Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Racconti
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TOMO II

LE PAESANE

VI GLI SCAVI DI MASTRO ROCCO

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VI

 

GLI SCAVI DI MASTRO ROCCO

 

Da che s'era fitto in testa che doveva prendere l'incantesimo della Grotta dalle sette porte, mastro Rocco aveva abbandonato la sua bottega di pizzicagnolo; e se ne stava lassú, in cima al Monte, arrostendosi la gran gobba al sole, scavando qua e da mattina a sera, per trovar qualche traccia del tesoro incantato, secondo lui, dai Saraceni in quei dintorni.

In verità, non gli era mai accaduto d'incontrare fra le macchie e le siepi di fichi d'India il Mercante dal berrettino rosso che teneva in custodia il tesoro incantato; ma sapeva benissimo che parecchi l'avevano veduto, da vicino o da lontano; ed erano quasi morti di paura. Egli però si sentiva un coraggio da leone, e non si sarebbe impaurito degli urli e dei versacci di colui, se si fossero incontrati faccia a faccia. Colui doveva fare a quel modo, per non lasciarsi strappar di mano l'oro e le pietre preziose affidate alla sua custodia; ma se in quella circostanza ci si fosse trovato un uomo, un vero fegato d'uomo, il Mercante non avrebbe potuto fargli niente di male, né impedirgli di entrare per le sette porte in fila, fin in fondo alla grotta dove il tesoro aspettava da secoli la fortunata creatura che doveva impadronirsene.

Mastro Rocco ne ragionava quasi lo avesse visto proprio con que' suoi occhietti orlati di rosso e lo avesse palpato con quelle mani callose che ora maneggiavano la zappa giorno e notte, scavando sepolcreti antichi. Di giorno, egli scavava nel suo fondicello che pareva una Gerusalemme distrutta, tutto buche spalancate e mucchi di terra torno torno; di notte, nei fondi dei vicini, al lume di luna o a quello di una lanternina quand'era buio, perché i vicini non volevano rovinato il terreno, e si burlavano delle sue trovature di vasetti inservibili e di monete antiche, con cui non si poteva comprare neppure un soldo di pane.

Mastro Rocco rideva sotto il naso di quei tangheri di contadini che non capivano niente. Lui sapeva, per prova, che quei vasetti - specie se con le figurine - e quelle monete ossidate diventavano subito quattrini sonanti quando li portava al barone Padullo, che si metteva gli occhiali per osservarli e sfogliava certi libroni grossi quanto un messale, tutti pieni di figure, per fare i riscontri. Cosí s'era persuaso che il mestiere di salumaio valeva assai meno di quest'altro di scavatore di cose antiche; e faceva il sornione e alzava la gobba allorché i contadini gli dicevano

- Perché non scavate le fosse per le fave, invece di rompervi le braccia a disotterrare ossa di morti? -

E rideva loro in faccia, canzonando in cuor suo chi gli ripeteva la solita burletta:

- Sapete dove c'è una trovatura, mastro Rocco?

- Dove?

- Nella vostra gobba.

- La trovatura tu l'hai in testa, e te l'ha messa tua moglie! - rispose una volta stizzito.

E quasi venne alle mani con Taccareddu che, cornuto pacifico, non voleva intanto sentirselo dire.

 

Mastro Rocco però non la perdonava a quell'asino calzato e vestito di don Ottavio Giglio, proprietario della Grotta dalle sette porte, il quale non permetteva che nessuno andasse a smuovere un sasso. Don Ottavio credeva anche lui che in quella grotta ci fosse un tesoro incantato dai saraceni e che il Mercante dal berrettino rosso vi facesse la guardia; ma era convinto che per rompere l'incantesimo occorrevano i libri di Rutilio. E se mastro Rocco lo tastava su questo soggetto, dalla lontana, sapendolo orso e ombroso di tutto, gli rispondeva secco secco:

- Minchionerie!

- Ma persone con tanto di barba, - insisteva mastro Rocco - il decano Vita, padre Mariano d'Itria, il dottor Puglisi, mi assicurano che la cosa è possibile.

- Ve la danno a bere. E poi, ci vuole il Rutilio! -

Questo: «E poi ci vuole il Rutiliodon Ottavio lo diceva cosí solennemente che tagliava corto a ogni discorso.

