Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Racconti
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TOMO I

LE APPASSIONATE

XIII EVOLUZIONE

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XIII

 

EVOLUZIONE

 

 

 

ANNIVERSARIO

 

La primavera arriva proprio il ventuno? - domandò Fasma in mezz'all'uscio.

- Cosí assicura l'almanacco - rispose Oreste. Continuando a scrivere, egli non vide la graziosa moina con che Fasma gli si accostava dietro la seggiola e gli posava sulle spalle le manine dalle ugne rosate.

- Se domani, per darle il ben venuto, andassimo a Santa Margherita? Oreste rovesciò indietro la testa e, serio serio, guardò negli occhi la gentile creatura che continuava a sorridergli e aggrottava le sopracciglia, per fargli il verso.

- È una voglia?

- Andremo a piedi. Il dottore questa mattina mi ha consigliato di far del moto.

- Ah!... Le prescrizioni del dottore bisogna eseguirle appuntino.

- Bravo! -

E Fasma, baciato vivacemente suo marito in fronte, si mise a saltare per la stanza, battendo palma a palma.

- Come negarle qualcosa in questo stato? Può essere davvero una voglia - pensava Oreste.

 

Tre sere dopo infatti erano ancora a Santa Margherita, su la terrazza della villa, appoggiati al ferro della ringhiera. Sotto la terrazza si spalancava il nero abisso della valle. Un cupo stormire di fronde montava di tanto in tanto da quella voragine piena di tenebre; e negli intervalli, lo scroscio monotono del ruscello, che cascava dall'alto nella conca della Caudaredda, rammentava a Fasma la deliziosa mattinata goduta laggiú, in fondo a quell'orrido, dove ora non distingueva nulla, all'infuori di qualche masso bianchiccio che pareva un fiocco di nebbia.

- Quante primule fra le erbe selvatiche! Quante stelline! Com'erano gustose le arance staccate fresche fresche dall'albero e sbucciate all'ombra del giardino, mentre le mulacchie, i falchetti, i passerotti schiamazzavano dalle sporgenze e dagli spacchi della rupe dirimpetto!... E la rupe impennacchiata di oleastri, di capperi, di caprifichi, tutta grotte e fenditure, e che pareva dovesse scoscendere! Non sapendo vincere la sciocca paura di vedermela cascare addosso improvvisamente, io alzavo gli occhi a ogni momento e li richiudevo con brividi per la persona. Tu intanto, cattivo! mi hai canzonato tutta la mattinata: «Bada, che casca! Bada, che casca!» Ti credevo forse? Eppure ho avuto paura lo stesso... Che delizia di frescura però! Che paradiso con quel concerto di cardellini, di merli e di usignuoli fra le macchie dei roveti e tra i rami degli olmi!...

Fasma parlava sottovoce, come se facesse delle confidenze; e, col braccio destro passato attorno alla vita di Oreste, lo stringeva carezzevolmente, quasi la paura fanciullesca le si rinnovasse in quel punto. Oreste stava zitto. Mentre il fumo della sua sigaretta si disperdeva in nuvolette opaline sul fondo cupo dei colli, ora fissava le nerissime forme di mostri ritagliate dagli alberi sul cielo bronzino, verso la Lamia; ora seguiva curiosamente i lumi che apparivano e disparivano lassú, sul monte dove Mineo rizzava la fosca massa del campanile di Santa Maria e delle vecchie rovine del castello. Il mormorio della voce di Fasma gli faceva l'effetto d'un soave tremolo di violino e serviva a cullarlo nell'indefinita fantasticheria che già lo avvinceva col suo torpore. Fasma s'era fermata un momento, molto intrigata da quel silenzio. Egli era stato mezzo mutolo quasi tutto il giorno, con aria annoiata, quantunque le avesse assicurato ripetutamente che non era vero.

- Di'? La pesca dei girini nelle conche del ruscello non ti ha divertito molto... M'inganno? Dopo tre soli giorni, sei già bell'e seccato della campagna!... Io, invece, vi rimarrei volentieri una settimana, fino alla sera del sabato... Non è poi l'eternità!... Questa volta la primavera è stata puntuale. Che tepore da tre giorni! Il misto di fragranze che sale dalla valle mi alla testa; me ne sento inebbriare!... E questo susurro di fronde non pare, proprio rumore di ondate che si spezzino fra gli scogli? Mi rammenta la sera del nostro viaggio di nozze, quando sul terrazzino dell'albergo rimanemmo un bel pezzo cosí - col braccio destro attorno alla tua vita - a contemplare il porto di Messina agitato dalla marea che frangeva in tanti guizzi i riflessi verdi e rossi dei fanali dei legni perduti nell'oscurità... Te ne ricordi eh?... Non è vero che questo cupo stormire l'illusione dei cavalloni del mare?... Perché non rispondi?... Ti senti male?... Sei annoiato?... di cattivo umore?...

