IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
«IDEM PER DIVERSA»
Mi era rimasto nell'orecchio il suono della sua voce mormorante: - Giorgio! Giorgio! - carezza vocale che mi aveva penetrato l'anima e tornava a farmi spasimare come nel triste momento dell'addio.
- Ti ricorderai di me?... Giorgio! Giorgio! -
Io non rispondevo, con uno stupido sorriso su le labbra inaridite, tenendola per le mani e premendomele sul cuore. Ella insisteva:
- Ti ricorderai di me? Le dicevo di sí con strette piú forti, impedendole di svincolarsi, dandole dei bacettini fitti fitti, per rapirle qualcosa da portar via con me, lontano, nella solitudine che m'attendeva, e dove non mi sarebbe bastato il solo ricordo di lei.
Poi si era messa a parlare rapidamente, passandomi lieve lieve le mani sul viso, intramezzando le carezze con baci che mi sfioravano appena la pelle, e pure mi facevano scorrere brividi acuti per la persona; e aveva rammentato tutti i particolari del nostro incontro, del primo ritrovo, i mille incidenti delicati e gentili, i motti, i gesti, i paesaggi, le impressioni, gli oggetti, ogni cosa che riguardava la nostra breve felicità, quasi avesse voluto cosi imprimermi tutto nella mente e fissarvelo per sempre con quelle estreme carezze e con quegli ultimi baci.
- Ci rivedremo?
- Oh, sí!
Ella aveva fatto la domanda quasi rivolgendosi a qualche essere invisibile, a cui poteva esser noto l'avvenire; e al mio: - Oh, sí! - aveva scrollato amaramente il capo, con gesto di desolata rassegnazione.
- Ah, Giorgio, Giorgio! - Accento indimenticabile.
Ogni volta che aveva ripetuto il mio nome, mi era parso d'intendervi un significato nuovo, una dolcezza, una tenerezza, un abbandono sempre piú intimi, sempre piú profondi. Ero stupito ch'esso potesse assumere tanti e cosí diversi sensi dalla sola espressione della voce. E per ciò di lei, e di quel doloroso istante di separazione non m'era rimasto altro nella memoria; ma era tutto.
Ricevendo una sua lettera, appena letta l'intestazione: «Giorgio!... Giorgio mio!» l'illusione della sua voce si ripeteva vivissima. Ella scriveva con garbo e con semplicità, come sanno fare molte donne per l'invidiabile loro attitudine che ingentilisce anche le cose piú futili a traverso la scrittura. E la sensazione riflessa di quell'accento aggiungeva grazia alle cose da lei scritte, ne faceva spiccare la freschezza, la sincerità, dando alla parola muta l'attrattiva della parola parlata; come se la calligrafia vibrasse, e l'atteggiamento dei vocaboli e del periodo corrispondesse al movimento delle labbra nell'istante in cui la mano trasmetteva alla carta il pensiero.
Durante la giornata rileggevo parecchie volte l'ultima lettera, per procurarmi questa dolce sensazione e sentirmi ravvicinato a lei. La rileggevo la sera, prima d'entrare in letto, per cercar di rivedere la cara persona almeno in sogno; e spesso riuscivo nel mio intento. Appena ebbi notato che questo mi accadeva piú facilmente quando avevo aspirato a lungo il profumo di cui erano impregnati i fogli, potei rifarmi nel sogno quella vita d'amore che mi era vietato vivere desto. Il passato si ripeteva talvolta con sí strana precisione, quasi evocato da magico richiamo, che al destarmi la impressione netta e intensa mi faceva dubitare per qualche istante se mai non fosse stato vero che io avessi lasciata Silvia poco prima, dopo una passeggiata insieme o dopo un ritrovo.
