IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
III
Fu un'apparizione fugace; pure ha lasciato nel mio cuore un'indelebile traccia. Di rado passan dei giorni che questo gentile fantasma non mi si presenti innanzi gli occhi e non mi faccia tristamente fantasticare. Una folla irrequieta d'imagini luminose e leggiere danza allora attorno a me come tratta via da un vortice che le mescoli, le mescoli e poi le riduca a una sola. La fisonomia, il suono della voce, i discorsi, i piú insignificanti gesti di lei prendono un carattere indefinibile di gioie negate, di desideri perduti nel vuoto, di speranze morte in un istante come una bolla di sapone; e una gran parte della mia vita vi si vede meravigliosamente riassunta, senza che io abbia ancora saputo intendere per qual segreta attinenza.
Chi era costei?
Non lo so; ignoro perfino il suo nome. Nulla può farmi credere che sotto ci sia stato un qualche inganno. Manca il motivo di sospettarlo: sii giudice tu stesso.
La vidi per la prima volta in Firenze, mentre scendeva da un legno entro il cortile della stazione della strada ferrata.
Era vestita di nero, con rara semplicità e con piú rara eleganza. Una borsa di cuoio russo appesa al braccio, un ventaglio e un ombrellino, ecco tutto il suo bagaglio.
Entrò sotto la tettoia con passo affrettato e s'indirizzò verso lo sportellino ove si distribuivano i biglietti.
Io le tenni dietro, guardandola attentamente; mi era parsa agitata. Una donna giovane, bella (oh, immensamente bella!) che mostra di essere colpita da un sentimento vivo e penoso, che viaggia sola, senza bagagli renderebbe curioso anche un santo.
Quando venne la sua volta ella chiese al distributore dei biglietti:
- Uno per Genova, prima classe.
- È piemontese - pensai, giudicando dall'accento.
- Uno per Empoli… prima classe - dissi io che m'ero introdotto dietro lei.
E quel «prima classe» venne da me pronunziato un po' spiccatamente, sia perché la risoluzione della scelta era stata improvvisa (viaggio sempre in seconda), sia perché proprio volevo ch'ella se ne fosse accorta. Voltossi infatti, secondo il mio desiderio, a guardarmi un istante, poi si allontanò lestissima per entrare in sala.
Avevo in pochi minuti raffazzonato un progetto: montare nel vagone ch'ella avrebbe scelto e tentar di appiccare conversazione con lei. Niente altro; un capriccio! Quelle poche lire di piú spese pel biglietto di prima classe mi sarebbero parse benissimo impiegate, se potevo entrare in discorso sul motivo del suo viaggio. La vera mia curiosità era questa: non dico la sola.
I sentimenti del cuore umano son cosí complicati che quando ci mettiamo a sbrogliarli non si arriva a finire. Sotto la pellicola di uno se ne cela un altro e poi un altro; e quello che a prima vista tu diresti il piú semplice, talvolta all'esame risulta il piú complicato.
Sotto la mia curiosità c'era naturalmente il piacere di poter contemplare per un'ora e cinque minuti il piú stupendo spettacolo della creazione, una bella donnina. Un paesaggio, con tramonto di sole o con chiaro di luna, è - non dico di no - qualcosa di magnifico a vedersi. Quando si ha quel vivo sentimento della natura che cogliendo ogni armonia, ogni perfezione di linee e di colori, ne traduce i segni materiali in sentimenti indefiniti; quando per una dolce illusione, che aggiunge incanto allo spettacolo, tu riversi addosso alla natura tutta la poesia del tuo cuore, mentre intanto ti figuri scaturisca da essa come da vergine ed inesauribile sorgente, è sempre la cosa inanimata che ti fa sentire e pensare; i tuoi sentimenti, le tue riflessioni son circoscritti e limitati nella loro stessa indeterminatezza.
Una bella donnina invece è tutto l'infinito e, se fosse possibile, qualcosa di piú. Qui la poesia che t'inonda non è un'illusione. La realtà supera qualunque sforzo di fantasia; quel corpo vive e pensa. O trovami un limite, se ti riesce!
Io mi tuffo in quest'immenso con una voluttà da non potersi dire; una voluttà sui generis, dove il sentimento dell'arte entra spessissimo per piú di tre quarti. Mi basta o un par di occhi, o un nasino, o una fronte, o una chioma di capelli, o due labbra, o una pozzettina del mento; giacché per via dell'umana imperfezione bisogna limitare anche l'immensità e contemplare tutto un po' alla volta.
Che problemi da risolvere! Che scoperte da fare! Sotto quella bellissima forma c'è un sangue che bolle, un cuore che palpita; c'è un'anima! Che vuol dire quel sorriso degli occhi? Quel movimento delle labbra? Quelle linee della fronte e del naso? E la voce? E quella ilarità cosí cordiale? E quei passaggi improvvisi dall'allegria alla tristezza? E quella malinconia profonda, congenita che sta fitta tra le sopracciglia e la pupilla e ti commuove ogni fibra?
Sotto la mia curiosità si nascondeva pure un altro sentimento.
Hai dovuto osservarlo. Talvolta fra te e una bella donnina passa qualcosa che non vien giustificato dalla sua sola bellezza; molte belle donnine non producono simile effetto. Vuol dire (è la fisiologia che lo attesta) che tra i due organismi vi sian rapporti materiali di piú intima natura, rapporti d'identità. Ci si guarda, la prima volta, come se ci si fosse conosciuti non si sa dove né quando. Se si dà il caso di potersi avvicinare, la franca corrente dell'intimità prende l'aire subito subito. C'è una confidenza reciproca, un abbandono che altrimenti rimarrebbero degli inesplicabili misteri; c'è, non di rado, la fatale necessità da cui nascono quelle invincibili e spesso tragiche passioni che gli sciocchi battezzano con una comoda parola: mattezza!
Questo sentimento, che vo' chiamar fisiologico, io lo avevo già provato in quel punto Per dire piú esattamente ne avevo avuto una sensazione indistinta; il sentimento sviluppossi piú tardi, un quarto d'ora dopo.
Nella sala di aspetto ella era andata a sedersi in fondo, presso il caffè. Con un gomito appoggiato al tavolo, colla faccia appoggiata alla mano, aveva preso un atteggiamento tristo e pensoso. Fissi gli occhi sul pavimento, guardava distratta, o piuttosto seguiva coll'occhio certi bizzarri segni che la sua destra tracciava idealmente sul marmo colla punta dell'ombrellino; ma il suo pensiero non era lí; se ne sarebbe accorto anche un cieco.
Sedetti rimpetto a lei, e cominciai a farmi intanto un mondo di domande a cui dovevo trovar poi le risposte. Fantasticare è una delizia.
Le si accostò Beppa la fioraia, e le porse un mazzettino di viole tricolori. L'incognita guardolla in viso come destata da un sogno, prese e pagò il mazzettino, poi ricadde quasi subito nel suo malinconico torpore, e le dita si diedero a sfogliare ad uno ad uno, con visibile sbadatezza, quei poveri fiori. In quest'atto non c'era, dalla sua parte, né rabbia né piacere; le dita agivano per conto loro. Infatti quando la campana dié il segno della partenza, ella si riscosse, guardò sorpresa i gambi rimastile in mano e le foglie sparse per terra, scosse la bella testina come per dire: oramai! E s'introdusse nell'imbarcatoio.
Corse difilato al vagone piú lontano e, credo, per calcolo. C'era molta probabilità di rimaner sola.
Ella si affrettava a chiudere lo sportello, quando mi presentai io colla valigetta alla mano.
- Oh, scusi! - ella disse; e si trasse indietro e andò a sedersi al lato opposto.
- Scusi me - risposi, esitando qualche istante a salire.
- Faccia il suo comodo - ella soggiunse, vedendo che restavo incerto sul gradino.
Entrai e dopo aver riposto in alto, sulla reticella, la valigia:
- Son dolente - ripresi con una di quelle piccole ipocrisie a cui siamo tanto abituati - son dolente di averle forse tolto il piacere di rimaner sola. Ma la colpa non è mia. Quest'amministrazione delle strade ferrate va cosí male! I vagoni non son mai in numero sufficiente.
