
E questa parola fu da lei pronunziata con un accento cosí dolce e cosí nuovo che voleva significare mille sentimenti ad una volta, cioè una sorpresa ingenua, una gioia pudica, una soddisfazione, un rimpianto, qualcosa di appassionato e di triste, d'infantile e di materno che mi colmarono di stupore e mi fecero perdere il cervello.
Senza che io me ne accorgessi, senza alcuna sua resistenza presi tra le mie mani una delle sue manine e accarezzandogliela (non osavo ancora stringerla) tutto di un fiato le dissi:
- Sí, Delfina, nulla di piú naturale, quantunque nulla di piú arcano. A certi istanti, lo confesso schietto, ho avuto fin paura, osservando lo sconvolgimento di tutto l'esser mio che la sua persona ha operato. Ero lieto, tranquillo, spensieratissimo. La vita mi correva come un limpido ruscello tra le aiuole di un giardino. Provavo anzi un immenso piacere nel ricordare il passato cosí buio, cosí tristo e confrontarlo col presente. Non temevo, non speravo nulla dall'avvenire. Vivevo come un fanciullo… Mi riposavo della vita… Ed ecco, Delfina, veggo lei… e tutta questa pace incantevole, tutta questa felicità semplice, ma benefica, sparisce ad un tratto! Non mi sento però infelice. L'arcano è qui! È un nuovo mondo che sta per aprirsi all'anima mia. Lo sento… ne son certo; e la chiave è tra le sue mani. Sarà, mi pare, una felicità diversa ma non meno bella; agitata, ma non meno benefica… Fosse anche un dolore! Non monta nulla! Ho un presentimento vago, indeterminato, che cotesto dolore mi dovrà esser caro piú di molte e molte gioie… Ben venga dunque! Oh! Creda! Io, io pel primo, son cosí sorpreso di quanto le sto dicendo e di quel che le dovrò dire! Ma c'è dentro di me una forza superiore alla mia volontà che mi costringe mio malgrado. Una voce insistente mi susurra all'orecchio: «o ora, o non mai!» ed io parlo e parlo senza nulla curarmi di ciò ch'ella può pensare! La mi perdoni, Delfina!… Vorrei meglio dire: perdonami, Delfina!… Tornerebbe lo stesso… E oramai!… Mi son messo fuor della legge, e mi piace di starci. Che avverrà di me? Non mi curo di saperlo. Quello che io so di certo è che non ho mai provato nulla di simile, e che tutto è mistero. Quello che io so di piú certo è che vi sono al mondo due sole parole per rivelare le mille sensazioni che in questo momento mi opprimono, e sono: t'amo!
Qui, come se queste due sillabe pronunciate basso e all'infretta mi avessero scottato le labbra, baciai commosso la sua mano quasi per attutire il bruciore con qualcosa di fresco, e mi alzai atterrito del mio insolito ardire. Se qualcuno ci avesse già visti! Girai gli sguardi da ogni lato. Fortunatamente nei viali piú lontani non appariva persona. Mi voltai allora trepidante verso di lei. Che avrebbe ella risposto?
Ella mi guardava sorridente, quasi tranquilla, cogli occhi che nuotavano nelle lagrime a stento rattenute. Il suo petto si alzava e si abbassava con una respirazione accelerata. Nulla però che accennasse o la sorpresa o lo sdegno. Pareva piuttosto quasi trasfigurata e come raggiante. Il suo volto acceso d'una fiamma leggiera aveva rapidamente acquistato un che di piú diafano meraviglioso. Gli sguardi, il sorriso le spandevano attorno alla fronte ombreggiata dal cappellino un'aureola a dirittura. Non sembrava piú dessa.
Io non mi sarei punto imaginato ch'ella potesse mai divenir bella a quel grado, e il piacere e la meraviglia che ne provavo guardandola mi fecero dimenticare per poco ciò che accadeva fra noi due. Infatti quando corsi a sedermi nuovamente al suo fianco, ero cosí fuor di me da non capire piú né quel che facevo, né dove mi trovavo.
Ella prese, alla sua volta, la mia mano, e stringendola forte:
- Grazie, Eugenio - esclamò; - grazie! -
Né potè piú proseguire. Era troppo commossa Tratteneva a stento i singhiozzi.
