Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Racconti
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TOMO I

LE APPASSIONATE

XIV RIBREZZO

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XIV

 

RIBREZZO

 

Sulla soglia dell'uscio rimasto aperto comparve, come un fantasma, la cameriera già in ordine, e con voce turbata annunziò

- Signora, la carrozza -.

La signora Rosati, vestita di tutto punto di nero, si levò con uno scatto dalla poltrona e fece qualche passo; ma dovette fermarsi. Non si reggeva, sentiva scoppiarsi il cuore; e le lagrime ripresero a pioverle abbondanti sul viso pallido, senza neppure un singhiozzo e senza che ella pensasse ad asciugarle.

- Era proprio vero?... Suo marito insomma la credeva colpevole e la scacciava di casa... Oh!... Oh!... -

La sua grande indegnazione di donna onesta e innocente tornò a scuoterla tutta, come poche ore avanti, quando il marito, con dure parole, le aveva buttato in viso la pretesa colpa, ed ella - dopo aver pianto, dopo aver dato spiegazioni e giurato sul capo del loro figliuolo e su tutte le cose piú sacre - tenuta per bugiarda e dileggiata, gli s'era rizzata altieramente in faccia rispondendo: - Sta bene. Ritornerò a casa mia. Non siete degno di avermi -.

Ora si asciugava in fretta in fretta le lagrime, e cercava di ricomporsi, intanto che la cameriera, presa in mano e la piccola borsa di cuoio buttata sul letto e un fagottino da una seggiola, domandava:

- Signora, non c'è altro?

- No - ella rispose.

E uscí la prima, senza voltarsi addietro, traversando con passo fermo e rapido la breve fila delle stanze fino all'uscio che aprí ella stessa; scese le scale quasi di corsa, perché quei gradini le scottavano i piedi; e si sentí arrossire sotto il velo abbassato su la faccia, quando scorse il servitore che già apriva lo sportello della carrozza inchinandosi un po', serio, quasi volesse mostrarle che egli stava dalla parte del padrone.

La carrozza uscí lentamente dall'atrio, poi i cavalli presero il galoppo verso la stazione; e la signora Rosati sentiva uno sbalordimento strano alle scosse del legno sull'acciottolato delle vie. Quelle scosse le si ripercotevano nel cervello, le impedivano di pensare, le recavano una specie di sollievo nell'abbandono di tutta la persona, fra la penombra rotta di tanto in tanto da bagliori, a traverso le palpebre chiuse, ogni colpo di sole che penetrava nel legno. E quando il rumore delle ruote si ammortí sulla polvere della strada fuori la città, ed ella sentí piú viva l'impressione della luce e dell'aria libera, riaperse gli occhi e si mise a guardare gli alberi fuggenti dietro lo sportello; le figure dei pedoni che, appena apparse, sparivano sopraggiunte da altre; e la campagna che correva vertiginosa dattorno, verde e bella; e le montagne in fondo, sfumate sull'orizzonte lontano, che giravano lente; e le vicine casette, bianche in mezzo al verde, che pareva le si precipitassero incontro. Guardava tranquilla, quasi l'immenso dolore le si fosse addormentato per sempre nell'intimo petto, quasi ella partisse di casa al solito, per una visita ai parenti che sarebbero andati a riceverla a braccia aperte alla stazione d'arrivo.

- Con questa corsa parte poca gente - disse Giulia. - Non è la diretta -.

Infatti nella sala di aspetto di prima classe non c'era nessuno.

Dal posto dov'era andata a sedersi, a traverso i vetri dello sporto chiuso, la signora Rosati guardava distrattamente ora le sbarre di ferro della stretta tettoia, ora la frangia di zinco, intramezzata di colonnine di ghisa, che disegnava i suoi trafori sul cielo azzurro; ora, piú in , il fusto d'una pompa col tubo di tela spenzolante; ora piú in qua, i vagoni delle merci segnati di cifre bianche, e che lasciavano appena una striscia di cielo frastagliata tra la loro massa scura e la frangia di zinco della tettoia.

Era stupita di sentirsi cosí calma dopo la gran tempesta di quella mattina. Oh non volea ripensarci, finché era possibile!

E girava gli occhi attorno per le pareti quasi nude della stanza; e rileggeva gli avvisi letti tante volte in altre occasioni di partenza; e tornava a osservare gli affissi degli alberghi, dei stabilimenti di bagni, e quella figura di donna seduta alla macchina da cucire, con la esse iniziale del nome della fabbrica che le si attorcigliava addosso come un serpente.

- Siamo arrivate troppo presto?

- Manca un quarto d'ora alla partenza - rispose Giulia, mostrando i biglietti.

Ripostigli nel borsellino, si sedette discosto, senza dire una parola; e rivolgendo di tratto in tratto lunghe occhiate alla signora, pensava:

- Poverina! È innocente come la Madonna. Nessuno può saperlo meglio di me -.

Appena però il vagone, dov'erano rimaste sole, fu tratto via dalla vaporiera urlante e fischiante, la signora Rosati sentí di nuovo un gran nodo al cuore e scoppiò in pianto. Si vedeva dinanzi agli occhi i parenti già avvisati, com'egli le avea detto; i parenti che questa volta, certamente - che ne sapevano essi della sua innocenza? - non sarebbero accorsi - specie la madrigna - per ricevere alla stazione la indegna, fattasi scacciare di casa dal marito.

- Signora, coraggio!... È un malinteso; sarà presto dissipato. Il padrone verrà a riprenderla egli stesso, pentito, appena si avvedrà che ha avuto torto...

- Non metterò piú piede in quella casa! - ella rispose sdegnosamente, come aveva risposto a colui.

E cessò subito di piangere, stizzita della propria debolezza, raccogliendosi tutta nell'angolo, con la testa rovesciata indietro, quasi tentasse di dormire.

Al rumore monotono e incalzante del treno che correva per l'aperta campagna, tornava intanto a domandarsi:

- È proprio vero? -

Sperava ancora di sognare, quantunque i ricordi che le si affollavano limpidissimi nella mente, le dicessero chiaramente che era sveglia pur troppo.

- Ah, quel momento di debolezza dopo due anni di resistenza! -

E si rivedeva correre a rapidi passi per le vie mezze deserte, proprio come quel giorno, gettando occhiate di paura ai negozi, alle botteghe, ai rari passanti; e provava la stessa sensazione di freddo provata allora lungo la via Torta, stretta e scura, dalle vecchie case silenziose - di cui il sole poteva illuminare soltanto la cima - dalle botteghe che sfondavano le facciate, quasi grandi buchi neri, sotto le finestre socchiuse... E sboccava nella vasta piazza... Ed ecco, di faccia, la casa gialla a tre piani e il portone sormontato dallo stemma della Ricevitoria del Registro... Ella tremava a quella vista e voleva tornare indietro, quasi presaga... E provava, precisamente, la stessa spinta in avanti come allora che era entrata atterrita dalla minaccia di lui - Mi uccido, se non venite!... -

Era andata per questo, unicamente per questo!... Ora si rammentava benissimo dell'ombra nera vista alla sfuggita, di traverso, che si era fermata in pieno sole a osservarla... Non ci aveva badato, risoluta di compiere quel che le pareva, piú che altro, un atto di carità, un pietoso dovere...

Oh, era andata per questo! Se lo ripeteva mentalmente, per rassicurare la sua coscienza, come al destarsi da un sogno, tutte le volte che il treno rallentava la corsa per una prossima fermata; e tornava a ripeterlo, insistente, al riprender della corsa, mentre i ricordi ripigliavano l'aire anch'essi, coi particolari piú minuti.

E sentiva, come allora, il rumore secco dei propri tacchi frettolosi su per quelle scale che ella saliva quasi inseguita dalle voci delle persone incontrate su l'uscio della Ricevitoria - ragionavano di interessi e non l'avevano nemmeno guardata! - e lassú, affacciato alla ringhiera del pianerottolo, spenzolato verso di lei, il capitano in uniforme...

La ragione le s'intorbidava: - Come mai s'era risoluta? Come mai? Protestava, si difendeva dinanzi a se stessa. Non era tornata pura, superba della propria vittoria, in casa di suo marito? Non vi era anzi tornata quasi migliore di quella che n'era uscita? E a poco a poco lasciavasi allettare dalla persuasione di Giulia:

- Il malinteso si sarebbe presto dissipato: suo marito verrebbe a riprenderla, pentito, appena accortosi del torto... - Oh, no! L'ho giurato: non riporrò piú piede in quella casa -.

E sobbalzò, quasi per sfuggire a lui venuto a riprenderla in quel punto.

- C'è ancora la fermata di Frugarolo - disse la cameriera.

- Un'altra sola fermata! -

Avrebbe voluto ricominciar da capo il viaggio, non arrivar mai a casa, e correre a quel modo eternamente, per evitare l'umiliazione della trista accoglienza che l'attendeva:

- Non mi crederanno!... Non mi crederanno neppur loro!... -

E si copriva gli occhi con una mano per non vedere il viso severo del babbo e quello arcigno della madrigna che le si affacciavano dinanzi con la precisione della realtà.

- Non mi crederanno neppur loro! -

Cominciò a tremar tutta al rallentarsi della corsa del treno, e si sentiva quasi mancare al replicato grido: - Alessandria, chi scende -.

 

Le sarebbe parso d'essere ancora ragazza in quella camera e in quel salotto dove, uscita di collegio, aveva passato due anni spensierati e allegri, consapevole della propria bruttezza, che ella per giovanile orgoglio si esagerava un pochino; le sarebbe parso d'essere ancora ragazza, fra i libri, i geniali lavori e la musica prediletta, senza la muta severità del padre e della madrigna che le riusciva piú dura d'ogni rimprovero aperto.

- Non ha risposto neppur oggi! -

Nelle prime settimane, la signora Ersilia non diceva altro, sul punto di mettersi a tavola, quasi avesse voluto avvelenarle i bocconi con quella rigidezza di madrigna. La signora Rosati, che aveva sconsigliato invano l'invio della lettera del babbo, taceva agitata da fremiti interiori. Lo sapeva che non avrebbe risposto... E non le importava che rispondesse. Oramai!

Poi, al principio dell'autunno, ecco il babbo che sul punto di mettersi a tavola - lo faceva di proposito, per avvelenarle i bocconi? - le ripeteva:

- Non manderà il bambino, vedrai. Lo lascerà in collegio anche durante le vacanze -.