- Un vagone per due! - osservò ella sorridendo; - ci si può contentare.
Forse arrossii a questa ingenua risposta; certamente mi sentii mortificato.
Il convoglio frattanto aveva preso le mosse.
Come suol accadere in simili occasioni, il ragionare corse un po' intorno il bel tempo, le ferrovie, i viaggi, i compagni di viaggio; e a tal proposito le domandai di nuovo scusa dell'averla forse infastidita colla mia presenza
- Però - continuai - le darò noia per poco: mi fermo ad Empoli. E lei? (Ipocrita domanda anche questa).
- Ho preso un biglietto per Genova, tanto per avere uno scopo - ella rispose coll'involontaria loquacità delle persone afflitte da qualche sventura - Sento un gran bisogno di distrarmi: vorrei fuggire da me stessa. Già forse scenderò alla prima fermata e tornerò addietro Comincio a pentirmi della mia risoluzione. Ella è d'Empoli, credo?
- No, di Firenze Ho preso in affitto una villa a due miglia da Empoli, un punto grazioso e appartato. Conto menarvi due mesetti di vita eremitica, coi miei libri, s'intende. Tornai ieri a bella posta. Ho svaligiato il Bocca, il Bettini, il Paggi di tutte le novità francesi ed inglesi; romanzi, filosofia, critica letteraria, scienze naturali, una trentina di volumi: ne ho per un pezzo. Quando si è costretti a una certa vitaccia, due mesi di solitudine riescono proprio un ristoro. Ne conviene?
- Di certo. Ci ha giardino?
- Sí, un piccolo aborto andato cosí a male che fa pietà.
- Moltissimo: però a coltivarli ci ho poca pazienza -.
Parve pentita di essersi lasciata cogliere a questa conversazione. Si accostò allo sportello e diessi a guardare la campagna che fuggiva vertiginosa.
Io guardavo lei. Era bella! Quel che si dice bella, cioè della bellezza squisita che Bacone scrisse non esser mai tale senza una certa stranezza di proporzioni. Nessuno l'avrebbe detta una statua greca! Fidia certamente non le avrebbe fatto né quel nasino, né quel mento ma non per questo avrebbe avuto ragione. Quelle piccole stonature erano il meglio di lei! C'erano anche le labbra, due labbra tumidette, rosee, sensualissime, di una freschezza portentosa. C'era, a dir vero, anche la mano, bianca, con dita piccinine, con unghie perfette, non magra né pienotta, una cosa di mezzo da far strabiliare.
Io però badavo poco a tutto questo. Ciò che piú attirava la mia curiosità era il carattere, era l'anima di quella donna intravveduta pel sottile spiraglio delle brevi parole: «Vorrei fuggire da me stessa!» Che dramma doveva agitarsi nel suo cuore! Le si leggeva negli occhi.
- E quanto paga di fitto? - ella chiese rivolgendomisi improvvisamente.
- Cento franchi il mese - risposi; - però ci ho quasi tutti i diritti di padrone sulle frutta e sugli ortaggi, quanto occorre per mio uso, si capisce.
- Ed è lí?
- Senza la famiglia?
- Coi fittaiuoli del posto, bravissima gente che non mi dà punto noia; ci han tanto da fare!
- Perdoni la mia curiosità - disse dopo un momento; - il caseggiato è ristretto?
- Anzi vasto; otto stanze, oltre la cucina, e una magnifica terrazza; poi cantina, stalla, rimessa, roba inutile per me -.
Stette un momento a capo chino, forse per raccogliere meglio i suoi pensieri; poi, quasi avesse (secondo quel che le frullava in testa) risoluto di no, tornò ad affacciarsi allo sportello e a guardare la campagna, come se nulla fosse stato.
Però io avevo cominciato a notare in lei una commozione nervosa che si accresceva di momento in momento. Quando le rivolgevo la parola, ella mi guardava in viso con una cert'aria da parere volesse far dei confronti, o rammentare qualcosa e aver dispetto di rammentare. La mia voce doveva particolarmente produrle un'impressione assai strana. Mentre parlavo, ella stava ad ascoltare come se avesse voluto udire qualche suono lontano, o pure scrutar qualcosa nel suono di essa.
Io mi smarrivo tra mille supposizioni, ma provavo intanto un gran piacere. Mi ero accorto (ci voleva poco) che non solamente non le riuscivo antipatico, ma che già si era tra me e lei sviluppato quel sentimento fisiologico di sopra accennato. Le confidenze potevano, dovevano venir fuori; tutto dipendeva dal sapervele attrarre.
Bene spese quelle poche lire! Avevo avuto una grande ispirazione, un vero colpo di genio! Io, si vede, non stavo a far il tirato nel lodarmi da me stesso!
- E, scusi, Dio mio! sono troppo importuna - fec'ella dopo un lungo intervallo di silenzio, durante il quale parve fosse tornata sopra la sua risoluzione negativa ed avesse mutato parere.
- Sarebbe - continuò esitando - nel caso di cedere una parte, quella che gli farebbe meno comodo, del suo caseggiato? - A dir vero io non mi attendevo una simile domanda e la guardai fisso negli occhi.
- Ma, a seconda - risposi - Vi son delle persone alle quali non si può mai dire di no.
- A una sconosciuta non la cederebbe dunque?
- Perdoni, signora! Possono esservi delle sconosciute che si conoscono subito meglio di una vecchia conoscenza.
- È un epigramma?
- Me ne guarderei bene; né un complimento.
- Sia pure. La stranezza della mia situazione in questo momento potrebbe espormi anche a peggio. Che pensa ella di me?
- Oh, nulla di male, stia certa!
- Dico quello che penso, ma non credo d'ingannarmi. -
Non saprei significare che sorta di sentimento io provassi intravvedendo la possibilità di avere la bella incognita qual ospite della mia villa. C'era, non lo nego, da mettersi in sospetto ad una simile proposizione fatta cosí alla lesta. Ma quella gentile figura proprio impediva si pensasse male di lei Chè! Non era un'avventuriera; si vedeva da lontano un miglio! Doveva però essere o una donna molto strana e capricciosa, o una grande sventurata. Queste due ipotesi lusingavano la mia vanità. Della curiosità non è a parlare!
Io già ho avuto sempre un gran gusto per le cose impreviste. C'è tanta poesia! Anche quando si arriva, dopo molti stenti, al fondo e si pesca un granchio, a dir poco. L'imprevisto anzi è il mio forte. Figurati dunque se tremavo che la bella donna non si pentisse la seconda volta! Mi pareva un gran peccato.
- Non ardisco offerirle tutta la villa, per quel che posso disporne - diss'io vedendo ch'ella taceva tra irresoluta e peritosa; - ma se nessun'altra considerazione la ritenesse, mi farebbe veramente dispiacere a non accettare.
- Accetto - rispose con un impeto di franchezza, che mi piacque tanto - Ma, ad un patto! - soggiunse - Ella mi cederà metà, un quarto del caseggiato, come meglio le giova, ricevendosi anticipatamente la parte del fitto che mi spetta.
- Questo poi no - feci io un po' piccato - Tanto, il fitto non è piú da pagare, e, solo o con altri, val lo stesso.
Parve offesa delle mie parole, e un po' indispettita rispose:
- Non se ne parli piú. Già era una follia!
- Se questa mia sciocchezza - mi affrettai a soggiungere - dovesse impedirle di accettare, la ritenga per non detta; pagherà.
- È una follia! - ripetè l'incognita come parlando a se stessa.
- Empoli, chi scende! Empoli, chi scende! - urlavano due o tre impiegati della ferrovia
- Io m'impossesso del suo bagaglio - dissi arditamente, prendendo l'ombrellino e la borsa di lei
- No, no - rispose con un accento languido e irresoluto.
Intanto ero saltato fuori del vagone e le stendevo la mano.