- Oh sí - continuò dopo essersi alquanto rimessa in calma; - noi siamo avviluppati dal mistero. Non viviamo forse in questo momento fuori del mondo? Non siamo come sopraffatti da una magica potenza che par trasmuti ogni cosa attorno e dentro di noi?… Eugenio! - indi soggiunse dopo un istante di esitazione - pensi di me quel che lei vuole; mi creda pure una matta, mi creda, che piú? una sciagurata, la quale abbia perduto ogni pudore… ma io non tacerò per questo, non posso affatto tacere! Io presto cieca fede a tutto quello che or ora mi ha detto; non la credo capace di mentire. Un uomo che fingesse avrebbe fatto altrimenti… Ma sia! E cominci pure col disprezzarmi. Son sicura che alzandosi da questo sedile ella mi avrà piú amore, perché mi avrà piú stima. La sua stima mi è cara. Questo momento, non è vero? È per lei proprio inatteso. Ma io, io l'ho invocato a lungo, l'ho sospirato degli anni, non ho mai disperato che giungesse! Dal giorno che la seppi partito da Firenze, pallido, sofferente, quasi sfinito di forze, da quel giorno fino alla mattina che il vapore mi recò a Siracusa io non sognai altro che la Sicilia, quest'immenso giardino. Quante ore passate ad imaginarmi queste città cosí diverse dalle nostre, la sua casa, la sua famiglia! E, a giorni, come fui felice per la sola illusione di avere, con un miracolo dell'amore, veduto davvero!
- Ma scusi, Delfina! - balbettai io, che a quelle parole mi sentivo sconvolgere il senno - Ho io inteso bene? Un miracol dell'amore? Possibile? Dio mio! Possibile?
- È una storia breve, trista, semplicissima; ma è tutta la mia vita. Stia dunque a sentire Sono di già cinque anni e par proprio ieri! L'Emilia mi trasse fuori della sala ove era riunita la solita società di casa F***, e mi condusse nel salottino verde facendomi trattenere in mezzo all'uscio. Aspettava lei. Voleva parlarle prima che fosse visto dagli altri. Io ero ritornata in Firenze da fresco Ero stata a Pisa sei mesi col babbo, e però poco o nulla sapevo del loro amore. L'Emilia cominciò, non richiesta, a dirmi ogni cosa, e con un tono cosí ironico e pungente ch'io previdi subito una rottura. Però dal discorso, tutto pieno di pretesti, non ci volle molto a comprendere che il torto stava dalla sua parte. Allora, Eugenio, mi entrò nel cuore una grande pietà di lei! Pensai: chi sa com'egli l'ama?… E intanto!
E insieme alla pietà un sentimento di disprezzo per quella trista ragazza; vergognai di esserle amica. L'Emilia diceva di averle scritto una letteraccia, proprio cosí: ed era ansiosa di sapere in che modo l'avesse lei presa.
«Ma insomma - le dissi - tu vuoi romperla ad ogni costo!»
«È troppo serio - mi rispose - i mutrioni gli abborrisco»
«Questo cuore non ha mai amato! Una simile leggerezza sarebbe inesplicabile. Ha creduto di amare e si è illuso!» pensavo io per vincere la mia stizza. Ma m'ingannavo. Quel cuore calcolava!
Suonò il campanello Era lei.
Io mi nascosi frettolosa nella stanza appresso e dietro la tappezzeria potei sentir tutto e vedere… Tremavo, sudavo diaccio. Non mi ero mai trovata a un caso simile. Intesi il suo passo sul tappeto della stanza, poi la sua voce che pronunziava affettuosamente il nome di Emilia… Ci furono alcuni momenti di silenzio. Indi cominciò tra voi due un dialogo che mi è rimasto impresso nella memoria parola per parola, un dialogo straziante, una vera lotta dell'amore colla freddezza e coll'egoismo, ma dignitosa e sublime! Quanta passione nelle sue parole! Quanta mestizia nel suono della sua voce commossa! E insieme quanta fierezza nei suoi sguardi e quanta nobile alterezza in tutto il suo contegno!
L'Emilia godeva e fremeva. Vedersi vinta nel suo stesso trionfo! Non se la sarebbe aspettata. Già la rottura, dall'indirizzo del ragionamento, si poteva omai dire inevitabile… Era lo scopo della letteraccia e di quell'abboccamento preparato con arte… Ma il modo le spiaceva, la contrariava; la si sentiva avvilita.