Al ricordo del bambino, ella sentiva gonfiarsi gli occhi di lagrime; ma le ricacciava subito indietro. Né moglie, né madre!... Voleva essere cosí, snaturata, se tutti si ostinavano a crederla tale.

Le lagrime che soffocava; il sordo rimpianto della tranquilla felicità di pochi mesi addietro, che la riassaliva piú frequente; la crescente indegnazione dell'immeritato gastigo, da cui si sentiva di giorno in giorno piú offesa, scoppiavano però tutti a una volta, con terribile grido della sua anima in ambascia, quando ella faceva urlare, turbinare, squillare dal pianoforte la Cavalcata delle Walküre del Wagner, che assordava il salotto e scuoteva fino i vetri. Sin dalle prime note, piane, con richiami tristi, prolungati, e che montavano, montavano nel crescendo, come se da ogni punto di un cielo nuvoloso venisse risposto a quegli appelli, ella provava per tutto il corpo lo stesso brivido diaccio salitole su su per la schiena fino alla cima dei capelli, allorché, il marito, entrato da lei pallidissimo, le aveva detto con voce strozzata, bruscamente: «Signora!...» E si era vista perduta. E in quelle note che già s'incalzavano frementi con tumulto irresistibile, ci erano ed il pianto, e le proteste, e i giuramenti di lei: «Enrico, è la verità!... Enrico, sono innocente!...» E tosto che fra quel turbine musicale squillavano le note chiamanti soccorso, lunghe, stridenti, e si disperdevano, grido supremo di lotta, pel folto della foresta e per l'aria, squillava in esse egualmente la desolazione del suo cuore, come lungo quel triste viaggio, come all'arrivo, come nella solitudine dove era a un tratto piombata...

- Senza marito, senza figliuolo, senza che nessuno - neppure i suoi! - le rendesse almeno giustizia! - E rotta, sfinita da questo sforzo, cadeva bocconi sul leggio: - Nessuno?... Nessuno? -

, se n'era già accorta; chi le aveva reso giustizia, chi nel grande eccitamento d'una incredibile passione, - ora gli credeva, , ! - aveva saputo rispettarla... - e avrebbe potuto facilmente abusare della propria forza, delle circostanze, della sconsigliata debolezza di lei - chi non l'aveva offesa era soltanto colui che, ahimè!, si trovava lontano, molto lontano, senza saper nulla dell'accaduto; colui che aveva solennemente promesso di non farsi piú vivo per non recarle dispiacere, perché cosí gli era stato imposto dalla stessa bocca di lei, la prima e l'ultima volta che si erano visti da solo a solo!...

 

Eppure, la mattina, quando Giulia si raggirava per la stanza attigua ravviando, ripulendo - ed ella, ancora a letto, la sentiva smuovere una seggiola, un oggetto, o leggermente tossire - non la maschia e bruna figura del capitano Fasciotti, inconsapevole autore di tanto danno, le si presentava alla memoria nella tenerezza del primo risveglio; bensí quella del marito, alto e biondo; e la voce di lui, come una volta, tornava a dirle: «Giustina, avremo gente a pranzo... Giustina, tornerò tardi... Giustina, questo... Giustina, quello...»

E, dietro l'illusione della voce, veniva la visione della casa signorile che l'avea accolta sette anni, con i mobili storici, gli oggetti d'arte, le cosettine bizzarre che egli andava scovando qua e , piú per vanità d'arricchito che per fine gusto di dilettante. E in quelle stanze tappezzate di arazzi antichi, di quadri, di panoplie di armi barbariche, e ingombre di statuette, di gingilli giapponesi, di idoli chinesi, ecco, il mostro di avorio, panciuto, accoccolato per terra, che rifaceva da un angolo le sue sconce boccacce; ecco, da una parete, la ignota figura di donna, del cinquecento, rigida sul fondo nero del quadro e che la guardava fisso con occhi tranquilli; e, dietro la giardiniera pompadour di Sèvres, tra le ricche foglie della dracena, ecco la snella figura della tuffolina dalle braccia distese in avanti, della maglia da bagno serrata attorno il bel corpo di marmo, a irritarla per l'eterna immobilità dell'incomodo atteggiamento.

E poi, massime da una settimana, non i terribili momenti d'inattesa commozione, piombati improvvisi a turbare il tranquillo andamento della sua vita; bensí le giornate serene, il dolce cullarsi di tutto il corpo nella lieta pace domestica, la bella indifferenza, la graziosa ironia per le false agitazioni del cuore, l'ingenuo egoismo d'indolente felice; bensí la convinzione della propria bruttezza, per cui non aveva mai badato all'efficacia dei lineamenti virili che lo splendore delle pupille, nerissime in mezzo al bianco dei grandi occhi, e la voluttuosa curva delle labbra carnose trasfiguravano addirittura. E tutto questo le si presentava alla mente, al primo destarsi, quantunque ella non volesse, e si sforzasse di scacciarlo via, e cercasse d'abituarsi, d'affezionarsi anche, al profondo silenzio della solitudine dove intendeva oramai fortificarsi e agguerrirsi contro la malignità della sorte... E questo passato, allegro incantesimo subissato in un attimo senza che ella ne avesse colpa, per una lieve imprudenza, non sarebbe tornato piú!... Ed ella doveva soffrirne le conseguenze e piangerne la desolazione, quasi avesse commesso l'imperdonabile delitto di cui veniva accusata!

 

Balzava dal letto, dove le coperte la soffocavano, e apriva la finestra per tuffarsi nell'onda di sole che già invadeva la facciata, e dimenticare ogni cosa sotto la mordente impressione dell'aria, e svagarsi, tra il rumore del movimento della via, osservando gli arrivi e le partenze dei passeggieri dell'albergo di faccia, fantasticando interminabili romanzi.

Come quel giorno che era arrivata, senza bagaglio, - da dove? Da qualche città vicina o da Pisa, o da Genova, o da Milano - quella signora vestita di bianca stoffa grave, col cappellino di paglia nera semplicissimo ed elegante, e la spolverina di seta grezza sul braccio, accompagnata da quel signore dai baffetti grigi che le aveva steso la mano per aiutarla a scendere dalla carrozza e si era fermata davanti il portone dell'albergo a parlarle in un orecchio, sorridendo; e colei gli aveva risposto di , sorridendo, con soli cenni del capo. Chi potevano essere? Due amanti, senza dubbio; altrimenti non si sarebbero parlati all'orecchio con tanta carezzevole intimità... Oh, almeno essi andavano incontro all'avvenire decisi, coscienti!... Poco dopo, avevano aperto la finestra dirimpetto a quella della sua camera; e dietro alle stecche socchiuse della persiana, ella aveva potuto osservarli, non vista. La signora si era tolto il cappellino. Ancora giovane, non molto bella ma simpaticissima ed elegante, dai capelli neri pettinati senza ricercatezza, dalle labbra sottili e irrequiete, teneva stretta una mano di lui nell'affacciarsi a guardare curiosamente la via sottostante e la finestra di fronte, quasi sospettando d'essere spiati. No, non aveano sospettato, perché, a un tratto si erano baciati e aveano richiuso le imposte.

Oh, non li invidiava!... Era mai giunta a comprendere quei pazzi trasporti di passione?... Le ripugnavano anzi, per natura...

La finestra era rimasta chiusa fino alle quattro di sera; poi coloro erano partiti, ma non piú lieti quali all'arrivo. Forse doveano dividersi per molto tempo, forse non rivedersi piú!... Andavano via lentamente, a piedi, tra gl'inchini dei camerieri che li aveano accompagnati fino al portone augurandogli il buon viaggio... E le si erano fissati negli occhi, come se li avesse già conosciuti da un pezzo e avesse ora partecipato al gran dolore di quel distacco...

- Almeno - aveva ripetuto - questi qui corrono incontro al loro destino, decisi, coscienti; sanno di dover soffrire o di meritar di soffrire. Ma io?... E la Cavalcata delle Walküre tornò a urlare, a turbinare, a squillare piú potentemente, quasi piú rabbiosamente degli altri giorni. E alla fremente musica del Wagner tenne dietro, con breve intervallo, il folleggiamento di un pezzo del Freischütz.

Alla divina voce musicale dello stormire delle fronde nella foresta, del mormorio delle acque scorrenti, del ridestarsi dell'aurora salutata dal canto degli uccelli alla pia voce, inebriante come delicato profumo, che le andava accarezzando il cuore calmandovi ogni agitazione e sanandovi momentaneamente ogni piaga, Giustina aveva sentito un improvviso rifiorire della sua lieta giovinezza; e il doloroso passato le era quasi svanito dalla memoria col dileguar di quelle note smorzatesi assottigliandosi, sfumando, simili a nebbia dietro a cui ricompariste la campagna raggiante di sole.

- Signora, è già in tavola - annunziò la cameriera.

Giustina indugiò alquanto, commossa da quella musica preferita per le difficoltà d'esecuzione, per la grande idealità, gustata con fino intendimento d'artista:

- Specialmente ora - lo aveva già notato; - specialmente ora -.

E pensava ai lieti prognostici del maestro, in collegio; pensava all'unico trionfo nella sala del conservatorio di Milano, in una festa di beneficenza, quando agli applausi scoppiati forti e unanimi si era sentita venir male; e aveva dovuto replicare il pezzo, ottenendo maggiore trionfo.

Il suo maestro aveva forse ragione, ripetendole: - Peccato, questo talento perduto! - Aveva forse ragione cercando d'abbagliarla col miraggio d'un avvenire di gloria, di ricchezze, di vita vera; pregandola: - Dia retta a me! - quasi di quella ricchezza e di quella gloria qualcosa avesse dovuto toccare anche a lui. Ma ella, no, non si era sentita attrarre da nessuno di quegli splendori. Pigra, indolente, amava la quiete della famiglia, da modesta borghesina...

Ed ecco!... Ed ecco ora!...

Sul punto di uscir dalla stanza, col gran fiotto d'indignazione che tornava a montarle dal cuore, si ricordò di lui, di suo marito che non poteva soffrire quella musica astrusa, musica da bestie feroci com'egli soleva qualificarla.

- Ah! gli piacevano le canzonette della Belle Hélène, il cancan dell'Orphée aux Enfers... Villano!... Tieni!... -

E con profondo disprezzo di donna offesa anche nel sentimento dell'arte, gli suonò quasi sul muso le prime quattro battute del cancan dell'Orfeo...

