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Udito il lieve scricchiolio dell'uscio, Eugenio si voltò.
- Buon giorno - gli disse la pallida testina di donna che s'era affacciata tra i battenti semiaperti.
- Di già levata! - egli rispose freddamente.
La signora Viotti entrò, facendo un sol passo. Aveva un soave sorriso su le labbra e negli occhi, e scrollava la testa con lieve aria di rimprovero vedendolo rimanere là, invece d'accorrere ad abbracciarla e a sorreggerla.
Eugenio, infatti, era visibilmente contrariato dall'inattesa apparizione di quella pietosa figura di convalescente dal viso scarno, dalle occhiaie livide e infossate, dalla persona esile ed alta, avviluppata nell'ampia e pesante veste da camera.
- Ma, il dottore... - egli disse, alzandosi dalla poltrona e gettando il libro sul tavolino.
Presala per le mani ch'ella gli porgeva, Eugenio, un po' accigliato, la condusse lentamente presso la finestra:
- Potevi aspettare qualche altro giorno -.
La signora Viotti, senza punto badare al tono severo della voce, gli s'era gittata al collo e lo baciava e ribaciava:
- Come ti voglio bene! Quanto ti voglio bene! -
Non si sapeva frenare, e resisteva ai moti impazienti di lui che cercava di svincolarsi.
- Via, non fare il cattivo! - disse, scoccandogli un ultimo bacio, in distanza, nell'abbandonarsi, spossata dallo sforzo, su la poltrona. E rovesciata la testa, socchiudendo gli occhi, mormorava a fior di labbra:
- Sono felice; non voglio piú morire!... Siedi qui, non fare il cattivo -.
Era stato un colpo di pazzia. Se n'accorsero quasi subito, dopo quattro o cinque mesi della loro vita di amanti; ma si accorsero pure di non trovarsi in uguali condizioni, pur troppo! Mentre Eugenio, passato il primo bollore della passione, si staccava da lei mezzo annoiato, mezzo sazio, naturalmente, senza che la riflessione vi concorresse per nulla; la signora Viotti - che aveva abbandonato il marito da cui si sapeva adorata e che aveva adorato anche lei fino a sei mesi addietro, essendosi sposati per amore - la signora Viotti, all'opposto, si sentiva attaccare, di giorno in giorno piú strettamente, da uno di quei violenti legami pei quali la ragione non vale.
Da Treviglio, dove Eugenio trovavasi a villeggiatura a villa Savini, invitato da un amico, essi eran volati a nascondersi nell'immensità della capitale, in quell'elegante quartierino di via Modena, al terzo piano. E durante il primo mese, uscivano soltanto la sera, a braccetto, per passeggiare pei quartieri nuovi, baciandosi furtivamente lungo le vie solitarie, quasi in tutta la giornata gliene fosse mancato il tempo! E non facevano altro, Dio mio! Erano proprio insaziabili. Andando attorno posatamente, parlandosi all'orecchio e stringendosi le mani, ella gli ripeteva spesso:
- Anche a me - rispondeva Eugenio.
Conosciutisi in una scampagnata, egli aveva avuto appena l'occasione di susurrarle qualche parola di semplice galanteria, senza nessun preconcetto, senza nessun'idea di far colpo, sapendo bene che quei due, marito e moglie, s'erano sposati per amore. Ma una sera, sul tardi, ritornando alla villa da una passeggiata faticosa, avvedutisi di esser rimasti molto indietro da la compagnia, eran diventati a un tratto silenziosi, impacciati di trovarsi cosí soli tra i filari dei gelsi che costeggiavano la via, sotto quel cielo senza luna, nella penombra della sera che invadeva tacitamente la campagna al leggiero stormire delle fronde.
In che modo i loro sguardi s'erano incontrati? In che modo era spuntato sulle labbra di tutti e due lo stesso sorriso pieno di stupore?... E in un baleno, ella gli si era buttata tra le braccia, singhiozzante:
- Che gran male mi avete fatto!... Mi sento impazzire! -
Eugenio, interdetto, turbato, rispose a stento:
- Ci chiamano!... -
Nella nottata però non poté chiuder occhio; quella voce singhiozzante, piena di tanta passione, gli aveva sconvolto cuore e cervello. Non credeva a se stesso:
- Amato fino a questo punto! -
E due mesi dopo, nelle loro passeggiate serali per le vie della nuova Roma essi ridevano ancora del terrore provato in camera di lei, a villa Savini quella volta che suo marito aveva dovuto correre da Treviglio a Milano per un affare urgentissimo. A notte avanzata, essi avevano udito un rumore, secco secco.
- Han chiuso l'uscio della stanza di passaggio! - ella balbettò, stringendogli un braccio, convulsa - Oh Dio! Saremo scoperti, tra le risa mal celate della servitú, tra le ipocrite indignazioni delle altre villeggianti!... E mio marito, quando saprà...! -
La signora Viotti si disperava, si torceva le mani, si strappava i capelli.
- Non può essere... Zitta!... Vo a vedere -.