Però i sogni che mi riuscivano piú cari erano quelli che non corrispondevano a nessun avvenimento reale di cui mi fosse rimasto traccia nella memoria. Mi sembravano proprio la continuazione del tempo felice ch'ella rifugiavasi tra le mie braccia quasi per frugarvi nuove delizie d'amore, e ci illudevamo dovesse scorrere eternamente a quel modo, convinti che nulla avrebbe potuto dividerci, tanto ci sentivamo uniti anzi diventati un'anima sola in un sol corpo! E mi pareva cosí anche se gli avvenimenti sognati, con la loro fantastica stranezza, mi rendevano avvertito che era precisamente il contrario.
La solitudine agevolava la notturna eccitazione della fantasia; la noia delle faccende d'ufficio, delle quali dovevo occuparmi per molte ore della giornata, mi spingevano a ricercare ansiosamente il benigno conforto di quell'eccitazione. Oramai non dovevo fare nessuno sforzo; chiusi gli occhi al sonno, quell'altra mia vita ricominciava, riattaccandosi talvolta al punto in cui era stata interrotta. E il piacere del ricordo mi riusciva cosí forte nella veglia, che per poco non mi convincevo che la mia vita reale fosse per l'appunto la sognata.
Cominciai con grandissimo gusto il giornale dei miei sogni. Ne trascrivevo a Silvia i brani piú interessanti; e se ella mi rispondeva in maniera da farmi capire che la cosa le sembrava impossibile, ne provavo stizza.
Spesso mi mettevo a riflettere intorno alla novità di quel caso, per tentar di spiegarmelo.
- Che mai c'è in questa donna di diverso dalle altre? - E riferivo tutto al mistero da cui ella era circondata per me. La conoscevo cosí poco! Di lei sapevo soltanto quel che le era piaciuto dirmi. Mi aveva detto la verità? Pareva di sí. E non avevo mai insistito per penetrare piú addentro nel suo passato, o nelle presenti condizioni della sua vita. C'eravamo incontrati, piaciuti ed amati; ci amavamo tuttavia; bastava.
- È forse piú bella di tant'altre capitate sul mio cammino? -
No; anzi non mi sembrava punto bella. Quegli occhi neri e grandi però erano improntati d'una mitezza ineffabile: quelle labbra, tumide e sbiadite avevano però un invincibile fascino, se sorridevano, se parlavano, se davano baci; quelle mani, né grosse né piccoline, ma elegantemente modellate, dalle ugne rosee, dalla pelle fina, morbide e tiepide di un tepore sempre uguale, erano però cosí affettuosamente carezzevoli, che, una volta toccate e strette, uno non avrebbe voluto abbandonarle piú. La sua persona era simile a quelle di molte altre per isveltezza e per statura, se non che aveva una rara semplicità di movenze e di gesti. Eppure!... Ma questo qualcosa di caratteristico che la distingueva era cosí sottile, cosí sottile da sottrarsi a qualunque analisi. Ne avevo una coscienza confusa: ne provavo una sensazione inesplicabile. Nessun'altra donna era mai penetrata cosí addentro nel mio cuore, né v'aveva mai esercitata cosí potente azione. La lontananza rinfocolava l'affetto, invece di spandervi cenere sopra.
«Tu dunque ti contenti dei sogni?» ella mi scrisse una volta.
Infatti era cosí. Dopo le impazienze e le smanie dei primi due mesi, non le parlavo piú del mio ritorno, non lo affrettavo coi voti, non computavo piú i mesi, le settimane, i giorni, le ore che si frapponevano inesorabili fra lei e me. Il giornale dei sogni, all'ultimo, aveva talmente invaso le mie lettere, prendevo tanto gusto nel notare quella vita fantastica a cui già s'era ridotta la felicità della mia forzata solitudine, che scrivendo provavo talvolta l'impressione di occuparmi d'un romanzo bizzarro, di un poema in prosa, di un'opera d'arte insomma, piú che di scriver lettere a una persona amata e lontana.