- Tieni!... Villano! -

 

Il pranzo fu piú triste del solito. La madrigna, magra, ritta sulla vita, mangiava a bocca stretta, con gli occhi nel piatto, facendo di tanto in tanto, col coltello o con la forchetta, un rumore vibrato, quasi per stizza repressa che le scuotesse le mani. Il padre, dal viso smorto e abbattuto, a testa bassa, biasciava quel po' di pietanza che metteva in bocca, e allontanava presto il piatto con gesto di nausea, facendo segno alla serva che glielo levasse d'innanzi.

Giustina s'era messa a tavola con un po' d'appetito, eccitata; ma da a poco sentí mancarsi anche lei ogni voglia di mangiare, al funebre silenzio che le annunziava certamente qualche disgrazia.

- Babbo!... - disse a un tratto - Il bambino... forse? - E guardava ansiosamente ora lui che aveva levato il capo senza comprendere, ora la madrigna diventata piú rigida e piú severa.

- Che cosa è accaduto insomma?

- Niente.

- Niente - ripeté la signora Ersilia.

In quella stanza da pranzo semplicemente arredata, davanti a quella tavola ovale, coperta da tovaglia bianchissima, su cui le posate d'argento e le bottiglie e i bicchieri di cristallo luccicavano in un canto, nei soli tre posti occupati; con la vecchia serva che aspettava silenziosa, o portava attorno le pietanze, andando e venendo in punta di piedi quasi per paura di far rumore; dopo le poche parole strappate a stento e che non le apprendevano niente, Giustina era rimasta un momentino interdetta:

- Si tratta di me, senza dubbio; di qualche nuova indegnità di mio marito!... E sbucciando una mela, per tenere occupate le mani, cercava d'indovinare:

- È per l'amministrazione della dote?... Per una separazione legale?... -

Smaniava, ma non voleva farsi scorgere; e guardava, simulando indifferenza, i brutti disegni del soffitto, senza curarsi del caffè che le si freddava nella tazza.

 

Il signor Federico s'avviò lentamente verso il salotto, tenendo le mani dietro la schiena, strascicando un po' i piedi. Sua moglie, vicino alla credenza, dava alcuni ordini alla serva e a Giulia sopraggiunta. Giustina, andata dietro al babbo, l'aveva già fermato, supplicandolo:

- Babbo, parla, per carità!... Parla; di che si tratta?

- Giacché tu vuoi saperlo... Leggi, leggi qui! E, spiegato a stento il numero del «Secolo» di Milano cavato di tasca: - Leggi - ripeté il signor Federico; e il gesto quasi teatrale del vecchio avvocato indicava un lungo frego di lapis rosso.

Atterrita, ella divorava con gli occhi il brano di cronaca, tolto da un giornale di Firenze, che riferiva minutamente la storia del duello, coi nomi e con ogni altra indicazione, aggiungendo - dietro il solito: Cherchez la femme - anche i particolari dell'antefatto, compiacendosi della narrazione, drammatizzando le scene, inventandone di sana pianta; quasi il cronista imbecille fosse stato presente; quasi non avesse dovuto riflettere che quelle righe avrebbero colpito mortalmente, se non la donna stimata colpevole e non piú degna di riguardi, la sua famiglia che, per la sventura, meritava qualche rispetto!... Ma che importava a lei del cronista, del duello, del povero capitano ferito?

E altiera della propria innocenza, rossa di vergogna: - Tu non gli credi, - disse - tu non gli credi, è vero?... Torno a giurartelo: Sono innocente! Mentiscono tutti. Fu soltanto un'imprudenza. Credimi almeno tu, tu solo!

- Sciagurata! Vai in casa d'uno scapolo, d'un militare, già sul punto di partire e mutar di guarnigione... e pretendi che la gente non sospetti niente di male? Ah! Minacciava di ammazzarsi? Che te ne faceva a te, se non lo amavi?

- , babbo, hai ragione: che me ne faceva, se non lo amavo?... Ma non lo amavo, te lo giuro per la santa memoria della mamma!... Temetti uno scandalo, fui mal consigliata... Oh, credimi tu, tu solo! Non sono indegna d'esserti figlia! -

Il vecchio scoteva tristamente il capo:

- E quando ti avrò creduto io? -

Ella gli stringeva ancora le mani, bagnandogliele di lagrime, quasi in ginocchio davanti a lui, quando la signora Ersilia intervenne.

- Vuoi farlo morire di crepacuore? -

Sentendosi presa pel braccio e cosí rimproverata dalla matrigna, Giustina si rizzò:

- , , dite bene! - balbettò con ironia disperata, fra i singhiozzi. E andò via lentamente, aspettandosi d'essere richiamata indietro, aspettando che il babbo le gridasse: - Ti credo! - e le stendesse le braccia.

E il babbo l'aveva lasciata andar via senza richiamarla, senza dirle niente! Era una cosa enorme! E all'arrivo, egli l'aveva ascoltata attentamente, e quei suoi: - Quand'è cosí!... Quand'è cosí! - le erano parse parole di perdono!...

Parlava a voce alta in camera, gesticolando, andando su e giú a grandi passi; e il suono della propria voce la eccitava, la indignava di piú.

L'aveva lasciata andar via, senza richiamarla, senza stenderle le braccia. E mentr'ella qui veniva cosí ingiustamente vilipesa, colui agonizzava, laggiú, non meno ingiustamente, colpevole soltanto d'averla amata e rispettata; agonizzava, chi sa?, maledicendola per la palla che gli aveva lacerato il petto e forse intaccato un polmone!... Istintivamente portò le mani al seno; le parve sentire proprio la viva impressione di quel sangue spricciante caldo caldo dalla ferita, e venne meno in mezzo alla camera, cadendo sul tappeto senza rumore.

 

- Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! -

Era rimasta parecchi giorni tutta rimescolata da questa idea, quasi una ruota di mulino le girasse, rumorosamente, senza un istante di tregua, dentro il cervello. Niente aveva potuto distrarla; neppure gli occhi sorridenti d'immensa gratitudine con cui il ferito la guardava dalla sua immobile posizione, essendogli vietato di parlare; neppure le brevi e frequenti strette alla mano, ch'egli voleva continuamente tenere tra le sue per convincersi che la presenza di lei in quella camera sul Viale dei Colli, piú in di porta San Gallo, non fosse un'allucinazione di sensi sconvolti.

- Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! -

E il cuore le si era gonfiato di repugnanza, in quella camera dalla carta di parato pretensiosa e volgare, dalle tende che parevano uscite allora allora da un negozio a buon mercato, dalle seggiole rivestite di cretonne sbiadito, dal canapè di stoffa blu che mostrava negli angoli i dentini bianchi della trama, dalle pareti con le oleografie del Capponi stracciante i patti di Carlo VIII e della battaglia di Gavinana, ove Ferruccio moriva, premendo una mano sul petto, come un tenore da melodramma.

- Lo hanno voluto; devono essere soddisfatti! -

E aveva assaporato, con trista voluttà, l'amaro beveraggio del proprio avvilimento ogni volta che s'era vista squadrare, frugare, quasi oggetto di curiosità, dagli sguardi indiscreti e delusi - non la trovavano punto bella - dei giovani uffiziali che venivano a visitare il ferito.

Poi s'era accasciata, lassamente; e nella monotonia delle lunghe giornate d'infermiera, dopo che gli uffiziali, per riguardi facili a capirsi, diradarono le loro visite, con l'unica distrazione di qualche lettura che spesso non riusciva a interessarla, quel nuovo stato d'abbattimento le era riuscito anche gradevole.

- Come ho potuto resistere?... Come resisto ancora?... Ah, il dolore non uccide! -

In certi momenti però, tutt'a un tratto, la sua povera testa vertiginava, e il libro le cascava di mano. Sprazzi di luce le sfolgoravano interiormente, nel buio della memoria, vicini, lontani, senza legame di sorta. In che maniera persone dimenticate da tanto tempo, paesaggi veduti di sfuggita anni addietro, insignificanti impressioni di passeggiate, di tramonti, di serate di teatro allora avvertite appena; in che maniera parole, mezze frasi, semplici inflessioni di voci sconosciute, che l'avevano colpita non ricordava piú quando, si ridestavano ora vivissime, con senso di ripercussione, e tutto il resto taceva, quasi non fosse mai esistito? Non riusciva a spiegarselo.

- Sto forse male? -

Le dispiaceva soltanto per lui, quantunque il dottore avesse annunziato che da ora in poi non sarebbe piú venuto due volte il giorno; non occorreva...

- Con un'infermiera come la signora -.

Il capitano sorrise.

- Fuori di pericolo, finalmente! - disse Giustina, appena rimasero soli.

- Che m'importerebbe di morire, dopo che vi ho vista qui? - rispose il capitano con voce fioca. - Se sapeste...

- Zitto, non vi affaticate.

- Parlate almeno voi... Non dite mai niente.

- V'affaticherei lo stesso. Avremo tanto tempo fra poco! -

Ella arrossí della pietosa bugia che le aveva scottato le labbra. Che poteva mai dirgli? Con tutta la grande pietà verso quell'uomo che si era dibattuto fin allora tra la vita e la morte a cagion di lei, quantunque senza sua colpa, ella si sentiva tuttavia estranea colà, e trascinatavi per forza.

- Ed è passato un mese e mezzo! -

Abbastanza tranquilla da poter riflettere, da poter osservare se stessa, da alcuni giorni, a intervalli, l'assoluta mutezza del suo cuore - cosí ostinata anche dopo che la sua ragione non aveva saputo resistere all'urto degli avvenimenti - l'assoluta mutezza del suo cuore la rendeva sgomenta.

- E se durerà sempre cosí? -

Le minute cure d'infermiera però sopraggiungevano sempre in tempo per riscuoterla e distrarla. Allora, seduta presso la finestra, a ogni svoltar di pagina del libro che teneva in mano, ella volgeva lo sguardo verso le colline dove le ville, biancheggianti tra il verde cupo degli alberi, parevano arrampicarsi qua e , come agnelle disperse. E alla vista di quel cielo di limpida profondità azzurrina, e senza nuvole, che serviva di fondo agli svelti campanili e alle brune case di Fiesole; alla vista di quel mare di verzura steso dattorno, a perdita d'occhio, e che quasi gettava le sue ultime ondate sotto, a pochi passi, con gli alberi che proiettavano l'ombra sul viale polveroso, un'impressione di refrigerio al cuore la faceva sorridere d'ammirazione per quel gentile accordo di tinte.

- Bello, eh? - egli le disse, vedendola guardare cosí intenta. - Andremo assieme lassú, la prima volta che mi sarà permesso uscir di casa.

- Affrettatevi - rispose Giustina.