- No, no! - brontolava Oreste.

La sua voce però lo tradiva. Intanto se avesse dovuto dire che cosa continuava, dalla mattina, a tenerlo turbato, si sarebbe trovato imbrogliatissimo: non lo sapeva nemmeno lui. S'era destato cosí. Da quasi un anno, , da quasi un anno - da che Fasma era diventata l'affettuosa compagna della sua vita - non gli era piú accaduto di provare una tristezza a quella maniera. Tristezza? No: malinconia. Avrebbe voluto trovarsi solo, senza niente che lo distraesse, neppure la dolce voce di Fasma!... Rimescolio di cose dimenticate, di cose lontane; bagliori della sua giovinezza; fantasmi di sogni gentili spariti con gli anni; confusione vaporosa; non era altro. Ma il cuore gli si inteneriva in modo straordinario in quell'oscurità, su quella terrazza dalla quale tante volte aveva assistito a simili scene della natura, fumando, appoggiato al ferro della ringhiera, mentre le fronde stormivano e il ruscello scrosciava da l'alto nella conca della Caudaredda, e tutta la vallata si accovacciava sotto il cielo bronzino di altre notti come quella.

 

A un tratto, una fiammata solcò l'oscurità, poi s'udí uno scoppio lontano; altre fiammate s'accesero e sparvero, seguite da altri scoppi, Fasma rizzò la testa:

- È per la festa dell'Annunziata.

- Ah! - disse Oreste, lasciandosi cadere di bocca la sigaretta.

Le fiammate e gli scoppi continuavano ancora. Gli echi della rupe rispondevano con lento brontolio nella vasta serenità della notte. Poi le campane di Santa Maria cominciarono a suonare a festa; altre campane rispondevano piú in , dalle altre chiese, con squilli di ogni sorta, pastosi, vibranti, argentini, lanciando un immenso tripudio che diffondevasi lentamente per l'aria e andava a sperdersi nell'infinito.

Fasma era scossa:

- Non avrei mai immaginato che le campane a distesa, sentite di notte dalla campagna, avrebbero potuto produrre sensazioni cosí potenti. Oh, tutti e due già dimenticavamo che domani è festa! Io però non voglio perdere la messa restando in campagna!... -

Oreste era tutt'orecchi.

Din, don, din, don!

Quelle campane festeggiavano il sedicesimo anniversario del suo primo amore, il solo culto che gli rimanesse. Ah, i suoi nervi, quel giorno, aveano avuto miglior memoria della sua testa, e del suo cuore!...

Don, din, din!

Ora capiva!... E cercava ansioso, nello spazio, la bruna e pallida figura di Iana, quasi avesse dovuto apparirgli, con quel suo sguardo pieno di tristezza, nella limpidissima oscurità del cielo tremolante di stelle.

Din, don, din!

Oh, quel suo primo amore! Sogno di fanciullo! Ma tutti gli altri, affollatisi scompigliatamente nella sua scapata giovinezza, tutti gli altri erano stati soltanto prove mal riuscite dell'attuazione di quel sogno!...

Din, din, don, don!

Ed eran passati sedici anni! Gli pareva ieri. Ogni anno, in quel giorno sempre cosí. Intanto perché oggi il cuore gli era rimasto freddo freddo, e solo i nervi aveano provato il sordo risveglio delle care impressioni? Che voleva dire?

Din!... din!... don!

Era una cosa quasi meccanica? In quella malinconia dell'intera giornata, metà del suo organismo non c'era entrata per nulla?... Possibile?...

Din!... Din!... Din!... Le ultime ondulazioni delle campane morivano lentissimamente per la calma notturna.

 

- Che hai? - gli domandò Fasma, gettandogli le braccia al collo.

Oreste esitava a rispondere. Quella voce lo aveva rimescolato tutto.

- Che ho?... -

Né poté aggiungere altro. La baciava, l'accarezzava, se la stringeva al petto; e non osava confessarle che in quel momento il dolce sogno del suo primo amore si era confuso con la bella realtà tremante di commozione fra le sue braccia!

 

 

 

DAL TACCUINO DI ORESTE

 

Te ne ricordi? Era ancora buio. L'orologio della stazione segnava le cinque meno dieci minuti. Scendemmo noi soli. Il treno ripartí subito sfondando l'oscurità traendosi dietro la sua interminabile coda di vagoni, sbuffando, fischiando sinistramente pel vasto silenzio della campagna. Che triste mattinata! Montammo zitti zitti nell'unica carrozzella che si trovò . Presi dal freddo, già bagnati dall'umido della nebbia che avvolgeva ogni cosa, ci tenevamo per le mani sotto la coperta che avevo steso sulle nostre ginocchia, accostandoci per riscaldarci un po'; quel tempaccio metteva un che di piccante nella nostra scappata di innamorati.