Per due pagine di Rutilio, di quello autentico - correva attorno il falsificato e non valeva uno spicchio d'aglio! - mastro Rocco avrebbe dato tutta la sua pizzicheria e l'asino e le due vacche e chi sa che altro ancora. Ma chi possedeva quel libro se lo teneva caro e non voleva nemmeno farlo sapere, perché correva voce ci fosse la pena della vita e la scomunica della santa chiesa! Mastro Rocco se ne sarebbe infischiato della scomunica, quantunque fosse timorato di Dio e ascoltasse la messa le domeniche e le feste comandate e comunicasse a Pasqua come ogni fedele cristiano.

Impadronitosi del tesoro, sarebbe andato subito a Roma, a confessarsi dal papa, per ottenere l'assoluzione; e sarebbe finita. Ma l'oro e le pietre preziose sarebbero rimaste a lui; e allora avrebbe fatto il signore, lui e i suoi figliuoli; si sarebbe fabbricato un palazzone, avrebbe comprato dei feudi, e non avrebbe piú mangiato pane e cipolla, come gli toccava ora che doveva abbrustolirsi al sole, e bagnarsi alla pioggia, rompendosi la schiena a scavar sepolcreti, spesso non trovando altro che stinchi e crani, o lagrimatori da nulla.

Anche al tempo dei saraceni - e per mastro Rocco voleva dire al principio dei secoli - la società era stata allo stesso modo: molti poveri e pochi ricchi; si vedeva dalle tombe. Allora però fino i miserabili avevano una moneta da farsi mettere in bocca per pagare il pedaggio nell'altro mondo; mentre oggi, con le tasse che si mangiano viva viva la gente, nessuno ha piú un soldo da portar via nella sepoltura; serve a coloro che restano, per comprare un pane da sfamarsi.

Egli faceva queste considerazioni dando colpi di zappa sodi ma cauti, per non rovinare gli oggetti, caso mai sotterra ce ne fossero. E quando gli accadeva di tornare con le mani vuote alla grotta antica e scavata nel vivo masso, della quale, murandovi un uscio, s'era fatto una casa di campagna comoda e sicura, malediva la propria sorte e quel porco di don Ottavio che non gli permetteva di scavare nella Grotta dalle sette porte! Costui lo aveva fin minacciato di tirargli addosso una schioppettata, se l'avesse incontrato, di giorno o di notte, dalle sue parti; ed era capace di farlo.

Invece, quando gli scavi davano buoni risultati, e venivano fuori al sole qualche bel vaso, belle monete d'argento o d'oro che parevano uscite allora allora dal conio, o qualche braccialetto di bronzo, mastro Rocco non capiva nella pelle. Si fregava le mani indolenzite, accarezzava delicatamente quegli oggetti, li ripuliva, li lustrava con la manica della camicia, quasi gli si dovessero guastar fra le dita toccandoli sgarbatamente. E ammirandoli da tutti i lati, interpretava le figure a modo suo, ora che ci aveva un po' di pratica, e calcolava il valore e il prezzo meglio d'un dotto:

- Questa volta il barone Padullo deve snocciolarne parecchi de' suoi scudi colonnati! -

E, nella grotta affumicata, la minestra di farina di cicerca o le fave allesse gli sapevano piú saporite; e il vino se lo sentiva scendere giú giú per la gola, dal fiasco di terra cotta, come balsamo ristoratore...

 

Quelle però erano tutte cosine da nulla; se non gli riusciva di prendere la trovatura del Mercante, aveva fatto un buco nell'acqua. Intanto ci voleva il Rutilio, come diceva non Ottavio. Dove pescarlo?

- Il Rutilio è qui! - venne a dirgli un giorno don Tino il mussolinaio, andato a trovarlo a posta lassú col pretesto di ammazzare un coniglio in quelle fratte, per non dare nell'occhio ai vicini.

E aveva cavato fuori uno scartafaccio squadernato, unto e bisunto.

- Quello vero?

- Quello vero. Guardate: è stravecchio -.

Infatti si vedeva. Caratteracci grossi cosí; cartaccia ingiallita, e figure di pianeti, circoli, triangoli, ghirigori seguiti da sfilate di numeri da far perdere il cervello. Lui, don Tino, aveva stentato due mesi per raccapezzarvi qualcosa: - Perché, capite, bisogna trovare la chiave.

- E l'avete trovata?

- Mi par di si. Proveremo, con la sonnambula di don Micio il crivellatore, che vede fino a trenta metri sotto terra, come io vedo qui voi e quest'alberi e questi sassi e quei fichi d'India... Ma, zitto!

- Venite a prendere un boccone -.