- Siete voi che mi guarite, coi vostri occhi. Fate piú presto -.

Quel viso di sofferente, su cui la barba lasciata crescere rendeva piú visibili il dimagrimento e il pallore, si rianimò luminoso. E stettero tutti e due un pezzettino a guardarsi senza dir altro; egli quasi ancora incredulo di quella non mai sperata o sognata fortuna d'amante, ella commossa da carità d'infermiera, che le soavi impressioni di quel momento rendevano piú viva.

Poi quando all'orizzonte il cielo si tinse d'un rosso tendente al violetto, e i campanili, le cupole, le mura di Fiesole parvero di fuoco contro gli ultimi raggi del sole al tramonto, e il vasto mare di verdura diventò scuro scuro fra i vapori azzurrognoli che salivano lentamente nella maestà della sera, Giustina sentí una tristezza piú intima, piú straziante delle altre volte, di creatura vigliaccamente abbandonata da tutti; e rimase a lungo con la fronte appoggiata ai cristalli, lasciando sgorgare di nascosto le lagrime che le venivano su, proprio dal cuore.

Il capitano intanto, dal suo letto in fondo alla camera, scoccava bacettini verso quella mezza figura di donna spiccante in nero sui cristalli della finestra, ai rossicci riflessi dei fanali di fuori.

 

Giustina si sentiva assai meno tranquilla ora che il ferito rifioriva, ora che gli era permesso di muoversi, sedersi sul letto, e parlare. Egli l'attirava dolcemente, con tutte e due le mani, verso la sponda:

- È vero?... Siete proprio qui? -

E in quell'accento pieno di carezze si sentiva il primo sfogo della gioia dovuta comprimere e soffocare durante i penosi giorni della convalescenza.

- Vi ho fatto molto male... Perdonatemi. È stato senza volerlo.

- Oh, non parliamo del passato!

- Avete ragione; non parliamo del passato -.

E la fissava con gli occhi raggianti d'affetto umile, rispettoso dinanzi a quella severa ritrosia che era d'imbarazzo per tutti e due. Oh, egli non aveva fretta! L'aveva amata due anni senza nessuna speranza, senza nessuna lusinga, inebriato dal filtro della gioconda serenità che le sorrideva nello sguardo, della gentile espressione di dolcezza e di pace che traspariva dagli irregolari lineamenti di quel volto bruno, ridondante di salute.

- Vi ricordate dove ci siamo incontrati la prima volta?

- No.

- È naturale; mi guardaste appena: nel salotto della signora Pietrasanta. Suonavate qualcosa del Berlioz musica strana, e come non l'ho risentita da nessun altro. Da quel momento non ebbi piú pace. Che cosa amavo maggiormente in voi? Non avrei saputo spiegarlo. Amavo voi, tutta voi... che intanto non potevate neppure soffrirmi! - egli soggiunse sorridendo.

- No; v'ero grata, credetemi...

- Mi sarebbe bastato, se me l'aveste lasciato scorgere da un lieve segno.

- Non volevo incoraggiarvi. Temevo, a ragione...

- Ed ora siete qui!... Siete mia!... Mi pare assurdo... -

Tentò di passarsi le braccia di lei attorno alla vita e cingerla con le sue; ma Giustina si trasse indietro.

- Scusate... Certi ricordi mi fanno ancora male...

- Dimentichiamoli.

- Dimentichiamoli! - ella replicò con un sospiro.

- Lascerete queste brutte stanze, - riprese Fasciotti dopo un momento di silenzio. - Troveremo un nido degno di voi, da vivervi senza soggezioni importune. Io verrò a trovarvi, discretamente... -

Ella lo ascoltava, intenerita di tutti quei bei castelli in aria ch'egli si compiaceva di fabbricare con giovanile prodigalità, rovesciato sul mucchio dei guanciali, tenendola per le mani presso il letto, esitante ancora di chiederle che questa piccola familiarità d'amico si mutasse, per grazia, in un bacio d'amante.

La tenerezza di lei diventava però dispetto e fino rabbia contro se medesima, appena ella si sentiva rattrappire come piú la voce del capitano suonava commossa, come piú l'accento si turbava nella crescente effusione delle confidenze, come scoppiavano in quegli occhi i forti bagliori d'un desiderio rattenuto a stento e che già pareva spazientirsi. E scappava via con qualche pretesto, per abbandonarsi nella sua camera alla desolazione del proprio tormento:

- Sono dunque di ghiaccio?... Come mai non lo amo?... Come mai resto impassibile di fronte a tanta delicatezza di passione che può chiamarsi eroismo?... E durerà sempre cosí?... No! no! - rispondeva spaventata.

Avrebbe voluto fermare il tempo:

- Se la convalescenza di lui fosse piú lenta! -

Ah, diventava anche crudele!

Quella mattina, scorgendolo in piedi in mezzo alla camera, ella trasalí, come davanti a un agguato.

- Entrate, c'è qualcosa che vi aspetta - le disse Fasciotti, additandole il pianoforte verticale aperto tra le due finestre dov'era prima il tavolino.

- Come siete buono!

- Dite egoista - rispose andandole incontro.

- È stato dunque per questo che mi avete costretta a fare una passeggiata?

- Volevo farvi una sorpresa -.

Ella resta sull'uscio, appoggiandosi su l'ombrellino, indecisa. Nella camera, tutta illuminata dai vivi riflessi del sole di giugno che splendeva fuori, qualcosa d'insolito e di sottinteso la metteva in diffidenza. Egli le porse la mano..

- È un Pleyel - disse Giustina avvicinatasi al pianoforte.

- Molto da strapazzo.

- Come la suonatrice.

- Questo dovrà dirlo il pubblico: io. Sono inesorabile, sappiatelo!... Dove siete stata?

- Per la campagna, da questa parte. Lasciai subito la carrozza. Sono tornata a piedi... Che giornata di paradiso!... Ho rubato dei fiori per voi.

- Grazie -.

Ella guardava il pianoforte, tentata. La passeggiata per la campagna l'aveva scossa. Si sentiva per tutto il corpo un senso di freschezza e di leggerezza. Il fremito delle fronde e delle erbe al lieve alitare del vento, riprendeva a vibrarle dentro eccitato; e socchiudeva gli occhi, quasi ancora offesa dalla troppa luce, come poco prima sotto l'ombrellino, all'aria aperta.

- A che pensate? - le domandò Fasciotti, vedendola immobile e silenziosa.

- A niente -.

Non era vero. Ella pensava al bel bambino veduto saltellare, a cavalluccio di un bastone, su la terrazza d'una villetta... Pensava alla bionda signora vestita di stoffa grigia, e che sorrideva di gioia materna dinanzi al bel bambino saltellante... Cosí aveva fatto anche lei, una volta!...

- A niente! - replicò. E per frenarsi, stese una mano su la tastiera del pianoforte, facendovi scorrere su, con scatto nervoso, le dita, quantunque impacciati dal guanto.

Quelle poche note la punsero come colpo di sprone. Si tolse in fretta in fretta il cappellino e i guanti:

- È il ringraziamento; compatitemi - disse.

Appena il pianoforte cominciò a susurrare, a balbettare sotto voce, con suoni che s'interrompevano e si riprendevano, tremolanti, accarezzantisi fra loro, egli si allungò su la poltroncina, rovesciando indietro la testa, socchiudendo gli occhi, cedendo alla deliziosa sensazione che gli si rinnovava nel cuore.

- Berlioz! - mormorò sorridente di riconoscenza.

A un tratto, i bassi insorsero cantando un coro grandioso, che riempiva tutta la camera di mistica sonorità. Ed ella si rizzò su la vita, irrigidendo le braccia, quasi cercasse far ostacolo alle vibrazioni che sopraffacevano, squassandole i nervi, già tesi per lo sforzo di quell'esecuzione a memoria.

Fasciotti si era levato lentamente in piedi, rapito, esaltato dalla voluttuosa frase musicale che in quel momento tintinniva e guizzava rapidissima sul cupo accordo insistente. A un tratto, le si avventò, divorandosela dai baci.

- No! No! - ella balbettava supplichevole, quasi svenuta. E le corde del pianoforte ondulavano ancora fra l'incessante scoppiettio.

Nell'immediato turbamento, aveva pensato fuggire e scrivergli: «Perdonatemi!... Il sagrifizio è superiore alle mie povere forze

- Ma, dopo? - aveva subito riflettuto. - Come ne godrebbero coloro che mi hanno dato la spinta! Prima tradí il marito; ora abbandona l'amante, e non ha aspettato neppur molto! Cosí direbbero, cosí. È orribile! Dunque una persona buona e onesta può diventar cattiva e miserabile anche quand'ella non vuole? E c'è chi grida: «La ragione! La ragione!...» A che giova, a che mai, se non è buona a salvarci dall'improvviso accecamento d'un dispetto, se ci lascia addentare e stritolare da una circostanza che decide, senza rimedio, dell'avvenire d'una vita? -

E trambasciava al ricordo di quei baci, come a rinnovantesi offesa.

- Che posso piú farci?... È inevitabile. In un pazzo impeto, non son venuta a dirgli: «Mi accusano d'essere la vostra amante; e sia, almeno; eccomi qui!» Ah! Si era figurata che bastasse soltanto dir ciò, per diventare amante come tant'altre. Invece, la gentile raffinatezza dell'uomo innamorato che le stava attorno senza chieder nulla, appagandosi di poco, aspettando, paziente... forse perché era sicuro; invece, quella gentile raffinatezza si mutava in martirio per lei.

- Oggi andremo fuori insieme - egli le disse una mattina. - Cercheremo il vostro nido. Mi è stato indicato un bel posto.

- Grazie. Voi pensate a tutto - rispose Giustina, sorridendo tristamente.

- È per vedervi meno seria... Mi sembrate cangiata. Dov'è andata la vostra bella serenità? Dove la tranquilla dolcezza del vostro sguardo?... Non lo negate: siete cangiata. -

Come potrei essere la stessa?

- Non osavo dirvelo; per non importunarvi; ma io vi vorrei come prima. Vi ho amata a quel modo e, , vi voglio a quel modo!

- Scendiamo -.