- Che penserà di me? - disse fermata sullo sportello per guardarmi in viso, accompagnando queste parole con un'espressione di dolore profondo che il rossore delle sue guance modificava un pochino.
- Tutto il bene possibile - risposi; e le diedi braccio.
Non credevo a me stesso. Mi pareva di aver vinto la prima battaglia del mondo. I viaggiatori che scesero ad Empoli e ci squadravano curiosi già li scambiavo preciso con dei moscerini. Non credevo a me stesso, e la tenevo stretta sotto il braccio perché avevo paura del treno che non si decideva a ripartire. Che animale doveva essere quel capo-convoglio! Una fermata di un secolo! Volevo fare un ricorso. Quando udii il fischio della locomotiva e vidi il convoglio volar diritto fumando e strepitando, trassi fuori un sospirone che la fece sorridere; certamente aveva capito.
Mezz'ora dopo un fiàcchere ci depositava innanzi il cancello della villa, senza che nessuno di noi due avesse, dalla stazione fino a lí, pronunziato una sillaba sola. Pure, che vertigine avevo in testa! Quanti milioni di cose non mi eran passati pel capo; milioni, non esagero.
Lungo il piccolo viale che dal cancello conduceva diritto al caseggiato:
- È curiosa - dissi - che nessuno di noi abbia cercato di sapere il nome dell'altro. Mi presenterò da me, Oreste Lastrucci. Posso ora conoscere chi sia la mia gentile pigionale, giacché si vuole cosí? La sua fronte e gli sguardi si annuvolarono per qualche secondo. Arrestossi colla testa bassa e mormorò:
- Non ci avevo badato! -
Poi scosse una o due volte il capo e si rivolse a me sorridente dicendo:
- Che importa il mio vero nome? Me ne dia uno a suo piacere. Varrà lo stesso. Si ricorda? Giulietta diceva a Romeo:
What's in a name? That which we call a rose,
By any other name would smell as sweet.
- È vero - risposi subito - Però talvolta tra un nome e una persona c'è tale misteriosa relazione da sembrare che quella non avrebbe potuto chiamarsi altrimenti. Dargliene uno diverso spesso equivale a torle qualcosa di essenziale
- Non è il caso. Qui la persona è talmente insignificante - ella riprese sorridendo sempre con grazia infinita, che questo o quel nome non importerà nulla. Mi ribattezzi dunque… Sarà una stranezza di piú
- Fasma! Un nome greco - dissi improvvisamente.
- E significa?
- Apparizione, fantasma! Le torna a capello. Non è nuovo; il povero Dall'Ongaro intitolò con esso uno dei suoi piú gentili lavorini di soggetto greco.
- Questo volevo dire - ella soggiunse; - ne avevo un'idea confusa. E sia Fasma! - continuò; - mi piace. Cosí Oreste non stona. O i contadini che diranno? -
Questa interrogazione mi scosse. La moglie del fittaiuolo che ci aveva scoperti quando eravamo a mezzo viale, ci veniva incontro insieme alla figliolina, una bimba di sette anni.
- Passerà per mia sorella - diss'io alla Fasma; - non bisogna dar campo a sospettare. I contadini son la razza piú maligna del mondo.
- Anche questa!
- E permetterà che innanzi a loro ci diamo familiarmente del tu.
- Non se ne può far di meno - sclamò ella ridendo di cuore: - un passo obbliga all'altro -
La bimba volle caricarsi di una parte del nostro bagaglio; la fittaiuola mi tolse di mano la valigetta che pesava un pochino perché zeppa di libri, ed entrammo in casa.
- Prendi tutte le stanze che ti occorrono, le dissi (la fittaiuola era presente); due son sufficienti per me. Queste qui son le piú libere e le meglio esposte.
- Basta - rispose; - farò la scelta piú tardi -.
Non potè trattenersi dal ridere
- Ed ora pensiamo alla colazione - ripresi; - è la cosa che in questo punto mi pare importi il piú.
- Ci ho già pensato - disse la fittaiuola; - se voglion vedere...-
Infatti poco dopo eravamo seduti l'una rimpetto all'altro, con un monte di frutta, del burro, del cacio e delle uova davanti a noi.
La Fasma aveva perduto un po' di quella profonda tristezza che pareva la tormentasse. Non già che a volte non rimanesse tutt'assorta nei suoi pensieri e quasi straniera a quanto la circondava; però era ad intervalli che di mano in mano si andavan facendo piú brevi.
A tavola parlammo poco, ma con schietto buon umore. Avevo un magnifico appetito. Mi accade sempre cosí; quando son lieto divoro. E in quel momento ero piú che lieto, felice. Di che? Di nulla; di vedermela lí innanzi, di sentirla parlare, di riflettere che quella notte ella avrebbe dormito sotto il mio stesso tetto! Honni soit qui mal y pense!
Terminata la colazione, si affrettò a darmi innanzi tutto i venticinque franchi del suo fitto di un quarto di villa, piú altri cencinquanta pel vitto: io dovevo pensare a ogni cosa. Non ricusai, né rifiatai, perché sapevo di farle dispiacere. Dopo questo scendemmo a girare un po' pei campi. Voleva, come si dice, fare una ricognizione dei luoghi.
- Ella non smetterà le sue abitudini - mi disse per le scale; - mi farebbe pentire troppo presto di averla disturbata.
- In campagna - risposi - abitudini non se ne hanno. Si fa quel che piú piace. Gli alberi e le siepi sono d'una tolleranza e d'una discrezione a tutta prova -.
La campagna era inondata d'una luce diversa e migliore di quella del sole? Io credo di sí. La bella figurina doveva senza dubbio proiettare invisibili raggi che mutavano la faccia delle cose. Le infinite e leggiere gradazioni del verde; le tinte vivaci dei fiori che brizzolavano qua e là, in tanti toni, l'aspetto fresco e vegeto dei campi; i susurri delle frondi; i mormorii delle acque correnti pei rigagnoli e zampillanti dai getti di una piccola vasca; i pigolii malinconici, i gorgheggi chiassosi degli uccelletti affaccendati alla cova su pei rami degli alberi; il profumo che imbalsama l'aria; le mille intime voci della natura sprigionantesi da ogni parte con impeto folleggiante ai bei ultimi giorni del maggio; ogni cosa aveva, per virtú di lei, acquistato un sentimento nuovo, un soffio di vita piú allegra. Le donne son maghe senza volerlo. Figurati lei!
Pure la Fasma appariva trista e quasi stizzita di quelle correnti di gioia che la indifferente Natura emetteva, senza curarsi d'altri, per proprio conto. Che so? Quel paesaggio non slontanavasi forse abbastanza pei suoi sguardi e pel suo cuore. Forse il posto non aveva un aspetto tanto diverso da qualch'altro che ella avrebbe voluto dimenticare. E cosí, mentre il piede s'inoltrava lesto, potrei dire affrettato, lungo le viottole o fra l'erba, la sua anima fuggiva, fuggiva chi sa dove e parlava agitata con se stessa. Le labbra infatti le si atteggiavano di quando in quando a un che da non potersi dire né un sorriso, né un'espressione di rabbia o di sdegno: qualcosa di straziante, d'immensamente doloroso; un pianto (sicuro, era proprio cosí) un pianto dell'anima. E intanto gli occhi brillavano a volte, lampeggiavano, parlavano quasi allo inverso. Io la guardavo stupito
- Strana la vita! - esclamò ella ad un tratto - Due che poche ore fa erano perfettamente sconosciuti l'uno all'altra, si trovano ora vicini, ospiti della medesima casa, in via di diventare forse amici. Domani la fatalità che gli ha riuniti li sbalzerà di nuovo per lati opposti, e verrà dí che torneranno ad incontrarsi senza nemmen riconoscersi.
- Impossibile questo! - risposi.
- La vita ha cose peggiori! - soggiunse tentennando il capo.
- Badi qui; mi dia la mano. Eravamo all'orlo di un ciglioncino ch'ella voleva saltare. La sua manina fremette nella mia mano come colta da brividi, e la lasciò quasi subito.