E andato di là, per accertarsene coi propri occhi, Eugenio era subito tornato addietro pallidissimo, mordendosi i baffi... Terribile quarto d'ora! Smarrita, tremante da capo a piedi, vincendo ogni pudore, s'era levata anche lei, e presi per mano, barcollanti, erano andati insieme di là, dinanzi a quell'uscio fatale, per forzarlo a ogni costo!... E che infrenabile convulsione di risa, vedendolo ancora aperto com'egli, venendo, lo aveva lasciato!
- Ero cosí agitato, per te, da travedere fino a quel punto!
- Ed io, ricordi?, balbettai: «Un sorso d'acqua!» Quasi svenuta sulla poltrona, tremavo e ridevo!... -
Cosí riandavano spesso i piú lievi fatti del breve passato; ella senza nessun rimpianto di quel che, fuggendo, avea lasciato dietro di sé; egli senza nessun pensiero dell'avvenire quasi la loro felicità di amanti avesse dovuto durare eternamente!
Quando la signora Viotti, ammonita dal suo fino istinto, sorprese in Eugenio i primi sintomi di raffreddamento, rimase stordita come da un colpo di martello su la testa. Non pianse, non gli disse nulla. E messasi a osservarlo, dissimulando l'intensa ambascia, a ogni sintomo che le rendeva piú evidente la propria sciagura, si sentiva correre per tutto il corpo un veleno sottile sottile che le guastava il sangue rapidamente.
Da prima, Eugenio la vide deperire con indefinibile sentimento d'inquietudine:
- Che cosa ti senti?
- Io? Niente.
- T'inganni -.
Egli non insisteva. Sicuro del suo segreto, aspettava di poter scoprire qualcosa di simile nel cuore di lei; allora lo scioglimento della crisi sarebbe riuscito facilissimo. Né disperazioni, né lagrime; una stretta di mano, una parola di rimpianto per la felicità volata via... e festa! Il marito pronto a perdonarle e ad aprirle le braccia, non aveva scritto ultimamente a un amico perché s'interponesse? E questi s'era presentato alla signora con la gravità d'un diplomatico. Ella, sí, aveva avuto il torto di rispondere: - Non c'è perdono per una colpa come la mia! - Umile alterigia a sproposito. Dopo quella risposta però egli le aveva susurrato, abbracciandola: - T'amo piú di prima. Sei stata sublime!... - E aveva mentito.
Compresa finalmente la vera ragione di quel muto dolore, Eugenio provò un vivissimo senso di dispetto, come per una prepotenza, per una inqualificabile soverchieria. Ma non ebbe il coraggio di rinfacciargliela; e rodendosi dentro, diventava a ogni minima occasione e per futili pretesti incontentabile, stizzoso, continuamente aizzato da quel suo dispetto ingiustissimo - ne conveniva, qualche volta, internamente. E con tutto questo non gli riusciva di provocare un po' di resistenza, qualche scena da parte di lei! Ne arrabbiava.
La signora Viotti, zitta, rassegnata, deperiva intanto con incredibile rapidità, per quella vampa interna che le inaridiva il sangue e le struggeva le carni.
- Meglio lasciarmi morire! - aveva deciso.
Eugenio, per convenienza, per scrupolo anche, una mattina condusse in casa il dottore; ma la signora ricusò di riceverlo.
- Che dottore! Perché? - ella diceva sforzandosi di parere tranquilla. - Sto benissimo -.
E non si lamentava della sua sorte, neppure quand'era sola:
- Se Eugenio non mi ama piú, che posso farci? Forse son io che non ho saputo farmi amare durevolmente; forse, questo è il mio gastigo! E sia. L'amo, l'amerò fino al mio ultimo respiro. Voglio morir qui, in casa sua; non potrà scacciarmene morente! -
Poi cedette, per contentarlo. A ogni visita, ella guardava fisso il dottore; voleva leggergli sul volto la propria sentenza.
- Parli schietto: è cosa grave? - gli domandò una volta che Eugenio era assente.
Il dottore tentò di rispondere: - Ma... se...
- Non ho paura di morire - ella lo interruppe per farlo uscire dalle reticenze. - Sappia che se fossi in pericolo avrei importanti disposizioni da dare.
- Per cautela, provveda, - allora conchiuse il dottore.
- Ah!... Va bene - ella mormorò.
Avvertito dal dottore che lo aveva incontrato per le scale, Eugenio entrò da lei insolitamente commosso; e vedendo affondato nei guanciali il volto quasi irriconoscibile della bellissima donna un giorno amata, s'arrestò, quasi non lo avesse mai osservato fino a quel momento.
- Povera donna!... Se deve morire, muoia almeno credendosi ancora riamata! -
La signora Viotti lo guardava con occhi dolenti, da vittima invocante misericordia dal carnefice; e quegli sguardi lunghi, quasi addio pieno di strazio, parevano domandargli dimessamente: perché non m'ami piú?
Da quel giorno però Eugenio cominciò a sembrarle di bel nuovo mutato.