Il cocchiere, per isbaglio, li menava lungo una strada di campagna, inoltrandosi verso Porta a Pinti senza ch'essi vi badassero. Quell'aria tiepida, smagliante di luce; quel rigoglio di fronde che traboccava fuor dei muri di cinta con lieta foga primaverile; quel cinguettio di uccellini nidificanti tra le siepi o inseguentisi su pei rami, pigolando d'amore; quella gioconda fioritura di erbe e di piante selvatiche che profondeva sui cigli e lungo i lati della strada tesori di ciocche pavonazze, di bocci rossi e bianchi, di calici gialli, violetti, sanguigni, turchini, aperti e tremolanti su gli steli o mezzi nascosti tra le foglie; quella gran pace sorridente all'ombra degli alberi o al sole, su i vigneti, sugli orti umidicci, su i seminati dalle spighe quasi bionde;... oh, quel magnifico spettacolo essi non se l'aspettavano punto! E continuando a tenersi per mano, tacevano, distratti.

- Via Lungo il San Gervasio? - domandò il cocchiere a un contadino. Bisognava tornar indietro. Fasciotti rise del contrattempo e disse:

- Indovinate che pensavo?

- Se fossi stata indovina! - ella rispose.

- Pensavo... No, non voglio dirvelo -.

Giustina tacque. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi un affettuoso rimprovero meritato, e non volle mentire per iscusarsi. Le parve di veder lampeggiare in quegli occhi anche un'improvvisa fierezza d'amante risoluto di trionfare, come trionfava attorno tutta quell'irrompente forza di amor vegetale, ed ebbe paura di provocarla.

- Siete muta oggi - egli le disse, vedendo che lo lasciava parlare senza interromperlo, o gli rispondeva con monosillabi.

- Vi ascolto. Dite tante belle cose! -

Ma il suo accento era triste. E al ritorno, scendendo l'ariosa via tracciata dalla nuova Firenze a piè dei colli fiesolani, sentendolo ragionare allegramente del grazioso nido trovato per lei nella palazzina al numero venti di via Lungo il S. Gervasio, sentiva un grande accoramento:

- Quella carezzante allegria non era forse un'insidia? -

 

Piuttosto avrebbe preferito ch'egli avesse adoprato la forza: - Cosí sarebbe finita! -

E nelle notti insonni, ripassando a una a una le mute sollecitazioni indovinate in un bacio piú caldo o piú lungo, in un'occhiata, in una reticenza, ella s'incoraggiava. Chi sa? Quell'illogica repugnanza del suo corpo si attutirebbe nel possesso; sarebbe forse vinta; chi sa?... Oh, non voleva piú avere l'apparenza d'un'ingrata!

Sentendolo ritornare a casa, dopo una giornata di servizio alla Fortezza, gli uscí incontro sul pianerottolo. E la stessa rassegnata dolcezza che pietosamente le sorrideva negli occhi, le tremava anche nella mano stesa a dargli la buona sera.

- Che ore eterne per me! - egli le diceva in camera, accarezzandole i capelli e dandole dei bacettini su la fronte mentr'ella tentava di sfibbiargli dal fianco il cinto argentato della sciabola.

Le parve piú bello in quel punto, stretto nella divisa, con le spalline e i bottoni che luccicavano, e il maschio volto, dai baffi neri fieramente rilevati, rizzato sul collo chiuso nel goletto bianchissimo; e fece uno sforzo e gli tese le braccia teneramente.

Ma nelle ombre della sera che invadevano la camera silenziosa, al mormorio di quelle affettuose parole che le sfioravano la guancia, calde del fiato di lui, la riluttanza le si ridestava già e piú brusca, piú forte, quasi i nervi e il sangue, ribellati all'impero della volontà, la spingessero a gridare: «No, non dev'essere!...» mentre avrebbe voluto dire il contrario.

Egli lo capí, da quel lieve tremito che l'agitava, da quelle labbra ghiacciate che non rendevano i baci:

- Voi non mi amate ancora! L'ho sospettato.

- No, Emilio, t'amo! T'amo! - ella mentí, disperatamente, ingannando anche se medesima.

E poco dopo, mentre colui la ringraziava sotto voce, grato del possesso vittorioso, ella diceva internamente:

- Almeno m'ha creduto! -

E gli si abbandonava tra le braccia, scossa da un gran convulso di ribrezzo.

 

- Devi annoiarti in questa solitudine.

- Ho pianoforte, musica, libri!... E poi, mi dai tu forse tempo?

- Faccio quel che posso.

- Fai troppo. Non è un divertimento salire cosí spesso fin quassú.

- Non è neppure una marcia.

In quei primi mesi discorrevano talvolta cosí, alla finestra del salottino di via Lungo il San Gervasio, intanto ch'egli fumava, un po' impensierito di quella specie di stanchezza della voce di lei; e Giustina, co' gomiti appuntati sul cuscino del davanzale, continuava a rispondergli guardando ora il bel panorama di Firenze che rizzava laggiú, nella pianura, la cupola di Brunellesco, il campanile di Giotto e la guglia merlata di Palazzo Vecchio torreggiante sui tetti; ora il piazzale Michelangelo che pareva , a due passi, col David che quasi si poteva toccare stendendo il braccio; ora monte Morello e gli appennini di Pracchia, sfumati fra i vapori, lontano.

- Ti annoi; perché negarlo?

- Ti dico di no.

- Tanto meglio -.

Quella volta, verso le sette di sera, presero una strada di campagna, poi svoltarono per una viottola solitaria, serpeggiante su la collina.

- Che bella veduta! - ella disse.

- Bellissima! -

E si sedettero sulla spalletta rustica d'un ponticello, simili a innamorati che abbiano ancora mille cosine da confidarsi. Infatti egli le confidava la sua speranza d'un prossimo avanzamento di grado; s'era già preparato a un esame.

- Quando saremo maggiore, - aggiunse scherzando - avremo piú autorità. Ordineremo: «Cara signora, vogliateci un po' piú di bene.» E la signora - la disciplina soprattutto! - ci vorrà un po' piú di bene. Con un maggiore non si canzona.

Giustina sorrideva: ma in quei grandi occhi tranquilli e su quelle grosse labbra colorite, il sorriso prendeva un'indefinibile espressione di dolorosa tristezza.

Il ragionare, dietro una cosa e l'altra, era cascato intorno all'amore.

- Perché m'ami? - gli domandò improvvisamente Giustina. - Non sono bella, tutt'altro; non sono capricciosa...

- Che ne so io? Sei qualcosa di meglio; lo giudico dagli effetti.

- Non hai detto la stessa cosa a tant'altre? Sinceramente, s'intende.

- Oh! Io credo che si possa aver amato cento volte e non aver mai provato una passione.

- Non lo capisco.

- Lo capisco ben io. Tu m'ami; mi vuoi certamente bene, ma...

- Quando una donna ha già dato all'uomo tutta se stessa... Gli uomini non possono figurarsi, neppure dalla lontana, che cosa significhi: darsi!

- Vi date forse? Vi lasciate prendere.

- Povere donne! E ne menate anche vanto.

- Ma lasciarvi prendere è la vostra forza. Nella guerra di amore, qualunque vittoria risulta sempre al rovescio. Chi capitola detta i patti e le condizioni.

- Come s'indovinerebbe il militare, anche senza la divisa!

- Ecco, per esempio, questo bacio qui...

- Emilio!

-...parrebbe, a prima vista, una violenza. Ma potevo non dartelo? La violenza l'ho sofferta io, da questi occhi, da questa bocca, da questa personcina che s'appoggia trionfante al mio braccio, e quasi mi sgrida... per un bacio!

- Emilio! -

Gli ulivi stormivano attorno, nel gran silenzio della sera.

- Faremo tardi, - ella disse dopo breve pausa.

- Avremo la «celeste paolotta...»

E additava, ridendo, la luna montante, rossa e grande, su le colline scure, nel cielo a pecorelle:

- Pare che salga di fretta dietro le nuvolette biancastre. -

- Di notte, la campagna mi fa paura - rispose Giustina.

- Anche quando l'esercito marcia in armi al tuo fianco? -

In verità ella aveva assai piú paura di quell'allegra eccitazione rivelata dalle parole, dagli slanci improvvisi, dal tono stesso della voce.

Scendevano silenziosi, a passi corti e lesti, per la viottola deserta, mentre i grilli trillavano al lume di luna, e i «chiú» di due assioli si rispondevano, distanti, a intervalli, e il gracidio delle rane dal vicino Mugnone saliva, quasi coro, monotono e solenne. Egli andava accarezzando sul suo braccio la mano di lei. E a quella carezza insistente che le produceva su la pelle delicata un sottile bruciore, Giustina sentiva riempirsi il cuore d'immensa commiserazione di sé. La vita le sarebbe parsa quasi felice, se tutto si fosse limitato a quella dolce intimità piú dello spirito che del corpo. Perché a lui non bastava? E il ricordo della terribile sensazione di ribrezzo che la frequenza, ahimè!, non attutiva e che l'illuso orgoglio dell'amante scambiava per tutt'altro, le faceva correre un brivido freddo per la persona e le inumidiva le palpebre.

- Ecco un fanale; sei contenta? - egli le disse. - Siamo quasi in città... Ma che hai? - soggiunse subito, vedendole inaspettatamente portare agli occhi il fazzoletto.

- Sciocchezza!... Pensavo... a quella bambina di cui ti parlai l'altra volta. Povera creatura!... Mi è venuta in mente tutt'a un tratto, con quel visino magro e palliduccio che sparisce tra i folti capelli castagni... Quando s'affaccia alla finestra dirimpetto, raccolta nello scialletto anche in agosto, e mi guarda, e mi guarda intentamente... mi fa quasi male. E nel pensare a lei... che sciocchezza! Parlava affrettata, come chi vuole ingannare, con un misto di pianto e di riso che le tremolava nella voce; e intanto si asciugava gli occhi.

- Via - disse Fasciotti, senza sospettare niente - quando ne avremo una anche noi...

- No, no! - ella lo interruppe.

 

Aveva dovuto mentire. Il bambino suo, il caro bambino suo le era venuto in mente in quel momento, quasi il venticello che faceva stormire gli ulivi le avesse portato all'improvviso qualche profumo della villa Rosati, situata in mezzo al ristretto parco, presso lo Scrivia, dov'ella passava l'estate col figlio e il marito, lieta della fresca serenità di tutto quel verde e di tutta quell'ombra, tra i gridi allegri e i colpi dei cacciatori risuonanti dalle macchie a piè del colle.

E cosí mentiva tutti i giorni, ora che il rimpianto del passato tornava a riprenderla, ora che la sua ragione non dava piú torto a quegli altri che l'avevano spinta nell'abisso.