Ella non me ne faceva rimprovero «Giorgio! Giorgio mio!» Mi sembrava piuttosto sorridesse compassionevolmente, e non senza una certa soddisfazione di sentirsi adulata in quel modo. Soltanto una volta, dopo la narrazione d'un sogno che avevo chiamato il sogno dei sogni, tanto mi era parso meravigliosamente bello, ella mi scrisse: «No, caro; il sogno dei sogni sarebbe la realtà, se tu fossi qui.» E la sua risposta mi fece male.
Allora ignoravo gli effetti dell'azione dei profumi su l'immaginazione durante il sonno; ignoravo che un osservatore curioso era riuscito, prima di me, a crearsi sogni determinati, complicati, con l'aspirare diversi profumi ai quali era legato il ricordo di qualche cara persona. Credevo anzi che il vero provocatore di quei magici effetti, che mi stupivano e mi si erano ridotti indispensabili, non fosse precisamente il delicato profumo d'elitropio bianco preferito da Silvia, bensí quello, piú gentile e piú immediato, della sua mano, che doveva comunicarsi ai fogli da lettera nel non breve contatto, mentr'ella riempiva le otto o dieci paginette con la sua scrittura rotonda e chiara. Per ciò fui non poco meravigliato una mattina che mi svegliai senza aver sognato niente. E la mia meraviglia si accrebbe nei giorni seguenti, vedendo continuare la incresciosa interruzione.
Scrissi a Silvia una lettera affannata, piena di sospetti, di paure, di gelosie. Ero diventato superstizioso. Rileggendo piú volte, al solito, l'ultima letterina, m'era parso di scorgervi tra le righe qualcosa che non mi era mai balzato agli occhi fino allora: una certa freddezza che non poteva piú dirsi l'affettuosa rassegnazione alle dure circostanze per le quali dovevamo vivere divisi parecchi altri mesi.
Tempo addietro mi aveva parlato d'una corsa di un giorno in un paesetto vicino a quello dove il mio ufficio d'ingegnere mi teneva relegato; imprudenza da parte sua, ma ch'ella pareva assolutamente risoluta di commettere per verificare se le volevo davvero il bene che le mie lettere affermavano.
«Non mi fido delle tue parole; questa sequela di sogni mi rende incredula.» Poi, non me ne aveva piú parlato. Le rammentai quel suo progetto. Rispose: «Avevi ragione; sarebbe stato un'imprudenza. Non voglio crearti impicci: non voglio compromettere, per un breve godimento, la nostra felicità avvenire. L'ora del tuo ritorno si avvicina...» E la lettera seguiva, fantasticando le pazze gioie di quell'ora.
Come non m'ero accorto ch'ella aveva mutato profumo? Lo scopersi una mattina allo svegliarmi rattristato dal brutto sogno, dov'era inattesamente comparsa un'altra persona amata cinque o sei anni avanti, che mi era costata molte angosce, che mi aveva messo al terribile repentaglio di commettere o una viltà o un delitto, e alla quale non potevo mai pensare senza sentirmi correre un fremito da capo a piedi. L'avevo dimenticata da gran tempo... Fu cosí che riconobbi la sostituzione dell'iride fiorentina all'elitropio bianco. L'iride era il profumo dell'altra.
Scrissi a Silvia rimproverandola, e aggiunsi: «Non posso soffrire l'iride. Se mi vuoi bene, bandiscila subito.» Ma quando le lettere tornarono ad odorare di elitropio bianco, dovetti finalmente convincermi che qualcosa era venuto meno dentro di me, o tra me e lei; e n'ebbi strazio acutissimo.
Sentivo un gran vuoto nel cuore e, nello stesso tempo, una specie di stanchezza dell'amore e di lei; stanchezza, anzi sazietà, che conoscevo per prova, avendola sperimentata altre volte. Quantunque continuassi, prima di addormentarmi, ad aspirare il profumo dei fogli, i rari sonni avvenivano rapidi, sconnessi, quasi l'immaginazione fosse stanca e sazia anch'essa pel gran lavoro di tanti mesi.