La strada s'inoltrava tra due filari di alberi, fangosa, luccicante di pozzanghere per l'acqua caduta la notte. L'occhio già intravedeva qualcosa nella oscurità che incominciava a diradarsi. Gli alberi, per la corsa del legno, ballavano in mezzo alla nebbia come tanti fantasmi. Lo sfangare del cavallo batteva la solfa. Il rumore delle ruote si perdeva lontano, nella fosca solitudine dove distendevasi la strada.

Albeggiava. Il cielo era coperto. La nebbia errava a grandi masse leggere su le praterie, fra gli alberi, attorno le cascine, stendendo, laggiú, una cinta grigia che andava a confondersi col grigio del cielo. L'aria frizzava. Oh, non si arrivava piú a quel benedetto Cassano! La strada filava diritta; pioppi di qua, pioppi di . Qualche cascina affacciava dietro i pioppi il tetto rossiccio e le mura biancastre con le finestre ancora chiuse. Qualche gallo cantava. E la strada filava sempre dritta, fangosa, luccicante di pozzanghere. Il cavallo sfangava, sballottando il gramo legno con scossoni indiavolati.

Noi ridevamo come due ragazzi scappati di collegio un giorno di vacanza. Avevamo creduto di trovare il bel tempo, il sole, l'autunno, e c'incontravamo in una precoce giornataccia d'inverno. Ma non voleva dir nulla. Eravamo soli, lontani cento miglia dalla città, in un posto dove nessuno ci conosceva. Bastava. Quel po' di mistero era una felicità. Quando si vuol bene ci si appaga quasi di niente. Tre anni fa, chi di noi due avrebbe mai creduto che ci saremmo trovati , in quel legno, a quell'ora, con quella dolce intimità di cuore che ci sorrideva negli occhi?

 

Durante il viaggio io pensavo a questo. Mi pareva impossibile. Ma allora capivo che lo impossibile è quel che s'avvera piú facilmente. Una sera, te ne ricordi? si ragionava tranquillamente nel tuo salottino, accosto al caminetto. Era di dicembre. Come fu che passando da un discorso all'altro, rimasti soli un momento, io ti dissi sotto voce qualcosa che ti fece diventar rossa rossa?

- Lei scherza! -

In quel tempo correva il lei fra di noi.

- No, no, parlo seriamente -.

Tu diventasti pallida a un tratto e abbassasti la testa.

- Parlo seriamente - replicai. - Perché non vuol credermi?

- Le credo, le credo!... Però... -

La tua voce era turbata. Io stavo per aggiungere qualche cosa, ma entrò gente; e per tutta la serata non potei dirti altro. Tornai due sere dopo. Eravamo seduti allo stesso posto; il caminetto scoppiettava allegro, ma non eravamo soli. Che rabbia! Tu mi leggevi negli occhi la grande impazienza e mi guardavi quasi smarrita. Pareva avessi paura non ci lasciassero soli. Io mi feci coraggio. Accostai un po' piú la seggiola, fingendo di parlarti d'una cosa indifferente, e ti dissi all'orecchio:

- Non mi crede ancora?

Tu ti baloccavi con le molle, ravviavi i tizzi accesi; mi par di vederti. Non volevi rispondere; evidentemente la risposta non era bella per me e ti pesava dovermela dare. Finalmente parlasti. Io, allora non volli crederti.

- Chi era quell'uomo che aveva la tua parola, quantunque non avesse il tuo cuore? -

Non potei strappartelo di bocca.

- Perché avevo aspettato tanto? Non lo sapevo neppur io -.

Mi misi a ridere sforzatamente, per celare il mio disinganno. Non ero tra le rose in quel punto. Se tu non fossi rimasta seria, chi lo sa?, forse non sarebbe avvenuto quel che dopo è avvenuto. Ma tu rimanesti seria seria.

- Amici come prima?

- Piú di prima - ti risposi. E sorridevo. Che viso dovevo avere!

 

E poi, di salto, pensavo a quell'altro giorno di Treviglio, la prima nostra scappata. Rivedevo quella casetta bianca, con le persiane verdi, con quel gran pergolato che formava una graziosa tettoia davanti la porta, dietro il cancello di ferro; casetta civettuola, che ci aveva fatto fermare pensosi tutti e due su la strada polverosa, attratti dal silenzio e dalla pace che covava in quel nido.