Non provava piú contro di essi il cieco sdegno di prima; non ne parlava piú con quell'accento duro e sbalzante, vibrato come guizzo di frusta dalle sue labbra convulse, nei giorni seguiti all'arrivo di Giulia da lei richiamata.

- Tu che sai!... - le aveva ripetuto interrottamente. E il cuore le si era vuotato d'ogni resto di fiele. Era stata ingiusta, al pari degli altri, forse piú; lo riconosceva. Le apparenze non stavano tutte, tutte!, contro di lei? Qual testimone poteva ella invocare per giustificarsi pienamente davanti a suo marito e a suo padre?... E non aveva, con quel colpo di pazzia, dato ragione all'accusa? Si strizzava le mani, si mordeva il labbro, aggirandosi smaniante pel salotto, quando non le riusciva di continuare a leggere perché i caratteri le si confondevano sotto gli occhi turbati e il pensiero andava via via, lontano, quasi a piangere dietro il portone della casa di suo marito, dietro il cancello della villa in mezzo al parco presso lo Scrivia, dietro l'uscio della casa paterna; a piangere e a domandar l'elemosina d'un perdono ch'ella sentiva di meritare e che sapeva, pur troppo!, non le verrebbe mai accordato.

E il pianoforte gridava allora, ripeteva la sua confessione, domandava perdono in nome di lei con le dolenti melodie dello Schumann e dello Chopin, con le divine suonate del Beethoven, con le rubeste sinfonie del Wagner e del Listz, che chiamavano alle finestre dirimpetto e a quelle del primo piano della casa i visi attenti e maravigliati di parecchi inquilini; e tutti gli amati fantasmi della sua vita le sorridevano attorno in quei momenti, la colmavano di carezze e la lasciavano commossa e spossata tosto che si dileguavano lontano, lontano, piú lontano della stessa infanzia, quasi in un'altra esistenza!...

- Ah, il mio bambino!... Ah, il mio caro bambino! - sospirava con le lagrime agli occhi, vedendo quel visino affilato di creaturina malaticcia che ella trovava sempre alla finestra dirimpetto, ogni volta che, terminato di suonare, s'affacciava a cercare con la faccia ardente la fresca impressione dell'aria aperta.

Un giorno la bambina le sorrise.

- Come stai, carina? - ella le domandò.

E la tenerezza di mamma desolata le addolciva la voce. La bambina non rispose, e continuò a sorriderle timida.

- Che fai ?

- Mi diverto a sentirla suonare.

- Vieni qui, col permesso della tua mamma; suonerò a posta per te -.

Non le era parso vero d'aver potuto attirarsela in casa. Fasciotti la trovò agitata, rimescolata, con quella magra creaturina seduta su le ginocchia, stretta tra le braccia, e che aveva negli occhi la meraviglia di tutte quelle carezze inattese.

- Se tu sentissi che vocina! Pare un flauto - ella gli disse.

- Cosí, con lei, non ti annoierai in questa settimana di mia lontananza.

- Vai via?... Per l'esame?

- Questa sera, coll'ultimo treno.

- Signor maggiore, buon viaggio! -

Era anche allegra in quel momento. Ci voleva tanto poco per renderla quasi felice.

Appena però gli lesse in viso il malumore per la presenza della bambina, non ebbe piú coraggio d'accarezzarla, di baciarla, e la mise a terra, con cuore soffocato.

- Vo a casa - disse la bambina.

Giustina non osò trattenerla; e l'accompagnò fino all'uscio, facendosi promettere piú volte che sarebbe tornata

- Verrai tutti i giorni, è vero?

- Se la mamma vorrà.

- Perché non dee volere? -

E riprese a baciarla, indugiando.

 

Un dubbio la tenne su la corda: - Sospettava egli qualcosa? -

Era partito evidentemente malcontento dell'insolita resistenza di lei la sera del commiato. E per calmarlo, per scancellargli la brutta impressione, per cacciargli di mente ogni sospetto, gli aveva scritto parecchie lettere lunghe, affettuosissime.

- Mentiva forse scrivendogli cosí? No. Gli era grata di quella passione che pareva moltiplicasse la sua delicatezza e la sua forza nella crescente intimità della loro vita; e lo amava, sebbene in modo diverso, con grande slancio dell'anima... Che poteva farci se il suo corpo resisteva?... Ah, se ella avesse avuto un po' piú di coraggio! Se avesse potuto essere sincera e dirgli... Come dirglielo? Era impossibile. Gli dovea questo gran sacrifizio, dopo che quegli per poco non le aveva sacrificato anche la vita.

E quand'egli le rispose: «Tu m'ami meglio da lontano. Scherzi a parte, nelle tue lettere mi sembri un'altra. Strana creatura! Una frase, una sola frase di queste trovate ora, come tu dici, in fondo al cuore, pronunziata dalla tua bocca, mi avrebbe fatto salire ai sette cieli. Ed hai taciuto, cattiva!... Mille baci sui ditini che hanno tenuto la penna»; quand'egli le rispose cosí, il foglio le cascò di mano, e il subito lentore dello scoramento la fece anche impallidire.

- È suo marito che le scrive? Tornerà presto? - disse la bambina, raccattando il foglio.

Essa trasalí, ammutolita. I signori Castrucci, andati a farle una visita di ringraziamento per le tante cortesie verso la loro bambina, l'avevano fatta trasalire allo stesso modo, due giorni avanti, domandandole:

- Suo marito sta bene?

- Grazie - ella aveva risposto.

La signora Castrucci, che ciarlava volentieri, si era messa a compatire le povere mogli degli ufficiali:

- Dev'essere una vitaccia!... Ora qua, ora , come gli zingari. Le spalline e la sciabola, , fanno un cert'effetto; ma un cantuccio di terra ben ferma sotto i piedi... Suo marito è capitano?

- Capitano -.

E se la conversazione si fosse prolungata un tantino di piú, i Castrucci l'avrebbero vista tramortire a quel: «Suo marito, suo marito» che le andavano ripetendo con l'idea di farle cosa grata.

Ah, la terribile logica d'un passo falso!... Non era mai giunta a persuadersi come si potesse mentire... ed anche quest'altra volta aveva dovuto, stando zitta, mentire!

, il vero marito ella non se lo sentiva piú solamente dentro la testa, ma nel sangue, nei nervi, in tutto il corpo, incancellabile marchio di possesso fino a quel punto non avvertito! E il ribrezzo, il terribile ribrezzo che ogni volta quasi l'annientava, era appunto la sorda protesta di quel possesso, il rifiorire di quel marchio. Lo comprendeva finalmente, ora che la sua ragione vedeva chiaro, ora che poteva misurare dalla profondità del proprio abisso l'altezza da cui era precipitata in un momento di pazzia.

- Si sente male? - le domandò la bambina.

Ella la prese tra le braccia, coprendola tutta di baci. Ah, quelle gotine magre e palliducce non erano le gote piene e rosee della sua creatura lontana! Voleva però illudersi, voleva stordirsi; voleva, soprattutto, vincere il terrore che già la invadeva all'annunzio del ritorno del maggiore che quella lettera aveva recato.

 

E il martirio stava per ricominciare!

La giornata era grigia, come l'anima sua; l'aria afosa e pesante. Piú tardi, l'umidore della pioggiolina - che gettava un gran velo cinericcio su la pianura, sui colli attorno, su le montagne lontane - la penetrava fino al midollo, le si mutava addosso in tedio spossante, in torpida oppressione. Tuttavia ella ritornava spesso a osservare il tempo dietro i vetri della finestra, e rimaneva con gli occhi fissi, quasi con l'orecchio teso ad ascoltare il lontanissimo fischio della vaporiera che in quel momento doveva forse montare su pei fianchi degli Appennini, divorando la strada, infilando le gallerie, spuntando gioiosamente all'aria aperta sull'orlo degli abissi e attraverso le fosche vallate, com'ella si rammentava d'averlo visto una volta, in un'altra giornata di pioggia, col sole che si affacciava di tanto in tanto dalle nuvole squarciate e faceva sorridere ogni cosa. E il treno correva, correva, serpeggiando, arrampicandosi; le parea proprio di vederlo. E vedeva anche lui, in un angolo di vagone, sdraiato, con gli occhi socchiusi, sorridente alle visioni della prossima felicità che gl'ingannavano l'impazienza dell'interminabile viaggio.

Ma il cuore le rimaneva triste, quantunque il cielo già si rischiarasse al soffio del vento che spazzava le nuvole verso monte Morello e verso Pracchia, gettando incontro al treno che veniva a gran velocità - le pareva ancora di vederlo - quello sprazzo d'oro risplendente su la campagna lavata allora allora dalla pioggia.

-  Signora, c'è l'uomo coi fiori - disse Giulia sull'uscio.

- Sono le cinque? Aveva ordinato quei fiori per le cinque di sera, e la giornata era trascorsa cosí rapidamente ch'ella ne provava stupore.

- Il pranzo è per le sette e mezzo?

- .

Giustina andava disponendo quei fiori un po' da per tutto, con arte gentile, scegliendoli dal gran canestro che Giulia le portava dietro. Giulia, di tratto in tratto, arrischiava qualche parola:

- Il signor capitano... il signor maggiore - ora bisogna dirgli cosí, è vero? - chi sa come sarà contento!... Dovrà fare una bella figura a cavallo; andremo a vederlo a le riviste... -

Giustina non rispondeva, e spargeva sul tappeto gli ultimi fiori rimasti, lasciandoseli cader di mano lentamente, preoccupata. L'odore delle rose, dei ciclamini e dei giacinti tuberosi riempiva il salotto.

- E il martirio stava per ricominciare! -

Ogni minuto che passava era un precipitarsi verso il fatale momento dell'arrivo. Colui tornava piú innamorato, piú illuso di prima. Vi aveva contribuito ella medesima; vi contribuiva ancora, abbigliandosi come per una festa, scancellando dal suo volto ogni traccia di sofferenza, tentando di farsi una maschera per continuare ad illuderlo...

- Poiché questa illusione lo rende felice!... Non sarebbe assai peggio se dovessimo soffrire tutti e due? -

E lo guardava quasi contenta, quasi illusa nei primi momenti, lasciandosi baciare una mano in ringraziamento delle bellissime lettere lette e rilette, e imparate a memoria...

- E tutti questi fiori?

- Non hanno nulla di guerresco - ella rispose. - Decorazione sbagliata. Dimenticavo la marcia! -

Suonate però poche battute della marcia del Tannhäuser, si levò dal pianoforte. La musica la eccitava, e non ne aveva punto bisogno.

- Raccontami, raccontami tutti i particolari dell'esame.