Eugenio! È impossibile far capire ciò che io provai in quegli istanti. Ascoltavo trattenendo il respiro, col cuore che mi batteva violentemente nel petto, come se da quel discorso fosse dipesa la felicità o l'infelicità della mia vita. Vi fu un punto in cui non seppi piú frenarmi di trarre la tappezzeria un pochino da parte per meglio udire non solo, ma anche per vedere. L'Emilia era stesa sulla poltrona, cogli occhi bassi, il viso contratto, e rodeva rabbiosamente la punta del suo collare di merletto… Ella invece stava in piedi, lí presso, col viso bianco come un cadavere, il capo abbassato e le mani immobili nelle tasche dei pantaloni. Di sotto le sue sopracciglia scappavano certe occhiate che pareva volessero fulminare. Parlava con accento basso, represso, profondo: la voce tremava. Quale scena per me! Non potrò mai dimenticarla.
Finalmente ella si scosse, passò una mano fra i capelli e sulla fronte, fece un moto colle spalle e poi disse:
«Addio, Emilia! Non ci pensiamo piú!»
Ma non si mosse. Attendeva forse una risposta. L'Emilia tacque. Ella, indegnato, voltò allora subito le spalle e andò via di corsa.
Io avevo le lagrime agli occhi. Dovetti buttarmi su di una sedia per non cadere a terra… Mi sentivo mancare «Poverino! - esclamavo; - poverino!»
E non sapevo dir altro. Ma quella parola diceva tutto.
Quando l'Emilia mi chiamò per rientrare in sala, io non potei trattenermi dal dirle:
«Sei stata crudele! Hai commesso una vera indegnità! Mi hai fatto proprio male!»
Ritornai a casa come istupidita, e corsi con un pretesto a mettermi subito a letto. Non potei chiuder occhio. L'avevo sempre dinanzi! E dentro le orecchie la sua voce! Era una cosa non mai provata per me. Il giorno appresso stetti sempre attristata, silenziosa, esclamando di quando in quando: «Poverino! Chi sa che farà mai? Come dovrà soffrire a quest'ora! Se potessi consolarlo! Oh, lo farei volentieri!»
E mi arrabbiavo di esser donna. Poi stupivo di quel nuovo stato dell'animo mio, e mi chiedevo, spaurita, che voleva egli dire; ma non riuscivo a darmi una risposta, o rispondevo soltanto: «Passerà!»
Ma non passava. I giorni si seguirono: il mio turbamento divenne maggiore. Provavo una smania di rivederla, rivederla da lontano, anche senza esser vista da lei… e quando, tre o quattro giorni dopo, io lo incontrai sui Lungarni, presso al ponte alla Carraia, appoggiato alla spalliera del fiume, cogli occhi fissi sulle acque, mi sentii dare un tuffo al sangue: mi parve di morire, tanta fu la stretta del cuore.
Allora cominciò per me un vero martirio senza nome. Che giornate! Che settimane! Che mesi! La sua imagine era diventata una necessità dell'anima mia; non sapevo saziarmi di fissarla e di adorarla. Amai quindi il mio patimento, e mi compiacqui di prolungarlo e di gustarmelo da tutti i lati. Mi pareva, che mattezza! che quel mio affetto cosí segreto, cosí fuori d'ogni speranza dovesse servirle di consolazione, di compenso pel vile tradimento dell'Emilia; e credevo che per cotesto santo fine non avrei mai patito abbastanza!
Era la prima volta, che il cuore mi si apriva alla vita ineffabile dell'amore! Né doveva amare piú mai!
Tre mesi dopo ella lasciò Firenze e la Toscana quasi disperato della salute. Il mio dolore fu immenso! L'unico e debole filo di speranza di che osavo talvolta lusingare i miei sogni e i miei delirii, si spezzava ad un tratto. Già tra me e lei, credevo, c'era omai di mezzo l'infinito. Dio mio! E sarei morta senza essere riamata un istante; senza che l'amor mio fosse da lei conosciuto! Potei rassegnarmi anche a questo; e divenni, se era possibile, piú sua; giacché mi strinsi, giurando solennemente, ad un voto: non mi avrebbe avuto alcun altri! Ho mantenuto.