Dal tono delle lettere, ella si avvide del mio cambiamento, e se ne mostrò afflittissima. Negai; non volevo farle dispiacere... «Giorgio! Giorgio!» Ora mi tornava insistente nell'orecchio la piú desolata delle sue inflessioni di voce al momento dell'addio; alla mia compassione s'univa un po' di rimorso.
«E i tuoi sogni?» ella mi domandò una volta. Ne inventai, per consolarla, per nasconderle la realtà di quel che provavo dentro di me. Avevo vergogna di mentire in tal modo, eppure continuavo a mentire.
Mi confortavo, pensando che la vicinanza avrebbe fatto sparire l'atonia del mio cuore. Le sue lettere, dopo che ne rilessi parecchie per confrontarle, per vedere se mai fosse avvenuto in lei qualcosa di simile, e se mostrassero anch'esse ombra di stanchezza e di sazietà, mi parvero uguali, affettuose, tutte con quell'aria di delicata rassegnazione che tanto mi piaceva. O dunque?
Il mio ritorno era prossimo. Ci pensavo con curiosità piú che con altro sentimento; cercavo di antivedere quel che sarebbe accaduto al nostro incontro. Ora mi osservavo freddamente, ragionavo intorno alle mie impressioni. Studiavo il fenomeno dei miei sogni, e mi pareva di trovare in essi il bandolo che doveva guidarmi verso l'esatta spiegazione del mio caso psicologico.
- C'è stata - dicevo - una semplice inversione. Quel che sarebbe naturalmente accaduto nella vita ordinaria - il lento maturarsi, l'affievolirsi dell'amore, la sua totale sparizione - per una serie di bizzarre circostanze, è avvenuto nei sogni. Identico processo; identico risultato. Nell'ovvio andamento delle cose, la lontananza avrebbe prodotto il suo immancabile effetto. Sopravvenuta un'eccitazione casuale, che avea tenuto attivo il mio spirito, come avrebbe fatto nella vicinanza il contatto di Silvia, la passione aveva proseguito il suo corso ordinario. Che questo fosse seguito nello stato di sogno invece che nella veglia, non voleva dir niente; non c'era discontinuità nella mia vita. Ed io, con grande stupore, mi trovavo nello stesso caso in cui mi sarei trovato se fossi rimasto sempre vicino a Silvia; solamente le circostanze esteriori sarebbero state diverse.
Confesso che questo mi faceva dispetto. Mi sentivo defraudato. Non rimpiangevo il mio amore; mi offendeva il modo con cui mi era stato tolto. Mi irritava, sopra tutto, il pensiero che la medesima cosa poteva esser avvenuta in lei, quantunque dalle lettere non trasparisse; ma traspariva forse dalle mie? Non m'ero affaticato a mettere in esse tutta la pietosa ipocrisia di cui è capace una creatura umana raffinata dall'educazione, dirò anzi, sofisticata dalla civiltà? Eppure non scusavo la povera Silvia. Inconseguente - me n'accorgevo - provavo contro di lei un vivo rancore, quasi mi avesse vilmente tradito, ed io le fossi rimasto immutabilmente fedele.
Mi aveva scritto che sarebbe venuta alla stazione; da un cantuccio, per non essere scorta da qualche persona conoscente, voleva vedermi scendere dal vagone e darmi il bene arrivato anche non vista da me. Mi avrebbe seguito o preceduto a casa, secondo le circostanze.
Non venne né alla stazione, né a casa mia. Mi scrisse lo stesso giorno del mio arrivo, per iscusarsi. Ci vedemmo due giorni dopo.
- Sognerai piú? - ella disse, ridendo.
Feci una mossettina con le spalle.
Non mi pareva lei. Gli occhi, le labbra, le mani, la voce... nulla, nulla della mia Silvia di otto mesi avanti! E odorava di quella odiosa iride fiorentina! Ella non ci aveva badato, venendo. Allora capii che soltanto la carta da lettere della nostra corrispondenza era stata profumata d'elitropio bianco per farmi piacere, proprio come, per non dispiacerle, io avevo inventato tanti sogni!