In questo punto due farfalle ci passarono davanti l'una inseguendo l'altra. Ella fermossi e, proprio stizzita, diessi a sparire coll'ombrellino quella che pareva inseguisse, il maschio probabilmente.
- Dica violenze - rispose, - violenze del piú forte.
- S'intende, l'amore è una divina violenza: per questo è una gran cosa -.
Guardommi con tal cipiglio che non potrò mai dimenticare. Parve meravigliata osassi ragionar dell'amore; me ne rimproverava cogli occhi.
- No;… che vuole che io ne sappia! - rispose correggendo coll'esitazione quel suo primo slancio - Solamente…
- Solamente (badi, ve', è una mia opinione) io credo che gli uomini non abbiano diritto a discorrere d'un sentimento che non possono mai provare.
- Non possono?
- Certo. L'uomo non ama, fa all'amore.
- È una distinzione troppo sottile
- Giusto quel che volevo domandarle!
- Noi donne invece, una sola volta in vita nostra (non piú) noi amiamo davvero. Pel resto, noi non si fa mica all'amore; viviamo dei bricioli di quel primo banchetto della vita. Se gli uomini se ne persuadessero! Già spesso non ce ne persuadiamo neanco noi stesse.
- È la teorica del primo amore portata all'eccesso - osservai ridendo.
- S'inganna - rispose - Ciò che comunemente dicesi il primo amore è una sensazione quasi animale, istintiva, e può indefinitivamente prolungarsi per diversi stadi della vita. Frequente è il caso che parecchi uomini nel cuor d'una donna rimangano, l'un dopo l'altro, sempre un unico primo amore. Creda, la donna è capace del vero amore soltanto nella pienezza del suo sviluppo, dai vent'anni ai venticinque.
- Quanta poesia ella mi ammazza!
- E c'è peggio - continuò con arguta malizia - Non tutte le donne possono amare: fra cento, appena due!
- Qui bisogna intendersi - dissi - sul preciso significato che si dà alla parola.
- È un significato che non si spiega, s'intuisce. Noi donne lo comprendiamo quasi tutte. Che discorsi, non è vero? Mentre si ha dinanzi gli occhi una cosí bella campagna, con questa magnifica giornata, con quell'usignuolo tra i pioppi che gorgheggia divinamente! -
E corse, mutata d'un subito, alla fonte lí presso.
Il capelvenere rivestiva per intero la rozza muratura fatta a proteggere l'acqua dalle frane della collina; gli acanti vi crescevano rigogliosissimi alla base colle loro larghissime foglie frastagliate, riverse a guisa di capitello; e i lati venivano protetti da una siepetta di rovi fra cui si erano intrecciate certe campanule a fiori bianchi e grandi che non so come vengan chiamate dai naturalisti, né mi importa saperlo.
- Com'è bello qui! - disse; e tuffò nell'acqua le mani per spruzzarsi un pochino il viso con bizzarria fanciullesca.
Avessi tu visto che incanto! Che capolavoro di quadretto non avrebbe potuto farsi con quel piccolo sfondo verdeggiante e pieno di ombra e la sua gentile personcina ritta in piedi innanzi la fonte, cogli occhi chiusi e il capo riversato all'indietro, nell'atto che riceveva la fresca e cara impressione dell'acqua spruzzata!
Meravigliato piú che curioso, fermato a dieci passi di distanza, io domandavo intanto a me stesso: - Ma chi è costei che cita Shakespeare in inglese, ragiona dell'amore con tanta sottigliezza, e prende in affitto il quarto d'una villa dove sa doversi trovare sola a solo con un uomo ch'ella ha visto ora per la prima volta? Non sapevo che rispondere. Vi era tanta semplicità, tanta franchezza in quel suo fare, dirò anche tanta imprevidenza, che invece di sospettare qualcosa intorno a lei, io provavo verso la bella creatura un sentimento di rispetto e di tenerezza quasi protettrice, e la ringraziavo in cuor mio.
Questo sentimento somigliava l'impressione provata alla lettura di una di quelle serene e meravigliose pagine che Omero fra gli antichi e Goethe fra i moderni ebbero, quasi soli, la fortuna di poter scrivere: né piú, né meno. Infatti, per una strana associazione d'idee, io mi sentivo mulinare nel cervello:
Come vider venire alla lor volta
La bellissima donna i vecchion gravi
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
… Essa all'aspetto
Veracemente è Dea!
E ci mancava poco non mi stizzissi di quella pedanteria fuori stagione.
- Fuori proposito, anzi! - riflettevo alle dieci di sera, quando ella si era già ritirata nelle sue stanze, ed io appoggiato sul davanzale della finestra, col sigaro acceso, riandavo i menomi avvenimenti della giornata.
Poco prima avevo visto lí, sullo spianato, la famiglia dei fittaiuoli mangiar la minestra all'aria aperta; gli avevo sentiti calmi e alla buona ragionare di bestiame, di agli, di polli, di grano turco, di una piccola tirchieria del padrone, di tutto il lor mondo. E osservando la massaia belloccia un tantino, pulita, di un carattere mite e sottomesso, ero stato naturalmente tratto a confrontare le due vite, quella della Fasma e di lei, le due anime, i due cuori. Che differenza! Che sproporzione! E le mie simpatie non erano mica per la massaia, la donna all'antica, ma per la nervosa, per l'agitata, per la tormentatissima Fasma. Ecco perché dicevo che i versi di Omero mi eran venuti in mente a sproposito. Tra Elena e Fasma non ci scorgevo rapporto di sorta e irriverentemente concludevo: - Elena! Elena! È la massaia! -
Suonava la mezzanotte all'orologio di Empoli che nel silenzio notturno si sentiva benissimo fin là. Quei cento tocchi picchiati e ripicchiati cosí solennemente che dominavano cupi e lontani lo stormire delle frondi, il canto di alcuni grilli e il gracidare di qualche rana, accrebbero il senso d'indefinita malinconia e di sconforto, la quasi voglia di piangere che mi opprimeva in quel punto.
Quel fantasma vivente ne aveva già richiamati due altri che da un pezzo non mi si erano piú presentati alla memoria, o, se si erano, n'erano stati facilmente scacciati via. Ricordi lontani e recenti, immenso tesoro di aurei sogni, di grandiose speranze, di desideri ardentissimi, di dolcezze, di possessi, di dolori, di smanie, di disperazioni, quanto aveva insomma influito piú che ogni altra cosa sulla mia vita, e modificato l'anima e il cuore con indelebile stampo; tutto mi si era rimescolato nella memoria dietro quei due fantasmi di donne!
- E questo qui? - mi domandavo inquieto
E tornavo a fantasticare, a creare colla rapidità dell'elettrico dei veri romanzi onde spiegarmi l'enimma della giovane donna che forse, certo fantasticava alla sua volta tre stanze piú in là della mia
- L'amerò? - insistevo finalmente a domandarmi - l'amerò? E facevo e rifacevo un rigoroso esame di coscienza; però conchiudevo sempre di no. Non sapevo capirlo; ma c'era un che da cui mi veniva interdetto il sentimento preciso dell'amore: una forza repulsiva, un fluido misterioso (benefico o malefico, chi avrebbe potuto giudicarlo?) che mi teneva, come suol dirsi, a rispettosa distanza da lei. Ed io ora mi consolavo di questo, ora me ne sentivo un po' offeso; infine avevo trent'anni!
Il giorno dopo ella volle dei libri. Li scelse da se stessa, l'Ernesto Maltravers del Bulwer, i Nouveaux contes fantastiques del Poe, tradotti dal Baudelaire (due libri agli antipodi l'uno dall'altro) e stette quasi tutta la giornata nella sua stanza, ove io non osai andare a disturbarla.