- Guarisci presto - le diceva, accarezzandole il volto dimagrito, ravviandole le ciocche di capelli arruffate su la fronte. - Siamo ne la bella stagione. Andremo in campagna, o a Sorrento come tu desideravi una volta. Cercheremo un nido, un paradiso di verdura e di sole, degno del nostro amore, degno di te... - Ella non rispondeva, non sorrideva neppure a quelle carezze e a quelle promesse, tuttavia incredula, decisa di lasciarsi divorare dalla gastrite. Ma da che Eugenio rimaneva giorno e notte in camera, presso il letto, dormicchiando spesso sopra il canapè, per esser piú pronto a somministrarle la medicina e a cambiarle le pezze ghiacciate alla testa; da che gli sentí ripetere, con lo stesso accento d'una volta, le dolci parole d'amore che l'avevano inebriata fino ad offuscarle la ragione, fino a spingerla ad abbandonare un marito cosí buono da perdonarla s'ella avesse accettato il perdono - quelle parole piene d'incanto che Eugenio non le aveva mai ripetute da un pezzo - ella pensava:
- Oh Dio!... Mi sono forse ingannata?... -
Eugenio medesimo in certi momenti non avrebbe saputo distinguere s'egli continuava a rappresentare una pietosa commedia o se diceva davvero. Il rimorso d'aver contribuito, quantunque involontariamente, alla distruzione di quell'innamorata creatura lo spingeva a esagerare:
- Poverina! Muoia almeno contenta.
- Senti - gli disse un giorno l'ammalata. - Debbo confessarti una cosa... -
Con le mani dimagrite, tremule per debolezza e che scottavano, gli aveva preso le sue e gliele stringeva forte: - Fatti piú accosto; posa la testa sul guanciale... Ascolta. Prima di morire, voglio confessarti...
- Eh!... Non siamo a questo punto.
- Forse -.
S'era arrestata per guardarlo da vicino nelle pupille; e gli passava una mano sulla guancia, con l'incerta carezza di persona rifinita dalla malattia.
- Ti vedevo cambiato. Credevo che tu non mi volessi piú bene e che ti fossi diventata peso insopportabile, dura catena...
- Ma...
- Lasciami dire. Non ti accusavo, non ti maledicevo. Vedi? Muoio per questo, e sarei morta disperata, se non te lo avessi fatto comprendere. Perdonami!... Ingannata dalle apparenze, ti calunniavo indegnamente... Perdonami! -
Su quel volto pallido e scarno, le lagrime scorrevano, sgorgando piú abbondanti dalle ciglia a ogni parola, a ogni frase, le scendevano fino alle labbra, ed ella se le beveva con voluttà, impedendo che Eugenio gliele asciugasse:
- No, lasciami piangere... È cosí dolce!... Lasciami morire cosí -.
Interrogando il dottore, egli era tormentato dall'ansia di vedere indovinato il proprio egoismo, la freddezza di cuore sopravvenuta. In alcuni momenti cercava di mentire fin con se medesimo, se l'intima voce della coscienza lo rimproverava, inesorabile, a ogni domanda con cui egli sperava di accertarsi che, presto o tardi, quella tortura sarebbe finita. E dopo tre eterne settimane passate presso la malata, giorno e notte, senza andare a respirare un soffio d'aria libera, si sfogava in soliloqui brutali:
- Farà morir di sfinimento anche me! -
E subito, quasi per ammenda, la povera ingannata che smaniava dalla febbre si vedeva sopraffatta da effusioni di carezze e di parole affettuosissime, che parevano scaturire dal piú profondo del cuore. Ed erano invece mera finzione, artifizio, per attutire la voce interna che insorgeva contro di lui. Aveva forse due anime? Vivevano insomma due diverse persone nel suo corpo, una buona e una cattiva? Egli non sapeva spiegarselo.
Il dottore intanto non si lasciava scappare affermazioni recise:
- La malattia, gravissima perché non curata in tempo, segue il suo corso; la signora può guarire, lentamente; ma... -
A quel ma lasciato cosí sospeso, Eugenio sentiva, suo malgrado, un po' di sollievo.
- Per certe anomale situazioni della vita, non c'è altra soluzione! - rifletteva freddamente. - Non l'ho provocata, né agevolata - aggiungeva subito per scusarsi con se stesso.
E spiava ogni sintomo, e notava ogni minimo cambiamento, aggirandosi smanioso attorno a quel letto dove la povera signora, riarsa dalla febbre, soffocava gli atroci dolori per non gridare, per risparmiargli l'angoscia di vederla soffrire, ora che si credeva ancora amata!
- Mi sento assai meglio, sai? -
E le visceri le si torcevano sotto la coperta, intanto ch'ella gli sorrideva e gli chiedeva baci.
La mattina che la signora Viotti, già convalescente, si affacciò allegra su l'uscio del salotto, augurando all'amante il buon giorno, Eugenio, di cattivo umore, non seppe neppure usarle la cortesia di alzarsi subito da sedere e andarle incontro.
- Sono felice; non voglio piú morire! - ella mormorava abbandonata deliziosamente su la poltrona.
Eugenio, in piedi, la guardava; e aveva su le labbra l'equivoco sorriso - quasi contrazione - di chi, non piú amante, vede ribadirsi la catena creduta già vicina a spezzarsi.