- Come ci si starebbe bene! -

Facemmo insieme la stessa esclamazione e restammo tristi. A che pensarci? Ci trovavamo senza sapere veramente perché. Anzi, secondo te, non avremmo dovuto venirci; avevamo fatto male. Tu avevi rimorso. Eri nervosa, inquieta, malcontenta di te stessa. Io ti guardavo come colui che non spera niente, rassegnato, contento di rubare un momento di felicità alla mia cattiva sorte. Ci perdemmo pei campi. Fra gli sterpi delle siepi affacciavano qua e la testina certi fiorellini gialli dal lungo stelo con due foglioline verdi. La campagna era arida. Il sole la faceva apparir bianca, con riflessi che ci abbagliavano. E noi c'inoltravamo per le strade deserte, saltavamo i fossi, risalivamo il letto secco di un torrente ove io trovai quel ciottolo di marmo verde, venato di bianco e di nero, sul quale poi incisi il tuo nome a lettere di oro. Seduti sull'argine, quasi fuor del mondo, di che si ragionava? Vattel'a pesca! Certamente di cose deliziosissime. Non ci accorgevamo della vampa del sole, né del vento che scomponeva i fiori del tuo cappellino di paglia e voleva stracciare il tuo velo scuro. Le ore passavano inavvertite. Ah, la campagna! Ah, il sole!

Ti avevo strappato il tuo segreto; ero felice nella mia desolazione; ti avevo visto piangere! Che potevo pretendere di piú? Ma ogni speranza mi era chiusa.

Oh, com'era dolce pensar tutto questo passato lontano, lontano - fiaba, leggenda, mi pareva - mentre il cavallo sfangava sulla strada di Cassano sballottando il legno su cui tu sedevi accanto a me, ora mia, proprio mia! Tu forse pensavi le stesse cose. Era difficile non pensarci. Che brutta giornata! Cominciò a piovere. La camera di quel meschino «Grande Albergo» dava sulla corte e non era punto bella; ma noi vi mettemmo subito la nostra allegria. Che risate calde! Eravamo tornati fanciulli.

E la sala da pranzo? Che appetito con quell'umido che s'infiltrava anche dentro, con quella nebbia che s'incollava insistente ai vetri delle imposte! Dopo desinare, la sala si empí del fumo delle nostre sigarette, cioè delle mie; tu ne fumasti appena una. Guardavamo fuori, in piazza, le botteghe, i contadini che passavano sotto grandi ombrelli bagnati dall'acquerugiola che non voleva finire, le contadine con le spalle appoggiate alle soglie, le mani sul seno o ciondoloni, ciarlanti da un uscio all'altro, dalla via e dalle finestre, e che ridevano o facevano smorfie, secondo i discorsi. Ci contentavamo di quello spettacolo, invece dell'altro che c'eravamo immaginato venendo. L'importante era stare insieme una giornata, ignorati, lontani dagl'importuni. Pioveva? Tanto meglio; non ci stancavamo a correre pei campi, com'era nostra intenzione.

Le imposte della sala erano tempestate di nomi, di date. Altre persone che si volevano bene erano state prima di noi e vi aveano lasciato un ricordo. C'erano anche dei versi del Byron, che ora piú non rammento.

- Chi può essere questa Jenny firmata sotto questi versi?

- Una vecchia zittellona brutta, sdentata, dagli occhiali verdi - dicevo io.

- Una miss Chiaro-di-luna - dicevi tu.

Sciocchezze! Ma eravamo felici.

Allora ci venne l'idea di scrivere anche i nostri nomi su quell'album di legno verniciato. E tu scrivesti: Fasma (nome di adozione) col tuo bel caratterino. Io, Oreste, con le mie orribili zampe di gallina; e mettemmo la data, data indimenticabile!

Ora voglio dirtelo. Ti rammenti che io vi scrissi alcuni versi in lingua russa che tu volesti tradotti?

 

Ho visto passare l'Amore

Con un gran fascio di cure.

- Dammene, Amore, - gli dissi -

Dammene un po'. - Ma egli tirò diritto.

 

, , versi russi, cara mia! Invece erano motti foggiati per , di nessuna lingua, senza alcun senso, che io ti tradussi sfacciatamente a quel modo. Quando penso che qualche tourist li copierà per cercare di farseli tradurre anche lui! E tu ripetevi cantarellando:

 

Ho visto passare l'Amore

Con un gran fascio di cure

 

Ora ho quasi rimorso di averti cosí canzonata.

 

Eravamo ancora dietro i cristalli, quando passò quell'accompagnamento di morticino. La pioggia era cessata, e il cielo sorrideva qua e di splendido azzurro. Il sole, affacciandosi dalle nuvole dorò il feretrino, luccicante di ornati di rame in rilievo, che il becchino portava su la testa sopra una tavola coperta da un bel tappeto rosso, che nascondeva la persona. Parve fatto apposta. Quel sorriso di sole venuto cosí a proposito c'intenerí. Io ti vidi gli occhi pieni di lagrime.