Però dal finestrino di un piccolo andito potei, non visto, osservarla a lungo: leggeva a sbalzi. Sdraiata sur una poltrona, si lasciò due o tre volte cadere il libro di mano e non lo riprese che dopo un pezzo. Era il libro che slanciava quell'anima irrequieta dietro le visioni del passato, o incontro alle incerte nebbie dell'avvenire: o non aveva esso tanta potenza da impossessarsi completamente dell'attenzione di un cuore rigoglioso e travagliato dalla stessa sua forza, che pur tentava forse dimenticare il passato, forse dominare le fatalità del futuro?
A volte ella si levava, con uno scatto, da sedere; passeggiava su e giú per la stanza, ora rapida, ora lenta; poi si fermava colla testa bassa, colle braccia alzate in avanti e le mani aperte, quasi avesse voluto impedire a certi ricordi di accostarsi alla sua memoria, e restava in quell'atteggiamento per piú secondi; indi rimettevasi a leggere.
Verso le quattro pomeridiane scese in giardino e diessi a ripulire i fiori, ad annaffiarli, facendosi aiutare dalla fittaiuola. Mi affrettai a raggiungerla e fui molto sorpreso di non trovarle sul volto nessuna traccia di quell'agitazione interna della quale ero stato spettatore (per quanto dalle umane azioni si possa indurre con certezza i sentimenti e i pensieri).
La sua fronte era serena, d'una serenità verginale, illuminata dal tranquillo splendore della pupilla e da quello del suo sorriso; giacché il suo sorriso ora splendeva ed ora scintillava: almeno a me mi faceva quest'effetto. Vi era nel suo gesto una calma gentile; e dal suono della sua voce erano affatto sparite quelle vibrazioni tremule, imperiose, che davano alla parola un'espressione altiera, imponente, efficacissima.
- Questi poveri fiori! - disse vedendomi: - perché farli nascere e poi lasciarli morire di sfinimento?
- Crede ella che si accorgano di soffrire? - risposi.
(La fittaiuola si era allontanata per riempire d'acqua l'annaffiatoio)
- Non lo so - replicò - ma infine non mi pare una bella cosa. Io però ritengo che tutto soffra nella natura quando gli vien meno ciò che dovrebb'essere il suo alimento, il suo sostegno; l'anima, come il sasso: non vive ogni cosa?
- Sí; ma non ogni cosa ha la coscienza di vivere.
- Soffre meno forse; ma noi, per questo, restiamo meno cattivi? E continuò attentamente, con pazienza proprio materna, a levar via qua delle foglione riarse, là delle erbucce parassite; qua a smuovere la terra, lí ad accostarla piú al ceppo, rimondando, ripulendo, strappando; e i fiori pareva la ringraziassero quando il venticello gli agitava.
- Sa? - riprese dopo un pezzetto; - ho dovuto dire una bugia.
- Grossa? - feci io, sorridendo.
- Piccina, a dire il vero. La fittaiuola mi ha domandato come non avessi, benché sua sorella, l'accento toscano.
- Va'! Le bugie hanno le gambe corte. Ed ella ha risposto?
- Lo supponga. Sono stata lungamente fuori casa, maritata in Piemonte. Son vedova adesso.
- Ecco! - esclamò con gesto di rimprovero - lei rompe i patti. Ieri sera si fissò che nessuno dei due dovesse chiedere all'altro indicazioni di sorta sul passato; dovremmo prenderci per quel che si apparisce, due piovuti dalle nuvole.
- Ha ragione. Mi mordo la lingua -.
Quest'incidente bastò per turbarla. Lasciò in asso i suoi fiori, portò una mano alla fronte e voltommi le spalle avviandosi a manca, pel piccolo viale delle acacie. Fatti alcuni passi però si rivolse addietro e mi chiese:
- Non vuoi venire?
Passarono cosí parecchi giorni senza che il mistero di quella donna si chiarisse per nulla, ma non senza che la nostra famigliarità non divenisse piú intima e piú espansiva
C'era in quel carattere un po' del giovinotto e del virile, mescolato a quanto di piú finamente femminile possa trovarsi in una donna; ed io a poco a poco avevo, conversando, perduto il ritegno di toccare con lei certi soggetti scabrosi. Ci mettevo, è vero, tutta la delicatezza, tutto il pudore possibili; ma ritenevo anticipatamente ch'ella non avrebbe mai fatto la contegnosa fuori proposito. Mi pareva all'inverso, che il suo carattere elevato la dovesse difendere da qualunque bassezza. Infatti non c'è che le donne nobili di cuore e di mente per non arrossire di nulla in conversazione e tollerar quasi tutto.
Dopo due settimane ella veniva piú frequente nella mia stanza. Era un raggio di sole! Un nugolo di sentimenti vaghi ed incerti, di desideri confusi ed inestricabili, di dolcezze indovinate e non assaporate, le quali si eran lasciate dietro la smania di gustarle fino all'ultima goccia, turbinava, turbinava a guisa del pulviscolo dell'aria in quel soavissimo raggio, ed io me ne sentivo rischiarato fin dentro i piú ciechi nascondigli del cuore.
Ella si affacciava sorridente, esitando; spesso rimaneva a lungo fermata sull'uscio e poi si slanciava nella stanza con un piccolo salto. Voleva non mi levassi da sedere, né lasciassi l'occupazione che avevo per le mani; ed ora veniva a guardarmi a scrivere o a leggere e si appoggiava alla spalliera della mia sedia per dar un'occhiata al libro in lettura; ora andava attorno lesta come una rondine, mettendo in assetto ogni cosa, garrendomi del disordine seminato dappertutto.
- Facciamo un po' gli uffici di buona sorella! - diceva ridendo; e la luce del suo sorriso, direi anche il profumo della sua persona restava impresso e attaccato su qualunque oggetto ella toccasse. L'orma del suo piedino mi pareva vederla luccicare sul pavimento come del fosforo stropicciato.
- Sa - le dissi un giorno - che io finirò coll'innamorarmi pazzamente di lei?
- Non ha ancor cominciato? - rispose; - sarà troppo tardi!
- Per amare non è mai tardi - replicai un tantino punto sul vivo dal suo tono frizzante.
- Faccia presto, per carità! - continuò sullo stesso tono.
- Ma è proprio cattiva! - esclamai.
- Anzi troppo buona, mi pare. Cred'ella d'avermi fatto un bel complimento dicendomi che finirà coll'innamorarsi pazzamente di me? Quando un uomo non s'innamora, cioè, non sente la voglia di far all'amore a prima vista; quando può rivedere una donna, parlarle impunemente per due settimane e dirle infine scherzando: «Quasi quasi commetterei la sciocchezza di far all'amore con lei!» pretenderebbe forse che la donna gli dovesse rispondere: «Oh, grazie!» e gettarglisi al collo? Siete capaci anche di questo voialtri! Si metta in collera, via! -
Rimasi di stucco a quest'uscita. Ella si accorse del mio imbarazzo, e mutando intonazione, mentre rassettava sul tavolo le carte ed i libri, continuò senza guardarmi:
- Stia tranquillo; non mi amerà! -
E la sua voce tremava alquanto.
- Chi glielo assicura? - feci io, rinfrancato.
- Il mio cuore - rispose - Se non avessi questa certezza, capisce?, non rimarrei qui -.
La sua gaiezza sparí ad un tratto, e poco dopo ella andò via dalla mia stanza, piú che stizzita, turbata.
Quai ricordi, quai dolori, quali passioni le avevo destati nell'anima con quelle parole? N'ero tanto piú dispiaciuto, quanto piú convenivo ch'ella avesse ragione. Non l'amavo; era cosa certa: non mi sentivo tratto ad amarla. Avevo sbadatamente parlato a quel modo. Ella mi piaceva immensamente, mi inspirava un rispetto illimitato, misto ad un senso di compassione profonda: qualcosa che so io? di religioso, di superstizioso, di fanciullesco; amore, no di sicuro. Perché? Ecco il problema che non mi era riuscito di risolvere, e me lo ero messo innanzi piú volte. Avrei dato un occhio perché fosse stato diversamente. Vanità, sciocchezza o altro, mi attristavo di non amarla e di non esserne riamato. In quel cuore (non occorreva un gran sforzo) scorgevo sepolti inestimabili tesori di affetto, d'ingenuità, di sacrifici, di pudiche debolezze, di care fantasie, di nobili sdegni, di tenerezze quasi violente; non mancava uno solo di tutti i divini elementi onde la natura e la civiltà traggono fuori la sublime creazione della donna moderna: e mi pareva di doversi ritenere per fortunato davvero chi avesse potuto dire con piena coscienza: «Quel cuore mi appartiene!» Perché non dovevo esser io? E se non l'amavo, non avrei potuto amarla fra qualche giorno, fra una settimana, ed esserne riamato? Il cuore intanto, testardo! rispondeva sempre di no.