- Chi se ne rammenta piú? E poi... lascia andare!. -

Irrequietamente Giustina si levava da sedere col pretesto d'aggiustare un mazzo di fiori, di moderare la fiamma d'un lume, di spostare senza un perché qualche gingillo; e tornava a sederglisi allato, ripetendo:

- Raccontami, raccontami - con tremito della voce che si comunicava a quella di lui.

- Che vuoi che ti racconti? La cosa piú bella, piú deliziosa del mio viaggio è stato - occorre dirlo? - il ritorno; sono questi momenti, sono questi... Giustina tentava di schermirsi:

- Può venire Giulia lascia andare -.

Tenendola stretta stretta tra le braccia, egli intanto le ripeteva nell'orecchio una frase dell'ultima lettera:

- E hai taciuto!... Cattiva! -

 

Bevevano il caffè. Seduto presso il tavolino, sorridendo, tra un sorso e l'altro, Fasciotti spingeva verso di lei boccatine di fumo, come altrettanti colpi d'incensiere:

- Non sei il mio idolo?

Giustina, in piedi, assaporando lentamente col cucchiaino la calda bevanda e aspirandone il profumo, lo ringraziava con accenni del capo e degli occhi, ridiventata seria in quell'intimità del salotto che l'ora tarda e il paralume rosso, a testa di gufo, rendevano piú raccolta del solito.

Nel punto che Giustina posava la tazza, egli la prese per la mano

- Vieni, siedi qui -.

E le passava un braccio attorno alla vita e le teneva stretti i ginocchi sui suoi ginocchi.

- Voglio sentirti accosto, cosí. Fino a due settimane addietro, nel venire quassú, facevo la strada simile a un sonnambulo, dubitando sempre che e tu e questa palazzina e questo salotto e la nostra vita di amanti non avessero a sfumarmi dinanzi con lo svanire d'un sogno durato apparentemente sette mesi e in realtà qualche minuto. E quando penso che c'è stato un tempo in cui tutto questo non poteva avere per me neppure la fluida apparenza d'un sogno!... Ti vedevo di rado; tu mi evitavi. Se potevo passarti accanto e sentire il suono della tua voce... Ricordi?... Ricordi? Parlava sommesso, come in un soliloquio, tenendo gli occhi socchiusi fissi in un punto della parete dirimpetto, dove quelle visioni del passato gli apparivano e sparivano, dissolvendosi nella rapidità dello sfogo:

- Ricordi?... Ricordi? -

E Giustina gli rispondeva di , di , con lieve movimento della testa abbassata, stringendosi forte le mani perché egli non avvertisse come il cuore le spasimasse all'incosciente crudeltà di quell'effusione che continuava a sfiorarle il collo, verso la nuca, riandando i terrori, i dolori degli ultimi mesi, quando la sicurezza dell'amante felice traballava davanti a un ostacolo impalpabile e invisibile - non se n'era accorta? - che gli pareva si frapponesse a un tratto fra loro e li tenesse divisi, in distanza, a dispetto dei corpi che s'allacciavano, delle labbra che confondevano i respiri...

- Non te ne sei accorta? No? Terrori e dolori d'un secondo; non lasciavano traccia; ma cosí intensi!, cosí intensi!... Se tu avessi parlato prima! In quelle tue lettere, , c'era il suono, c'era l'accento della tua voce. Se tu avessi parlato prima!... Ci voleva la lontananza - non ti pare cosa strana? - per legarci piú intimamente. Oh! Io credo all'amore, sai? La sola sensazione non mi basta. Son rimasto un tantino collegiale, come mi canzonano i miei amici. Peggio per loro, se non sapranno mai quel che valgano questi divini momenti. Mi sembra che noi stiamo ricominciando da capo, quasi io avessi avuto finora soltanto metà di te... Ed ora tutta, tutta, tutta! È vero? -

Ella seguiva a dir di con la testa, macchinalmente, nell'indistinta percezione del suono di quella voce diventata mormorio sommesso di baci parlanti o di parole bacianti, non lo capiva bene; zufolio agli orecchi; rimescolamento di tutta la persona; gran male; dove? Nel cervello o nel cuore, non lo capiva bene egualmente. E non s'opponeva all'improvviso movimento con cui egli sollevatala su le braccia, la portava di , in camera, delicatamente, quasi temesse di svegliare una persona addormentata. Respirava appena, nella estrema prostrazione della volontà e di tutte le forze vitali, sotto l'aggravarsi d'un incubo che le impediva di fare la minima resistenza all'irrequieto agitarsi delle dita che le sfibiavano il vestito, le tiravano le maniche e la spogliavano senza scosse, con perizia femminile... Ma appena, nel levar via il busto, le dita le sfiorarono, per caso, le vive carni del seno, Giustina scattò in piedi, appuntandogli le braccia contro il petto, con gli occhi smarriti:

- Per pietà, no!... Per pietà! -

E, nascondendo il viso tra le mani cadeva di fianco su la sponda del letto, scossa da un tremito violento, in singhiozzi: - Per pietà! -

Ella sentí, per qualche istante, un respiro grosso e frequente, quasi rantolo soffocato; e si restrinse tutta, aspettando il terribile scoppio di quel furore d'amante.

- Non vi accadrà piú, ve lo giuro! - disse una voce irriconoscibile.

E Fasciotti fece per uscire. Giustina gli si gettò a traverso, delirante:

- Emilio!... Emilio!... -

Senza rispondere, egli tentava di svincolarsi da quelle mani che lo brancicavano e lo afferravano e tornavano a brancicarlo.

- Emilio, siate generoso!... Fatemi male quanto volete...Ah! -

Aveva dovuto gridare; quegli le stritolava le mani, senza avvedersene, dalla rabbia di sentirsi ridicolo, sul punto di piangere come un bambino, con gli occhi che vedevano una pioggia di fiammelle attorno, e il cuore che gli scoppiava.

Fu un baleno.

- Perdonatemi... il torto è mio. Entrate in letto... vi ammalerete... Te ne prego, entra in letto - soggiunse con l'apparenza d'un sorriso. Le ravviava le coperte, le aggiustava i guanciali sotto il capo:

- Il torto è mio... Avrei dovuto avvedermene -.

E si buttò su la seggiola a piè del letto, molle d'un sudorino ghiaccio, quasi il rovescione che in quel punto riprendeva a sbattere furiosamente su i vetri della finestra lo avesse inzuppato da capo a piedi.

 

La pioggia continuava, fra gli urli del vento che pareva si raggirasse attorno alla palazzina per sradicarla dalle fondamenta. Che gliene sarebbe importato? Un piú orrendo colpo aveva distrutto in un istante il superbo edificio della sua felicità... e per sempre.

Giustina non osava guardarlo, né rivolgergli la parola, cosí sbalordita dell'accaduto da non accorgersi ch'egli stava , rattrappito su la seggiola, da piú d'un'ora, e non poteva passare la nottata a quel modo. Non se n'accorgea neppure lui.

Finalmente si rizzò, scuotendo il capo, strizzando gli occhi; e visto che Giustina si levava anche lei e si metteva a sedere sul letto tenendogli le mani in atto supplichevole, le disse con voce alquanto calma:

- Vado di , un momentino.

- Perché?

- Ho bisogno d'aria...

- Aprite pure quella finestra... Emilio, siate generoso! - ella ripeté, alla mossa di risposta sfuggitagli suo malgrado.

- Oh, non dubitate!... So il mio dovere -.

Tornato a sedersi, con le braccia sui ginocchi, le mani intrecciate, curvo, abbattuto dall'incredibile disinganno, egli ruminava

- Perché dunque è venuta da me?... «M'accusano d'essere la vostra amante, e sia!...» Chi l'ha forzata? Non lo sapeva forse che non avrebbe potuto amarmi? -

Giustina, tenendo la faccia tra le palme, riprendeva a singhiozzare

- Che ho mai fatto!... Che ho mai fatto! -

La pietà di lui, il terrore delle conseguenze di quella rottura - rottura irrimediabile, non poteva illudersi, con quel carattere - la inchiodavano , raggomitolata, quasi il mondo stesse per crollare ed ella attendesse di minuto in minuto il crollo finale: - Che ho mai fatto! -

La pioggia sbatteva furiosa su i vetri, il vento urlava e fischiava.

 

- Quanto mi ero ingannata! È stato assai piú generoso ch'io non osassi sperare -.

E quei mesi d'autunno le parvero un paradiso, con le tiepide giornate, gli splendidi tramonti, le belle serate che in quel posto, tra la campagna e la città, le producevano una soave sensazione di pace e di benessere in armonia con la pace e il benessere della sua vita, ora ch'egli continuava a visitarla non piú da amante ma da amico, e come se niente di nuovo fosse avvenuto tra loro. Lo avrebbe voluto, è vero, un po' meno serio, un po' meno freddo; si vedeva, forse, in quella sua indifferenza un tantino d'ostentazione, una lieve ombra di vendetta...

- Ma, povero cuore!, deve costargli un gran sacrifizio mantenere le apparenze. Gli son grata infinitamente di questo contegno. Neppure Giulia, ch'è in casa, s'è accorta di nulla -.

Ella si sentiva felice di poterlo amare a quel modo, come avrebbe voluto amarlo anche prima, come avrebbe voluto essere amata anche prima.

- Ma allora, Dio mio, non poteva essere! Mi ero illusa io pure, un istante -.

Ora respirava a pieni polmoni la libertà del proprio corpo in cui tutto era stato scancellato dalla purificazione del gran pianto. Delle atroci sofferenze dei mesi scorsi le rimaneva un'idea lontana, incerta, simile a ricordo di cattivo sogno; e in quanto all'avvenire, oh!, viveva perfettamente rassicurata. Ne aveva avuto parecchie prove.

Una sera, verso le dieci e mezzo, appena i Castrucci erano andati via con la bambina che cascava dal sonno, Fasciotti, acceso un sigaro, s'era messo a leggere il «Fanfulla», senza dire una parola, senza voltarsi un momento verso di lei che lavorava con l'uncinetto nervosamente, a testa bassa, nell'ansia angosciosa d'un'apprensione...

- Assurda, ne conveniva. Ma... che voleva egli insomma? Aveva già letto, da cima a fondo, il giornale; e intanto restava , col sigaro spento tra le labbra, muto, mezzo imbroncito! -

L'orologio a pendolo, dalla mensola del caminetto, suonò le undici e tre quarti. Fasciotti si scosse. Giustina, vistogli posare il giornale, riaccendere il sigaro e lisciarsi i baffi, aspettava, impaziente, ch'egli parlasse. Dopo quella trista nottata, non erano mai rimasti cosí a lungo da solo a solo. Convinti tutti e due dell'inutilità e del pericolo d'una spiegazione qualunque, in quelle prime settimane l'avevano prudentemente evitata...