Poi, per dieci minuti, andammo fuori, passando in punta di piedi fra la mota della piazza fino al ponte che accavalcia l'Adda. Com'era bello, come era magnifico l'Adda spumante, che veniva giú sonoro fra le larghe rive per la verde campagna! Allora ce la prendemmo col cattivo tempo; io specialmente, ingrato!, dicevi bene: - Ingrato! -

 

E anche tutto questo mi sembra oggi un passato lontano lontano, una fiaba, una leggenda.

Mentre scrivo, tu dormi tranquillamente nella camera accanto; mi par di sentire il tuo respiro... Sono venuto una volta per assicurarmi se eri tu che muovevi la culla accosto al letto. No, era Lillí che armeggiava con le manine di rosa. Mi ha guardato, mi ha sorriso (mi ha riconosciuto?) e non si è messo a piangere.

Sento che armeggia ancora. E la mammina cattiva dorme, come niente fosse!...

 

 

 

PRESENTIMENTI

 

In quei giorni Fasma era stranamente inquieta, senza ragione.

- Ho un cattivo presentimento - diceva. - Deve accadermi qualche cosa di male; lo sento aleggiare d'attorno... Non so...

- Dorme bene? - le domandò il dottore venuto, come soleva, per una visita amichevole. E sorrideva, guardandola maliziosamente.

- Oh, no, no! - ella disse diventata di foco nel viso. - Come sono impertinenti questi dottori! -

Allora il dottore, cavato di tasca il taccuino, si mise a scrivere una ricetta sul ginocchio, scrollando la testa:

- Tutte pari le donne! Di che arrossiscono? Ecco un pudore sprecato! -

Oreste approvava:

- Il mio sospetto coincide per l'appunto col suo. Mia moglie, da un paio di settimane, è piú nervosa del solito; e non vuol dir poco! Io mi ci arrabbio. La colpa in gran parte ricade su lei; mangia meno d'una formica -.

Il dottore, ripreso il polso di Fasma, strizzava gli occhi, per concentrarsi meglio:

- Normale, normalissimo -.

A un tratto lo sentí agitare violentemente, per alcuni secondi.

- Che pensa in questo momento?

- Nulla.

- Il polso la tradisce -.

Fasma ritirò vivamente il braccio. - Le ho fatto paura? Si mise a ridere anche lei.

- Paura? Perché? Non vuole persuadersene? Sono quei brutti presentimenti... Stupidaggine, lo capisco; ma come vincerla?

- Non si affatichi - disse il dottore, ridendo. - Andrà via da sé, fra nove mesi, come l'altra volta -.

 

Per tutta la settimana Fasma non permise che suo marito stesse a lungo assente da casa.

- Gli affari? Possono attendere -.

Oreste non avrebbe voluto farle dispiacere, ma queste ubbie da ragazzina cominciavano a seccarlo. Ella invece voleva vederselo sempre davanti, sentirselo sempre accosto, come se la sventura, della quale ella aveva presentimento, minacciasse proprio suo marito. Non glielo diceva; non osava neppure fermarvisi con la riflessione; ma appunto per questo non lo voleva troppo lontano.

Fortunatamente il tempo era diventato cattivo, e lo stare in casa non dispiaceva con quelle pioggie dirotte. Negli intervalli di sosta, una fitta nebbia scendeva dai colli attorno e annegava ogni cosa in un'onda biancastra.

- Con questa nebbia par di essere proprio segregati dal mondo, lontani, fra cielo e terra, quasi in un pallone che corra per lo spazio... Non ti fa questo effetto?

- Che cosa?

- Oh! Non mi dai retta... A che pensi? -

Fasma stava per mettersi in collera; gli occhi le si erano subitamente riempiti di lagrime.

- Sensitiva! - le disse Oreste, dandole un colpettino su la guancia.

- A che pensavi or ora? - insistette Fasma.

- Chi lo sa? Mi ero smarrito, per una delle mie solite intermittenze di pensiero.

- Senti, Oreste!... - ella esclamò.

Ma non poté proseguire; scoppiò in singhiozzi.

 

Oreste non se lo sarebbe mai immaginato.

- Dovea credere ai presentimenti? -

E un rimorso gli pungeva il cuore, quantunque ora la vedesse molto rassicurata, quasi tranquilla. Non credeva che lei fingesse; era ancora troppo ingenua... Basta. Quell'avvertimento gli aveva servito... S'era quasi sentito venir male mentre ella parlava. C'era mancato poco, pochino non le avesse confessato ogni cosa.

- Noi uomini siamo stupidi; mettiamo sbadatamente in pericolo la felicità che possediamo, per rincorrere certi fantasmi che poi risolvonsi in nulla!... -

Oreste si mise a ridere davanti allo specchio, mentre si annodava la cravatta:

- Diventi filosofo?... Bravo! -

Infine, quell'avventura gli era capitata inattesamente tra' piedi; anzi egli, in buona coscienza, aveva cercato di evitarla. Al punto in cui erano le cose, però, non avrebbe fatto, per nessuna ragione, la ridicola figura del casto Giuseppe. Né possedeva un mantello da lasciar nelle mani di quella signora. Ma sarebbe stata la prima e l'ultima volta, parola d'onore. Tanto, non metteva conto confondersi con le donne un uomo serio come lui.