Ella però dimostrò, nei giorni appresso, voler quasi compensarmi di questa privazione con un mondo di gentilezze, di attenzioni cortesissime e cordiali che avevano il lor pregio e soddisfacevano in alcuni momenti le piú strane esigenze dell'amor proprio.
Potei sorprendere nei suoi sguardi, nel suo accento, nei suoi discorsi certi lampi di abbandono inusitati, involontari, che mi diedero i brividi. Giacché a volte, curiosa questa! provavo paura di essere amato da lei. La sua forza mi avrebbe sopraffatto; non sarei piú rimasto lo stesso! E rifuggivo da un amore in tal guisa. Avrei, all'opposto, voluto foggiarla a modo mio: cosí soltanto potevo meglio assicurarmene il possesso. Ma era un'assurdità! Pure! D'allora in poi ripetetti piú volte quel «pure!» pieno di tante cose; mi lasciai lusingare.
La vedevo di giorno in giorno venir a me con delle concessioni piú larghe. Erano atti, gesti, occhiate, bizzarrie, motti lanciati a mezzo, che indicavano evidentemente un segreto lavorio del suo cuore, un'effervescenza che non poteva piú venire padroneggiata dalla sua energica volontà; qualcosa piú forte di lei. Ma quando mi ero illuso un pezzetto, mi accorgevo da lí a poco che avevo torto. Il segreto lavorio, l'effervescenza, l'abbandono erano dei fatti da non potersi negare; ma tra questi sentimenti e la mia persona non ci scoprivo finalmente relazioni di sorta. Intravvedevo un sottinteso; ero, che dire? Un pretesto. E siccome sentivo avvilirmi troppo da quest'idea, correggevo: un capriccio. Ci scapitavo in tutti e due i casi e tornavo di bel nuovo, e di proposito, a illudermi.
In alcuni momenti il suo fascino diventava proprio immenso. Sentirmi avviluppare e compenetrare da quella malia era una delizia indicibile che, sopratutto, veniva dal suono della sua voce molle, velato, con la greca rotondità vantata da Orazio, che io non avevo capito fino a quel punto: la quale non era soltanto nel suono delle parole, ma nelle cose ch'esse esprimevano, in un'armonia che non si apprende.
E poi quel suo carattere a sbalzi! Quei passaggi inattesi! Quei contrasti cosí strani che pur riuscivano cosí naturali, perché venivano da lei!
Io mi stancavo a seguirla in tutte queste rapide trasformazioni, in tutti questi nuovi e sorprendenti avatara del suo cuore ch'ella spiegava forse ad arte innanzi i miei occhi sbalorditi, e mi davano le vertigini. Non c'ero abituato; scotevano troppo e, infine, perché? Non dovevo piuttosto rimanermene passivo, indifferente, in guardia (se cosí volevo) e lasciar fare? Non provavo anche in tale situazione un piacere squisito? Che andavo di piú cercando? Ma il «pure!» ecco, veniva a galla insistente; il filtro della Fasma operava. Le mie illusioni diventavano piú lunghe, piú frequenti; non osavo toccarle con la punta di un dito per tema di non vedermele volar via a stormo, come degli uccellini spauriti. Ella mi guardava in un modo! Mi sorrideva con tal'espressione! Finalmente non ero mica di marmo! L'illusione fu completa. Mi credetti amato davvero! Chi non l'avrebbe creduto?
Un giorno ella venne nella mia stanza, col volume del Poe. Scrivevo una lettera di affari; la pregai mi scusasse. Appoggiossi al davanzale della finestra, colle spalle rivolte alla campagna, e continuò la sua lettura.
Di tanto in tanto non potevo far a meno di levare gli occhi dall'uggiosissima lettera per contemplare quella bella figura illuminata dai lievi riflessi della luce che venivano di fuori. Una o due volte i nostri sguardi s'incontrarono: sorridemmo a vicenda.
Quand'ebbi terminata e suggellata la lettera, la Fasma mi parve talmente assorta nel libro, che non volli disturbarla. Stesi la mano ad un volume arrivatomi fresco fresco la sera innanzi, l'Eva del Verga, ripresi anch'io la lettura interrotta e fui legato alla mia volta Quel volumetto, si sa, proprio divora il lettore: ella me ne aveva parlato Ma in quel punto le mie sensazioni non provenivano soltanto dalla schietta bellezza del libro. L'imaginazione traduceva, interpretava, a modo suo quelle pagine appassionate. Eva e Fasma si confondevano bizzarramente: non le discernevo piú. L'opera dell'artista toglieva ad imprestito dalla realtà; la persona vivente dall'opera d'arte; e qualche volta sparivano tutte e due perché io le avevo lasciate chi sa dove? molto indietro, e mi ero lanciato alla ventura entro una vaporosa immensità tutt'ombre e splendori, tutta musiche e profumi, l'immensità dei sogni ad occhi aperti, e stentavo a rivenirne.
Infatti non mi accorsi che la bella Fasma si era pian pianino accostata e che, posatami leggermente una mano sui capelli, china col viso fin sulla mia spalla, osservava curiosa qual libro leggessi.
- Eva! - esclamò con stizza improvvisa, strappandomi il libro di mano.
Il libro, sfogliandosi tutto, era volato in un canto.
- Perché quel libro è cattivo! -
Credetti accennasse al falso concetto della moralità di un'opera d'arte che è in voga fra noi.
- Sono forse una ragazza? - le domandai ridendo.
- Non dico questo - rispose - È cattivo perché quell'Eva par viva e commove ed interessa e si fa amare come a una vera donna riesce di rado. Che infamia è l'arte! Possiamo noi entrare in lotta colle sue creazioni, con la sua potenza che spoglia la realtà da ogni triviale bassezza, da ogni accidentale stonatura e la rende immortale? Ma, quando vi siete montati la testa con tali visioni degne dell'oppio e dell'haschich, che ci rimane a noialtre infelici colle nostre debolezze, colle nostre miserie? Come ispirarvi interesse, compassione, amore? È una lotta disuguale: la donna colla Dea, e la povera donna soccombe! Che infamia è l'arte! Per un minuto di effimera consolazione spreme anni intieri di pianto. Il suo male non è ciò che dice, ma quel che non dice e costringe a supporre e a indovinare. Allorché questa morbosa facoltà si è sviluppata (e la si sviluppa tosto) il suo potere non ha confini; l'ebbrezza stimola all'ebbrezza. Quelle raggianti figure ch'essa evoca col potere della sua magica bacchetta passano gloriose e trionfanti innanzi ai vostri occhi e li fanno tremolare di sensazioni vivissime. Che siam noi rimpetto ad esse? Volgari, meschine, spregevoli ombre e, sopratutto, noiose, noiose all'eccesso! Qual terribile confronto! Ecco; ella guarda ancora il libro buttato lí e tenta, forse, ricostruirsi l'illusione che gli ho rotta. Ecco; non mi bada nemmeno!
- Ma no! - esclamai, levandomi dalla sedia e tentando di trattenerla per la mano.
Era scappata via come un lampo.
Dapprima, lo confesso, avevo creduto scherzasse; ma dall'accento compresi a un tratto ch'ella diceva davvero. Divenuta pallidissima, le sue labbra tremavano agitate, frementi: già pareva fosse lí lí per dare in uno scoppio di pianto.
- Mi ama! - dissi con superba compiacenza; - gelosa fin di un fantasma! Nessun critico aveva fatto a quel libro un elogio di tal sorta.