Mastro Rocco lo condusse nella grotta per essere al sicuro da sguardi traditori. E, mangiato e bevuto, tornarono a scartabellare quel libro miracoloso; tanto piú sorpresi e piú ammirati, quanto meno aveano capito della profonda scienza colà nascosta. Presi gli accordi per condurre lassú don Micio il crivellatore e la sua sonnambula, don Tino disse:

- Dev'essere di venerdí, a mezzanotte. Avete paura?

- Di chi? Del Mercante? Mi conoscete male, don Tino! -

E glielo provò la notte di quel venerdí. Notte tempestosa: lampi, tuoni, vento, pioggia, grandine! Pareva si fossero scatenati tutti i diavoli della Làmia e del lago della Vúria dove è il prete che balla con la nipote, portati via dai diavoli ai tempi dei tempi; infatti l'acqua di quel lago, con sotto il gran fornello dell'inferno, bolle e ribolle.

Il vento aveva già smorzata la lanterna; la sonnambula tremava a verga a verga, e non voleva guardare sotterra, come don Micio gli ordinava tenendo le braccia tese e strabuzzando gli occhi che gli luccicavano nel buio a ogni scoppio di saetta.

- Coraggio! coraggio! - ripeteva mastro Rocco.

La voce però gli tremava e le braccia gli vagellavano nel dare, insieme con don Tino, i colpi di zappa nel posto indicato dalla sonnambula, prima che la lanterna si spegnesse, appena don Tino aveva compitato lo scongiuro del Rutilio. E il vento soffiava, urlando tra gli ulivi e le rocce attorno; e la pioggia veniva giú a catinelle; e i lampi incendiavano la vallata e le coste del Monte; pareva il finimondo. Ma dopo tre ore di fatiche e di stenti, avevano dovuto smettere; ed erano tornati alla grotta piú morti che vivi, inzuppati fino al midollo delle ossa, col Rutilio mezzo rovinato; il peggio guaio, perché di quei libri non se ne trova piú, nemmeno a pagarli a peso d'oro.

- Siamo stati tante carogne! - disse mastro Rocco il giorno dopo, mordendosi le mani nell'osservare la gran buca scavata quella notte e già ripiena d'acqua e di fango. - Siamo stati tante carogne... o il vostro Rutilio è falso!

Don Tino cominciò a sacramentare:

- Corpo!... Sangue!... Falso questo Rutilio?... La colpa è nostra; non abbiamo saputo trovare la chiave -.

 

E non la seppero trovare né allora, né poi. Don Ottavio Giglio però, quantunque non avesse testimoni del fatto, sporse querela contro quel gobbaccio che gli aveva rovinato il fondo. E ora stava, giorno e notte, in guardia lassú tra i fichi d'India, per fargli fare una fiammata con lo schioppo a due canne, a quel gobbaccio.

Aveva una gran paura che non gli rubassero davvero l'incantesimo della Grotta dalle sette porte, dopo aver saputo da don Tino che il Rutilio, quello proprio autentico, era nelle loro mani. Forse mancava la chiave. Don Tino gli aveva mostrato il libro con una pagina strappata.

- Giusto quella della chiave, sacro Dio!... Ma può darsi che c'inganniamo -.

Dal canto suo, mastro Rocco stava in guardia contro don Tino, don Micio il crivellatore e la sonnambula. Gli era entrato il sospetto che volessero operare soli, da quella domenica in cui aveva visto don Tino in stretti ragionamenti con don Ottavio, sotto il portone di casa di costui. Don Tino gesticolava, si strappava i capelli, e don Ottavio approvava, serio serio.

- Perché smisero di parlare, appena mi accostai? -

Ma egli non era uomo da lasciarsi canzonare da quei due. Si lasciò canzonare però da Zangàra, Perillo e Passolone, tre burloni che, avuto vento degli scongiuri fatti da mastro Rocco con don Tino, don Micio il crivellatore e la sonnambula, volevano divertirsi.

Mastro Rocco se li vide arrivare lassú una mattina, Zangàra col trombone, Perillo col clarinetto e Passolone col corno di caccia; e assordavano le gole di Rosignolo, dell'Arcura e di Santa Margherita. Tru! Tru! Titiri tru!

- Ehi! Fate la mattinata alle mulacchie?

- Andiamo per una scorpacciata di fave novelle, da un amico qui vicino - rispose Perillo.

- Buon pro!

- E voi, la trovatura quando la prenderete? - gli domandò Zangàra, ridendo.

- La prenderà don Tino, - aggiunse Passolone - ora che possiede il Rutilio -.

Mastro Rocco alzò la gobba, tentennando il capo, mostrando indifferenza:

- La vera trovatura sono i quattrini in tasca -.