- Ti fai troppo bello - gli disse Fasma che entrava in quel punto.

- È per quell'altra, capisci! -

E Oreste rise.

- Zitto!... Son capace di crederti.

- Vorresti che io mentissi? -

Ella gli prese una mano:

- Oreste!

- Fasma!!!... Come nelle tragedie.

- Ecco, oggi mi canzoni troppo. Dove vai?

- Da lei -.

Fasma voleva ridere, e non poté. Intanto si sforzava di continuare lo scherzo:

- Sarà una bruttona!... Gli uomini? Tutti di cattivo gusto.

- Infatti, ecco qui una bruttona che ho avuto il cattivo gusto di scegliere -.

E mentre Fasma sorrideva di compiacenza, aggiustandogli il nodo della cravatta, egli le andava accarezzando i ricciolini su la fronte.

- Dovresti accompagnarmi dalla mamma, per vedere Lillí.

- Impossibile, cara. Far attendere una signora. Ma ti pare!

- Mi metti una gran voglia di sequestrarti in casa.

- Preferirei condurti con me.

- Da colei?

- Da colei -.

Anche lo scherzo le faceva male. Intanto non voleva avere apparenza di gelosa, dopo la scena dell'altro giorno; avrebbe creduto avvilirsi. E riprendeva:

- È bionda?

- Bruna; so che le bionde non ti piacciono.

- Oreste, bada! Chi scherza si confessa.

- Precisamente -.

Fasma lo guardò, tra incredula e stizzita. Eh, via! Aveva torto; era una grulla... Se fosse stato veramente... Oh, no; sarebbe stato proprio sfacciato. Non lo avrebbe amato piú. Dopo due anni compiuti appena?... Non era possibile. Rimasta sola però, si sedé in un canto del salottino con tale oppressione di cuore che dové farsi forza per non volare a richiamar suo marito.

- È un'assurdità -.

E aperse il pianoforte. Il notturno dello Chopin la fece piangere.

- Che musica! - ella diceva, quantunque lo Chopin in quelle lagrime non ci entrasse per niente.

 

Tre ore dopo, tornando lentamente a casa, Oreste si sentiva nauseato. Non aveva neppure gustato il sapore del frutto proibito... Le grandi dame!!! Ma c'è un punto in cui diventano stupide anche esse e triviali quanto le altre. Ed egli era andava via di casa tutto contento della sua ipocrisia, dicendo fra sé: - Peccato confessato è mezzo perdonato!... Si vergognava come un ragazzo che n'abbia fatto una grossa e non abbia il coraggio di presentarsi alla mamma. Aveva rabbia di sentirsi cosí avvilito dinanzi ai propri occhi. In che modo aveva tollerato che colei accennasse due volte, e ironicamente, a sua moglie? Come aveva potuto ridere?... Vigliacco! Una passione, un delirio di sensi, via, sarebbero state circostanze attenuanti. Ma a freddo? Per curiosità? Voleva schiaffeggiarsi. Il pensiero che sua moglie, un giorno o l'altro, potrebbe apprendere la verità, gli metteva i brividi.

- Povera Fasma! Non se lo merita -.

E gironzolava di qua e di , senza trovare il verso di rientrare in casa.

 

Fasma, riconosciuto il suono dei passi per le scale, gli era andata incontro. Oreste si fermò sulla soglia, per osservarla. Era sorridente, tranquilla, senza sospetti. E quando si sentí abbracciare e baciare con effusione, come da parecchie settimane non era piú stata abbracciatabaciata, ella spalancò i grandi occhi che brillarono.

- Ritorni insomma il mio Oreste di prima? -

E non disse una parola. Quell'abbraccio, quei baci le avevano subitamente scancellato ogni cattivo presentimento del cuore.

- Sai? - le disse Oreste. - Son passato dal Novi; le buccole che ti piacevano tanto non ci son piú -.

Fasma fece una spallata:

- Che m'importa delle buccole?

- Ho preso in cambio quest'altre - soggiunse Oreste, cavando di tasca un involtino.

- Oh!... Bugiardo! -

E fissava ora suo marito, ora lo scatolino aperto, con pupille tremolanti di tanta tenerezza che quegli si sentiva morire dalla mortificazione.

- Sciupone! - disse Fasma. - Da oggi in poi non potrò piú manifestare che una cosa mi piaccia.

Egli intanto cominciava a metterle le buccole alle orecchie con mani tremanti. Poi andarono tutti e due davanti lo specchio; Oreste reggeva il lume; la testina di Fasma illuminata a quella maniera e riflessa dal cristallo, era proprio un incanto.