Mi lasciai tutto di un pezzo cader sulla seggiola e stetti lí chi sa quanto! Assaporandomi a centellini la sublime scoperta. Perché intanto non l'amavo anch'io?
Verso le cinque pomeridiane cadde quel giorno una delle solite pioggerelle del maggio, e l'aria ne rimase cosí rinfrescata da non permetterci affatto la nostra passeggiata serale.
La bella Fasma, del resto, non si fé' mica viva. Volevo questa volta picchiare due colpetti al suo uscio (omai me ne riconoscevo tutto il diritto); pure non mi parve conveniente: montai sulla terrazza.
Il vento aveva disperso qua e là le nuvole che, ridotte leggiere e trasparenti come tante ondate di fumo bianchiccio ai raggi della luna, facevan l'effetto di slontanare piú e piú l'azzurro cupo del cielo seminato di stelle. Dai prati attorno levavasi un fresco sentore di humus piacevolissimo, una vera sensazione della vita della natura, la quale pareva godesse coi suoi mille esseri affollati pei campi e pelle colline i dolci sogni della sua lieta giovinezza, dei veri sogni di amore. La campagna infatti spiegavasi lí innanzi scura, con ondulazioni diverse, con linee larghe, con masse immense, imponenti, nel fondo. Era come accovacciata e ripiegata su se stessa; rifiatava appena, sotto una pioggia di pulviscolo argentato cadente dall'alto quasi a proteggerne il sonno
Stetti lí circa fino alle due dopo la mezzanotte, col capo scoperto, incurante del freddo e del sonno, incurante spesso anche di pensare; immerso nell'onda dolcissima di un piacere senza nome, di una sensazione tiepida, snervante, che finiva col tormi la coscienza del mondo e di me stesso; e la mattina ero in preda d'una fiera emicrania; tolleravo appena la piú debole luce; tenevo a stento gli occhi aperti.
Mi ero, la notte, buttato vestito sul letto; e in tale stato ella trovommi verso le nove della mattina, quando, aperto lievemente l'uscio, chiese a bassa voce:
Non ebbi la forza di darle subito una risposta; sicché ella accostossi premurosa sulla punta dei piedi al mio letto, e, vedendo ch'ero desto, tornò a domandarmi, questa volta:
Benché mezzo stordito capii la forza di quel «ti» e apersi gli occhi per ringraziarla con uno sguardo e con un sorriso. Nel tempo stesso m'impadronii di una sua mano e l'accostai alle labbra.
C'era qualcosa di nuovo, di sorprendente in lei, come un'effusione, uno straripamento di affetto che si versava dalle pupille tremule e imbambolate di tenerezza. Non avevo mai udite tante carezze nel suono della sua voce, né mai veduto tanto abbandono nel suo gesto.
- Ti senti male? - replicò per la terza volta con accento ognora piú affettuoso e piú carezzevole, chinando il viso presso il mio.
Tenni chiusi gli occhi. Sentivo il tepore della sua pelle e il suo respiro, e non osavo rispondere per paura di rompere colla mia voce quell'incanto. La sapevo cosí bizzarra, e cosí strana!
- È la mia solita emicrania - risposi finalmente per non tenerla piú sulla corda.
- Hai medicine? - tornò a domandarmi.
- Sí, ho preso il guarana. Passerà. Vorrei star peggio e averti sempre vicina! - soggiunsi dopo E ribaciai la sua mano.
Ella mi posò lievemente le labbra prima sulla fronte, poi sugli occhi, poi sulla bocca (e qui ve le tenne piú a lungo) Fece cosí due o tre volte, sempre lievemente, toccando appena la pelle come per non farmi male. Io mi sentivo guarire. Non erano mica baci quelli lí, erano qualcosa di meglio; una dolcezza nuova, ineffabile che, se non mi guariva, mi avrebbe ucciso. Il dover ristorare, ravvivare i nervi sofferenti e intorpiditi dimezzò la loro potentissima azione, e fu bene davvero.
La stanza era al buio. Verso la parte del letto veniva di rimbalzo la poca luce di mezz'uscio aperto e copriva tutta la sua persona, facendo luccicare le pieghe della sua veste di faglia nera con riverberi smorzati. Il suo volto specialmente era illuminato per intero; ma piú che da quella, pareva lo fosse da una luce sua propria, da uno sprigionarsi d'atomi brillanti dalla pelle e dagli occhi che le svolazzavano attorno.
- Mi ami dunque? - le chiesi attirandola verso di me col braccio che le cingeva il busto
Liberossi improvvisamente dalla mia stretta e balzò in piedi. Impaurito di quell'atto sorsi anche io sul sedere. Sorrise, mi porse le due manine, e guardandomi fisso in volto, con un'indefinibile civetteria che era nell'accento, nel sorriso, nell'atteggiamento, in ogni cosa, domandommi:
Aperse gli occhi quasi atterrita, lasciò cadere le braccia e ripetè macchinalmente:
Era pallida: tremava. Io non capivo davvero. Che mai potevo aver detto di male? E per stornarla da quell'impressione mormorai nuovamente:
- Mi ami dunque?
- Dio mio! - fece ella portando, con acuta espressione di dolore, le mani al suo volto.
- Fasma! Fasma! - le gridai dietro, ma invano.
Avevo avuto torto. Che importava quella domanda? Non era anche troppo ch'ella mi facesse evidentemente capire ciò che io volevo confessato dalle sue labbra? Perché tormentarla? Perché quasi avvilirla innanzi a se stessa esigendo un'inutile conferma del mio trionfo?
Fosse l'emozione o il guarana, l'emicrania era sparita. Saltai giú dal letto, apersi le imposte e la improvvisa inondazione della luce (il sole era in alto) mi giunse incresciosa.
Colle ombre amiche e discrete parve s'involasse dalla stanza la miglior parte delle dolcezze poc'anzi provate, e quando colla superstizione di un contadino richiusi le imposte, credetti sentire dei lievi e ironici cachinni dietro i cristalli, al di fuori. Erano le fuggite impressioni che si facevano beffa di me.
Mi son chiesto piú volte perché l'amore si compiaccia volentieri di ombre e di mistero.
Dei sentimenti che tu hai tenuto lunga pezza nascosti, che ti son montati piú volte a fior di labbra e gli hai ricacciati indietro, sdegnoso persino di confessarli a te stesso, in un luogo appartato e privo di luce, ecco ti sgusciano dal cuore senza ritegno, senza che tu te ne accorga, e il cuore si sente come levar una macina di addosso.
La luce irrita, mette in attività, distrae le cento forze dell'organismo, e l'amore, questo terribile autocrate, non può tollerare che una menoma parte dell'attività vitale sia impiegata altrimenti quando esso governa. Innamorati, cerchiamo perciò la notte con indomabile istinto. Un bacio dato allo scuro val piú di mille baci scoccati sotto i giocondi testimoni dei raggi solari. Una parola sussurrata senza che si veggano le labbra dalle quali ci viene, dice un mondo di cose che tu non trovi nella stessa parola pronunziata di giorno da due labbra stillanti dolcezza.
Consigliati forse da quest'istinto, la Fasma ed io ci evitammo, quel giorno, a vicenda. Le imposte delle nostre stanze rimasero chiuse; desinammo alla meglio, ognuno per proprio conto; ed io mi rimisi a letto e guardai per delle ore il soffitto, da cui mi brillava nella mente certo rosone di fiori stranissimi osservato altre volte, il quale intanto serviva di pretesto a dei soavi pensieri
Levatomi dopo il tramonto apersi l'uscio e le imposte, attesi con impazienza di sentire il fruscio della sua veste nella camera attigua, e quando fu il momento sporsi fuori il capo ad interrogare l'espressione del volto di lei.
Era di una tristezza rassegnata, una tristezza di amore però e di nient'altro; si vedeva.
Le andai incontro, le strinsi la mano senza dire un sol motto; e indovinata la sua intenzione d'uscire all'aria aperta, le accennai si avviasse.