- Ora, forse?... -

Agitatissima, Giustina stava per lasciarsi scappare una domanda trattenuta a stento su la punta della lingua da un quarto d'ora, quand'egli la prevenne:

- Se volete andare a letto... Io resterò qui un altro poco... per Giulia, capite? Mandate a letto anche lei. Uscirò senza far rumore. È meglio che nessuno sappia... Giulia sopra tutti.

- Come vi piace. Buona notte -.

Giustina, improvvisamente commossa, non aveva saputo rispondere altro, stendendogli la mano.

- Buona notte -.

E Fasciotti gliela strinse leggermente.

Ma un'altra volta egli avea fatto di piú. Andata a letto per non contraddirlo, Giustina non poteva chiuder occhio, aspettando di sentirlo partire. Quell'incredibile prova di delicatezza e di riguardo le produceva una specie di contrazione alla bocca dello stomaco...

- Fino a che ora rimarrà in salotto? -

Alle due era ancora . Ella però non osava muoversi, temendo appunto che in quella circostanza, contro ogni proponimento, una parola non li trascinasse alla dolorosa spiegazione evitata.

Quante ore erano passate? Non lo sapeva precisamente. S'era forse appisolata; non aveva inteso nessun rumore all'uscio di casa né al portone. E trepidante era saltata giú dal letto per accertarsi, con cautela, se c'era lume in salotto. E che respirone a quel silenzio e a quel buio!

La mattina dopo, molto tardi, Giulia le domandava: - Signora, si sente male?

- No, perché?

- Il signor maggiore, prendendo il caffè, mi ha raccomandato d'aspettare che lei avesse sonato.

- Ah!...

Gli occhi, tutt'a a un tratto, le si erano ripieni di lagrime.

 

Dimenticava però ogni cosa per la beata certezza di sapersi amata tuttavia. Le apparenze non potevano ingannarla. E, in ricambio, il suo cuore gli si dava tutto, senza restrizioni, pieno di confidenza nelle promesse che leggevagli in viso vedendolo diventare di giorno in giorno meno riserbato, meno freddo, vedendogli smettere a poco a poco quell'aria diffidente e guardinga contro di lei e di se stesso, che aveva reso cosí penose le prime settimane della crisi; allora pareva che l'amico non potesse punto adattarsi a sostituire l'amante, e che sul capo di tutti e due pendesse la minaccia di crisi peggiore.

La sua vita aveva già ripreso il tranquillo andamento d'una volta. Poco, quasi nulla le mancava per sentirsi nuovamente cullata nella lieta pace domestica, per tornare a rannicchiarsi nell'ingenuo egoismo d'indolente felice. Se lo rimproverava in certi momenti.

Quella bambina malaticcia, ma buona e intelligente, che veniva a tenerle compagnia da mattina a sera e ch'ella conduceva attorno nelle frequenti corse per le gallerie, pei musei, pei negozi e nelle passeggiate alle Cascine, al giardino di Boboli, o lungo il Viale dei Colli, non usurpava lentamente l'affetto materno, a danno della creatura delle sue viscere... alla quale forse avevano fatto credere che la mamma era morta? E le teneva un po' di broncio, per qualche ora, per mezza giornata, broncio di cui la bambina non s'accorgeva.

- Oh, Dio!... Come difendersi da quel naturale sentimento d'egoismo, ora che poteva finalmente riposarsi dopo tanti atroci dolori? Ora che almeno, a intervalli, le riusciva di sopire dentro di sé ogni ricordo del passato? -

Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in piú sorridente vivacità degli occhi, in piú facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassú accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella - dopo il the - cedeva di buona voglia all'invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini:

- Il Dio della musica!... E Dio ce n'è uno solo!

- Les dieux s'en vont - gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un'aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula:

- Tralalalliero, tralalalà! -

finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile.

- Bum! Bum! Bum! Bum! - replicava Gusmano - È musica questa? -

E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora.

Rovistando le carte di musica, il tenente Gusmano avea tirato fuori quella fatale sonata del Berlioz che rimaneva da un pezzo sepolta sotto un mucchio di fascicoli.

- Ah! La signora ci nasconde le sonate. Berlioz... È un tedesco? - domandò Gusmano - No? Dunque questa dev'essere una cosa assai bella. La signora, per gastigo, viene pregata di sonarla -.

Gli occhi di lei s'erano subito rivolti verso Fasciotti, indecisi.

- , Giustina, suonatela - egli disse con un che d'ironia. - Vo' persuadermi se gli effetti di questa sonata non provengano, in gran parte, dallo stato dell'animo di chi la sente. Rischio di perdere qualche illusione.

- Allora, no! - ella rispose.

 

- Dunque non m'ama piú!... Soltanto per pietosa generosità di gentiluomo egli fa il sacrifizio di continuare a venire da me. , ; lo vorrei detto piú chiaramente?... Non m'ama piú! Non mi ama piú!

Sul primo aveva sentito una leggera mortificazione d'amor proprio, lieve puntura di spillo al cuore, graffiatura a fior di pelle; nella nottata però non poté conciliar sonno, irrequieta sotto le coperte, con stupore e sbalordimento che aumentavano di mano in mano:

- Non m'ama piú? -

Le pareva impossibile. Fra le tante supposizioni fatte, il caso che Fasciotti potesse cessare d'amarla non le era mai passato per la mente. Doveva discutere un'assurdità? Lo stimava tale.

- Infine, che deve importartene? - si diceva da sé. - Non è anzi meglio? -

Non ne restava convinta. Si sentiva già venir meno la piú valida forza che le rendeva tollerabile quella vita d'isolamento e di sacrifizio a cui s'era volontariamente condannata. La sua pace, la sua tranquillità, dopo tante lagrime e tanti strazi, stavan per essere nuovamente distrutte?...

- E se m'abbandona col cuore, col piú terribile degli abbandoni, che sarà di me? -

Tortura di nuovo genere. Come rifiatare? Come lagnarsi di lui?... Quella settimana le parve un secolo. Ogni parola, ogni gesto di Fasciotti serviva a rischiararle, a confermarle la crudele certezza della scoperta. L'orgoglioso ritegno non le aveva impedito di mostrarsi piú cordiale del consueto con lui, d'umiliarsegli dinanzi con sfoggio di sottintesi imploranti misericordia.

- Sentite - aveva osato poi dirgli - questa vostra affezione d'amico è l'unico soffio che mi tiene in vita. Se venisse a mancarmi...

- Che fareste?

- Non lo so -.

Fasciotti, guardatala un momentino attentamente, colpito della insolita stranezza di quell'accento, aveva soggiunto

- Non vi è venuta meno finora. Il mio dovere...

- Disgraziatamente il cuore umano non conosce doveri. E poi, non si tratta di doveri.

- Me lo dite voi? -

Giustina non aggiunse parola. Credeva aver detto troppo; avea capito anche troppo. E appena fu sola, pianse.

- Non m'ama piú!... Ma perché non m'ama piú? Perché? A questo grido del cuore che le parve uscisse dalla bocca d'un'altra persona nascosta dentro di sé, rimase come fulminata.

- Come?... Lui mi tradisce cosí? Lui!... E perché non mi ama piú? Perché? -

Un atroce dolore alla nuca e alle tempie la distese per tutta la giornata sul canapè della camera e ve la tenne inchiodata fino a tardi.

Giulia, sentendola lamentare, era entrata piú volte, domandando

- Signora, debbo chiamare il dottore?

- No.

- Che si sente, signora?

- Qualcosa qui... Non è nulla -.

E, all'arrivo di Fasciotti, trovò tanta forza da levarsi, da nascondergli il gran male che le spaccava la testa.

- Dunque andrete a Pisa?

- Per un'ispezione; due, tre giorni.

- Mi scriverete?

- La mia lettera arriverebbe insieme con me.

Ella girava gli occhi attorno, con aria insospettita, cercando, annusando l'aria...

- Questo profumo... L'avete addosso voi?

- Io?

-... Mi va al capo, mi stordisce. , l'avete addosso voi.

- Ah, è vero! - egli rispose, ridendo con qualche impaccio. - Per fortuna non siete nel caso di diventare gelosa.

- Oh, no... per fortuna! - balbettò Giustina, pallidissima.

- Vi fa proprio male?

- , molto!

- Allora vado via; scusatemi.

- A rivederci -.

Si sentiva morire.

 

Due giorni di stupore e di delirio, sotto il tremendo colpo della meningite.

Giulia, atterrita, aveva telegrafato a Pisa:

«La signora è in pericolo di morte

Fasciotti, credendo quel telegramma esagerazione di cameriera affezionata, non s'era affrettato ad accorrere. Non tornava il giorno dopo?

La signora Castrucci, però, capita, dal continuo vaniloquio dell'ammalata, la vera condizione di Giustina, aveva detto a Giulia:

- Bisogna telegrafare anche al marito e alla famiglia di lei. Non vorranno mica lasciarla morire abbandonata cosí -.

Fu telegrafato. Nessuno rispose.

La poverina, con la faccia congestionata, le labbra tumide e pavonazze, sfigurita, aveva appena forza di balbettare delirando:

- Enrico!..., Te lo... giuro! Babbo!... Sono innocente!... Credimi almeno tu... tu solo!... -

La suora di Carità, in piedi presso il capezzale, le passava spessissimo un po' di ghiaccio su le labbra infocate, poi rimaneva immobile, con le mani dentro le larghe maniche dell'abito grigio, mormorando preghiere.

Sollevata una mano gonfia e contratta, Giustina cominciò ad accennare, quasi chiamasse qualcuno che credeva di vedere a piè del letto:

- Enrico!... Enrico!...

- Ah, il torto è tutto di suo marito! - disse Giulia alla suora che a quel nome aveva abbassato gli occhi.

Giustina rantolava, continuando sempre ad accennare a piè del letto con la mano gonfia e contratta:

- Enrico!... Perdonami!... En... rico!...

- Povera signora!... Se avesse saputo che, quando gli uomini non perdonano, c'è sempre Dio che perdona! - disse la suora. E inginocchiatasi, a mani giunte, cominciò a recitare: - De profundis!... -

 

Mineo, 25 marzo 1885.

 

 

 



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