- Non so spiegarmi - egli pensava - in che modo abbia potuto... -

Trista bestia l'uomo! Fasma intanto gli passava il braccio attorno alla vita: - Come ti voglio bene

- A me o alle buccole? - domandò Oreste, per dissimulare con questo scherzo il proprio turbamento.

- Alle buccole - rispose Fasma, facendo una smorfietta di broncio.

E scoppiò a ridere:

- Quando si dice i presentimenti! Ecco la gran disgrazia che mi pendeva sul capo -.

Indicava le buccole riluccicanti alle orecchie. Oreste scoppiò a ridere anche lui:

- Hai ragione. Quando si dice i presentimenti! -

 

 

 

DALL'EPISTOLARIO DI ORESTE

 

A Fasma

 

Carissima Fasma,

Sono molto seccato. Figurati! Dovrò restar qui probabilmente altri tre giorni.

Il signor Bucci, senza dubbio, è un cliente gentilissimo: i suoi affari però sono cosí imbrogliati che io rinuncierei volentieri a esserne l'avvocato. Da due giorni non respiro altro che polvere di cartacce vecchie e muffite. Il tanfo di questo suo arruffatissimo archivio di famiglia è qualcosa di cosí nauseante, che oggi ho deciso di lavorare su la terrazza, all'aria aperta, al sole, per non buscarmi un malanno. Quando sarò di ritorno, prima di abbracciarti, dovrò prendere per lo meno un paio di bagni. Sono ridotto in uno stato!...

Lavoro dalle otto del mattino alle tre di sera. Alle undici, colazione. Alle quattro, pranzo. Il signor Bucci m'ingozza come un tacchino da ingrassare. Si è fatto prestare il cuoco dal sindaco; questo però non vuol dire che io mangi bene. Ho il palato già guasto. Troppo unto e troppo pepe. Intanto non posso far dispiacere al mio gentilissimo cliente che spende un occhio della testa per trattare, come merita, il suo egregio signor avvocato!... È lui che parla.

Per fortuna, sapendo di farmi cosa grata, mi domanda spesso di te. Non ti conosce neppur di vista, ma sa che sei una bella ed ottima signora. Bella! Capisci? E ti prepara un regalo di formaggi e di salami. Questi suoi salami sono eccellenti; io ne mangio a tutto pasto.

Ma che noia! Alle dieci qui si va a letto, ed io faccio come gli altri. Sono già diventato un dormiglione. L'abitudine del sonno si prende subito; non lo credevo. E dormo placidamente i miei sonni di giusto, sognando il paradiso. Il mio paradiso, s'intende, è quell'angolo di terra dove trovasi certa persona che tu forse conosci, bella ed ottima signora... come dice il signor Bucci. Eh? Sono anche troppo galante in qualità di marito.

La verità è che la lontananza mi fa un effetto stranissimo. Provo tenerezze che non supponevo piú possibili; il mio sentimentalismo si ridesta. Sarei capace di tornar a scriverti una di quelle famose lettere di cinque anni fa, quando eravamo innamorati come due matti e facevamo tante sciocchezzine. No, voglio recitare convenientemente la mia parte; un marito dev'essere serio. Per questo depongo un castissimo bacio sulla gota della mia cara metà (stile coniugale), e con mille baci per Lillí mi sottoscrivo

tuo Oreste.

 

A Giorgio B***

 

Verrai o non verrai? Cioè, verrete o non verrete? Noi staremo qui altri tre giorni soli.

Se vi decideste! Sarebbe una festa per Gilda e per me. Gilda esclama a ogni po': - E Fifina non viene! - È arrabbiata con te; dice che sei tu, orso, che non vuoi condurla perché in fatto di amore tu ami soltanto i duetti. Se è vero, non hai torto.

Come si sta bene qui! Mi par di essere uno studente scappato in campagna con la sua sartina. Non contavo di divertirmi tanto e con cosí poco. Ridiamo dalla mattina alla sera. Ho dimenticato la città, i miei affari, ogni cosa!... Voglio ritemprarmi un pochino. Ne avevo bisogno; mi sentivo diventare cretino. Con mia moglie è andata benissimo. Sono stato un commediante di prim'ordine, sublime a dirittura.

Arriva la tua lettera, cioè quella del signor Bucci da me inventato. Io la sgualcisco, la strizzo, faccio le finte di volerla stracciare.

«Perché? - mi domanda Fasma. - Qualche cattiva notizia?...»

«Una seccaturarispondo io.

E comincio a declamare contro quel povero signor Bucci, gli do dell'imbecille, lo mando al diavolo: «No, non voglio andare da lui; non sarei andato neanco per un milione. Gli avrei scritto, a volta di corriere: "Si provveda di un altro avvocato"».