- Che stupenda serata! - diss'ella scendendo lenta le scale.
All'orizzonte il cielo somigliava un lago di purissimo verdemare con spuma di oro lucente Su quei spruzzi di nuvole, su quei vapori crepuscolari la luce del sole tremolava di mille riflessi sempre cangianti che smorivano chiari, con bellissimo effetto, sulle linee nette e frastagliate dei colli, e in alto con dei toni di azzurro sempre piú densi e piú cupi, di tale trasparenza e di tale unità da far disperare qualunque artista.
L'aria agitata leggermente da un venticello vespertino, fresca, asciutta, profumata da odori indistinti, avviluppava il corpo e lo penetrava con una sensazione di ristoro efficacissima; lo rendeva una piuma.
La campagna aveva sussurri, gemiti, mormorii, rumori vaghi, canti interrotti di galli, trilli sommessi d'insetti, agitar d'ali impercettibili, rosicchii continuati, affacendamenti misteriosi, abbaiare di cani, tintinni di campane di bestiami lontani; e poi quell'intiera, indefinibile, fremebonda corrente di vita da cui son legati assieme tutti gli esseri, per cui si sente il pensiero umano e nell'insetto e nella fronda e nella roccia immobile e tranquilla.
Oh, c'era davvero piú di quanto occorresse!
Le nostre mani, ricercatesi di accordo, si erano avviticchiate avidamente e si premevano forte. Procedevamo commossi cogli sguardi slanciati per l'immensa campagna, senza sentir bisogno di dirci una breve parola, fermandoci di quando in quando per scambiarci un bacio interminabile ch'ella era la prima ad interrompere, esclamando sottovoce:
- Mio Dio! -
Pareva che quella felicità la facesse soffrire.
Io intanto avevo stizza di non soffrire a quel modo. Non ero evidentemente neppur felice a quel modo!
Sopraffatta da un impeto di passione selvaggia, stordita, concentrata in sé, fremente per tutta la persona con spasimo lieve, ella lasciavasi in pieno abbandono delle mille sensazioni onde era dominata ed oppressa, anzi procurava di raddoppiarne l'effetto: e ciò che io chiamava soffrire ne era proprio il colmo, il loro estremo valore.
Quel pieno abbandono, quel dimenticare me stesso a me, invece, non riusciva. Provavo un piacere dimezzato. Vedevo insistentemente la mia immagine sorridere ed agitarsi nel suo piccolo cuore: ma la vedevo preciso come un'immagine riflessa sul nero della camera oscura. Attraverso quell'immagine, che pur sembrava solida e vivente, ne passava sovente un'altra che non potevo discerner bene, la quale la avvolgeva, le si sovrapponeva formando una strana confusione, e infine le spariva dietro come se vi si chiudesse dentro e l'animasse e le desse il moto Appunto per questo ora non ripetevo piú la sciocca domanda della mattina.
Le ombre cadevano fitte dal cielo: la terra dormiva. Gli alberi, le macchie, le erbe avevano già preso una figura molto diversa da quella del giorno. A dieci passi di distanza, l'aspetto delle cose assumeva sembianze fantastiche: la mente ne era un po' turbata, e l'occhio vedeva quel che non era, l'orecchio sentiva rumori strani e fuori natura. Un altro momentino, e le fate, gli spiriti, sarebbero venuti a volteggiarci sul capo, a turbarci, a impaurarci colle loro apparizioni improvvise.
Provava anch'ella quest'effetto, e mi si stringeva al braccio con forza e girava attorno diffidente la testina e si fermava ad ascoltare.
Ci eravamo dilungati troppo benché si fosse andati lentamente. Chi voleva accorgersi delle ore volate via? Andavamo incontro ad un gruppo di alberi che disegnavansi sull'orizzonte con forme immani e grottesche. Si sarebbe detto che dei mostri giganteschi, fermati ad attenderci lí sul passaggio, agitassero le teste orrende e digrignassero i denti.
- Torniamo addietro: ho paura! - sussurrommi all'orecchio, appendendomisi al collo come una bimba.
Traversammo i campi da un'altra parte e prendemmo per far piú presto una scorciatoia.
La fittaiuola, addormentata, ci attendeva a piè della scala. La mandai a letto ringraziandola e seguii la Fasma ch'era già nel salotto.
Il sorriso con cui mi accolse fu qualcosa di sublime. Mi sentii come preso da un delirio veemente, e le corsi incontro e la levai di peso tra le braccia. Ella die' un piccolo grido e nascose il volto sulla mia spalla
Credetti che qualcosa di eterno per la mia vita si fosse deciso in quel punto! E tutto tremante varcai, la prima volta, con essa in collo, la soglia oscura della sua stanza.
La mattina dopo mi domandavo: - Ho sognato? Non trovavo il verso di persuadermi che quanto era accaduto fosse proprio una realtà. Certe volte non c'è cosa che paia piú impossibile del vero.
Giú mi attendeva un ragazzo con una lettera da Firenze. Un urgentissimo affare di famiglia mi richiamava colà; potevo esser di ritorno la sera. Guardai l'orologio; mancava ancora tre quarti di ora pel passaggio del treno: giusto quanto occorreva ad arrivare in tempo alla stazione.
Rifeci, stizzito, le scale onde avvertire la Fasma. Trovai il suo uscio serrato col paletto di dentro. La chiamai a nome; non rispose. Stetti ad origliare commosso. Mi era parso d'aver sentito singhiozzare. Possibile? E ritenni il fiato Non mi ingannavo. Veniva dalla sua stanza un suono di pianto represso, di grida soffocate, di singhiozzi interrotti.
- Ahimè! - pensai, - questi passaggi repentini come debbono farle del male! -
E picchiai, ripicchiai, tornai a chiamare piú volte. Nessuna risposta! Quel pianto, quelle grida smorzate a forza, continuavano sempre. Che fare? Il tempo stringeva.
- Fasma! Fasma! - le urlai dietro l'uscio; - debbo andare a Firenze; sarò qui col treno di sera. Per carità, stia tranquilla! Mi risponda. Stia tranquilla. A rivederci! -
Non avevo piú il coraggio di darle del «tu»! Nessuna risposta!
E rimanevo dietro l'uscio. Però dopo alcuni minuti mi parve sentire, o sentii davvero, una parola di addio. Corsero alcuni istanti di angoscioso silenzio. Il pianto a poco a poco cessò, cigolò finalmente il paletto e la Fasma apparve accanto all'uscio. Sorrideva, ma in viso le si vedevano chiare le tracce del suo dolore.
- Che è stato? - le chiesi tremante.
- Nulla! - diss'ella - È passato. Addio.
- Tornerò presto; non posso far a meno di andare.
- Addio! - ripetette con una monotonia di accento che mi trafisse l'anima.
Evidentemente ella pativa a star lí. Mi decisi a partire.
- Per carità, stia tranquilla! - replicai stringendole affettuosamente la mano.
- Addio! - diss'ella per la terza volta e collo stessissimo tono.
Affrettai di una corsa il mio ritorno. Eran le sette di sera.
- La signora dov'è? - chiesi alla fittaiuola.
- È già attorno da un pezzo - rispose quella donna con aria inquieta.
Entrai nella mia stanza e non so perché gli occhi mi corsero subito al tavolo; c'era un foglio spiegato. Sentii stringermi il cuore da un tristo presagio! Non osavo accostarmi. Che poteva aver scritto? Finalmente presi convulso quel foglio e corsi subito alla finestra. Era una sua letterina.
«Caro signore» diceva «non pensi male di me! Mi compatisca invece, mi compianga. Prima di buttarmi la pietra del suo disprezzo, ella dovrebbe conoscere tutta la storia del mio cuore e della mia vita, un'infelicissima storia. Non gliela posso dire; è troppo lunga; e poi, a qual pro? Non pensi male di me! Mi dimentichi: è meglio! Non osa domandarle altro la sua gratissima Fasma»
Pensar male di te! Dimenticarti, divina creatura! Oh, potessi rivederla!
Villa Santa Margherita, agosto 1874