Due anni appresso sposai, per crudele necessità di famiglia, un uomo il quale mi amava davvero, piú di quel che non meritassi e mi ama sempre. Sposa fedele, obbediente, servizievole, io non gli ho concesso che il mio corpo. Oh l'anima mia, no, non l'avrà mai! Son io colpevole? Non lo so; non voglio saperlo. Quando anche la fossi? Per me val lo stesso. Già ho tentato di amarlo, ma non ci son potuta riuscire. Tu, Eugenio, sei rimasto nella mia mente come una figura celestiale, bello di giovinezza immortale, sempre lo stesso, sempre l'Eugenio di quella sera fatale, col cuore immeritamente lacerato, coll'anima nobilmente dignitosa sotto un'onta vigliacca, e la tua immagine si scancellerà dal mio petto coll'ultimo respiro della mia vita!
Quando mio marito mi annunziò che il suo officio d'ingegnere delle strade ferrate lo chiamava in Sicilia, fui, dalla contentezza, sul punto di ammattire. Mi pareva che la Sicilia fosse come una sola città e che ti avrei infallibilmente riveduto. Ahimè! Messina, Siracusa, Augusta, Catania dove saresti tu mai? Avrei voluto fin morire in Sicilia per rimanerti vicina!
Giorni fa, oh! tu non puoi credere che festa fu la mia! E insieme che tormento! «Non mi ha riconosciuta!» dissi all'amica che avevo allato.
Ma non voleva dir nulla! Ti avevo trovato! Finalmente!
Ed ero decisa a cercarti. Oh non volevo andar via cosí lontano, in Oriente, senza dirti il mio segreto, senza sgravarmi il cuore da un peso affannoso!… Come sono ora felice!
Tu mi dimenticherai presto lo so; ma che m'importa? Mi hai amato un momento, almeno me l'hai detto, e voglio illudermi e credere. Non osavo sperar tanto. Ripetimelo! T'amo anch'io, Eugenio! T'amo! T'amo!
Ed ora andiamo via - soggiunse tosto - e si levò da sedere
- Delfina! Delfina! - esclamai trattenendola per la mano, né sapendo aggiunger altro
- Lasciami! Andiamo! - diss'ella con un accento dolce e quasi di preghiera
- Ma quando, ma dove potrò rivederti? - le chiesi allora atterrito
- Rivedermi? - fece ella, diventando seria tutto ad un tratto - Rivedermi? Mai piú! Credi che io sia tanto forte da sfidare il pericolo? No, Eugenio. Sono stanca. Lasciami, andiamo per pietà!
Non le ritenni piú la mano e il suo braccio cadde come un corpo inerte. La guardai in viso. Un pallore mortale aveva improvvisamente tinto le sue guance e scolorito fin le sue labbra
- Tu soffri? - le chiesi piú atterrito di prima
- T'amo! - rispose con voce spenta. E si avviò a capo chino
Fatti pochi passi, si rivolse verso di me che le tenevo macchinalmente dietro.
- Ti chiedo una grazia - disse, sforzandosi ad un sorriso: - mi giuri di accordarmela?
- Te lo giuro! - risposi non sospettando nulla di quel che avrebbe richiesto.
- Non seguirmi!
- Oh!
- Hai giurato! - riprese con autorevole dignità - Poi è inutile rivederci! Domani l'altro partirò con mio marito per Costantinopoli, ove la società delle ferrovie lo manda a dirigere e a sorvegliare i lavori. Perché metterci al repentaglio di mutarci in un rimorso questi tristi, ma grandi, ma solenni momenti di gioia? -
Scendemmo pei viali, silenziosi come due condannati a morte; io traendo a stento i passi, senza vedere né pensare; Delfina lesta e quasi affrettata. Giungemmo al cancello.
- T'amo! - ella mi disse sottovoce come addio, e mi strinse la mano.
- T'amo! - risposi. E mi appoggiai ad uno dei candelabri che sono lí innanzi.
Si allontanò per la via diritta andando in su, poi torse a destra. E quando vidi sparire dietro la cantonata l'ultimo lembo della sua veste, mi parve che metà della mia vita fuggisse via dietro a lei!