Allora Fasma cerca di rabbonirmi, di persuadermi, ed io resisto, accampando scuse magre, per lasciarmi vincere facilmente. «Capisco, è un ottimo affare; ma... andarmi a seppellire per una settimana in un paesetto... E poi non vi voglio lasciar sola...» Non ti sembra di udirmi?

«Se non c'è altra ragione!...»

Insomma, una vera commedia. La mattina della partenza però passai un brutto quarto d'ora. Mia moglie volle accompagnarmi alla stazione dove Gilda doveva aspettarmi. Gilda è cosí imprudente!...

Entriamo nella sala. Gilda è la con la cameriera, presso lo sportello dei biglietti. Vedendo che non sono solo, spalanca tanto d'occhi e mi guarda, mi guarda... Io le faccio un accenno, con le labbra; fortunatamente ella capisce. Allora presi coraggio e dissi a Fasma:

- Meno male! Viaggerò in ottima compagnia -.

Quando si dice: - Oh i mariti! - perché non si accorgono di nulla. Oh le mogli! Sono anche peggio. Sai che mi rispose Fasma, sorridendo?

- Bonne chance! -

E il suo augurio non è fallito.

Se tu ci vedessi, Gilda e me! Sembriamo due ragazzi; ruzziamo tutto il santo giorno. Questo diavoletto ha impudenze che mi fanno rabbrividire; ha ingenuità che mi fanno strabiliare. Se volesse, potrebbe farmi perdere il giudizio.

Tu dirai che l'ho già perduto. - No, perché, vedi? rifletto ancora.

Vuoi che te la dica? Tu mi annoi. Ti veggo sempre dinnanzi a me col tuo sorrisino da scettico malizioso, con le osservazioni da uomo che si compiace di mettere gli altri in imbarazzo. Quest'ostinarti a non venire qui con la tua amante, per una partita di piacere in quattro che sarebbe una delizia, questo non venir quassú neppure per un solo giorno - avevi promesso per quattro! - te lo giuro, mi fa rabbia. Mi ha l'aria d'un rimprovero, che so io? d'una di quelle tue feroci canzonature che spesso diventano insopportabili... Insomma, verrai o non verrai?

In questo momento Gilda è fuori, nel prato. È un po' abbrunita dal sole. Ha preso una tinta dorata meravigliosa, che la rende irresistibile con quegli occhioni. È matta per la campagna, e vorrebbe restarvi un'altra settimana. Oh, io vi resterei un mese, sei mesi, un anno intero con lei!... Ma!... Se non ci fossero questi maledettissimi ma, la vita sarebbe una gran bella cosa.

Ecco Gilda che rientra. È carica di fiori selvatici e mi riempe la stanza del delizioso odore delle erbe fresche. Mi dice che vuol mettere un poscritto a questa lettera; le cedo la penna.

Brutto orso!...

Gilda.

 

Ho scancellato due parole. Certe cose si possono dire, ma scriverle non è permesso; è una delle poche ipocrisie che rispetto. Vieni, se hai coraggio, a sentirtele dire sul muso.

Oreste.

 

A Fasma

 

Carissima Fasma,

ritornerò domani. Non ti posso precisare se di mattina o di sera, perché questo dipende dal signor Bucci che ha preso gusto ad avermi qui, e non vorrebbe lasciarmi andare. Io però ne sono stufo; non di lui, pover'uomo! che è buono, affabilissimo, anche troppo; ma della polvere delle sue cartacce e del tanfo del suo archivio... Oh, se sono stufo!

Già te ne avvedrai; porto sul volto i segni delle sofferenze di questi giorni, malgrado i grassi pranzi che il mio cliente mi ha imbanditi. L'uomo non vive di solo pane. Ed io ho bisogno di tutt'altro; dei tuoi baci, delle tue carezze. Sai? Mi sono accorto in questa lontananza che tu mi hai avvezzato male, molto male; e quando uno è avvezzato male!...

A proposito. Ti ricordi di quella bella creatura veduta alla stazione la mattina della mia partenza? Io ti dissi: «Viaggerò in buona compagnia!» E tu rispondesti: «Bonne chance»? - La bella creatura montò nello stesso vagone dove ero io - aspetta un momentino, prima d'ingelosirti - e dietro a lei un signore d'una certa età, piuttosto vecchiotto...

Bonne chance? Invece, per metà del viaggio, ho dovuto reggere il candeliere a quei due amanti che si facevano mille moine in un angolo, senza nessun riguardo per me! E il vecchietto imbecille, di tanto in tanto, mi guardava e sorrideva. Alla prima fermata cambiai vagone. Certi spettacoli indegnano... E vogliono darci a intendere che nelle ferrovie ci siano degli ispettori a posta. Si vede!

.................

tuo Oreste.

 

Roma-Napoli, 1882-1883.

 

 

 



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