Passolone raccontò di aver inteso dallo stesso don Tino che egli l'avrebbe presa certamente l'ultimo venerdí di marzo, a mezzanotte, perché quella notte aveva luogo lassú, presso la Grotta dalle sette porte, la fiera delle fate e degli spiriti che accade ogni dieci anni. Fortunato chi ci si trova! - Non lo sapete che il pecoraio di massaio Ravagna, anni fa, ci capitò in mezzo per caso, e le Fate gli vendettero tre arance per un soldo? Il grullo le diede al padrone, senza sapere che fossero di oro massiccio; cosí è arricchito massaio Ravagna -.

Mastro Rocco lo guardava in viso con tanto di occhi, pensando allo scellerato di don Tino che voleva fargli quel tradimento; e si tenne la notizia in corpo, fingendo di non averne saputo niente, fino all'ultimo venerdí di marzo, che era il venerdí santo. Quel giorno non vedeva l'ora che annottasse; e seduto su di un sasso davanti la grotta, non senza un po' di terrore in corpo, - con gli spiriti non si canzona - guardava quel fioco chiarore di luna tra le nuvole dense, dietro i colli di Daguara, che illuminava la campagna silenziosa; non s'udiva cantare neppure il rosignuolo che soleva cantare ogni notte laggiú, tra i pioppi dell'Arsura. Poi egli era andato ad appostarsi su d'un masso per sentire il rumore dei passi di coloro che dovevano arrivare: don Tino, don Micio e la sonnambula. Non stormiva foglia nell'oscurità, e non si scorgeva ombra umana a quel po' di barlume del cielo nuvoloso. I tronchi degli alberi gli mettevano paura; e i macigni e le macchie già gli parevano strane figure di mostri. Verso la mezzanotte fu buio pesto, appena la luna venne intieramente velata dalle nuvole fosche...

Ed ecco, qua e , tra le macchie, lumicini che vanno e vengono, e si spengono e si riaccendono; ed ecco colpi di cembalo coi sonaglini che si agitano, e tacciono, e si rispondono; ed ecco grandi fiammate che spariscono subito.

- Ah, madonna santissima! È proprio vero questa volta! -

E i lumicini erravano qua e tra le macchie, dietro i fichi d'India, tra i melagranati di massaio Baccannello e il pagliaio di Cudduzzu; e le fiammate scoppiavano dietro i massi, tra gli ulivi, al suono dei sonaglini del cembalo agitati continuamente...

- Ah, madonna santissima! È proprio vero questa volta! - I lumicini si accostavano da tutte le parti, stringendolo in un cerchio, e le fiammate pure: e mastro Rocco si sentí diventare piccino piccino quando scorse, al chiarore d'una fiammata, una figura mostruosa che gli parve di fuoco e spari.

Poi, da destra, da sinistra: - Psi, psi, psi! - Gli spiriti gli accennavano: - Psi, psi, psi! -

- Ah, madonna santissima! Perché tremo? Mi lascerò scappar di mano la fortuna? -

E mosse incontro agli spiriti che continuavano a fargli: - Psi, psi, psi! - Tratteneva il fiato, vacillando, inciampando, senza una goccia di sangue nelle vene, fino a che gli spiriti non gli saltarono addosso, picchiandogli forte sulla gobba.

- Mamma mia!... Santissimo Cristo alla colonna! Santa Agrippina protettrice! - egli urlava, segnandosi per cacciarli via, correndo a rotta di collo verso la grotta, inseguito fino alla porta dagli spiriti, che picchiavano sulla sua gobba, facendo scrosciare catene infernali!...

 

E non ritentò piú, quantunque don Tino e don Micio il crivellatore lo stuzzicassero; neppure quando si convinse che la burletta degli spiriti gli era stata fatta da Zangàra, Perillo e Passolone. A chi gliene parlava, giurava che non era vero; giurava che quella nottata egli si trovava a Palagonia per la festa del Santo Sepolcro; e rigiurava con le mani in croce, per non far ridere alle proprie spalle. Intanto si divorava il fegato, e scavava, scavava, dopo trovate certe belle figurine che il barone Padullo gli aveva pagato dieci scudi. Chi sa quanto valevano, se colui si era spinto fino a pagarle dieci scudi!

Allora il barone lo vide arrivare piú spesso, insieme con un vecchietto che mastro Rocco diceva compagno di scavi. Visto però che essi portavano sempre figurine simili alle prime, tutte sporche di terra, un giorno il barone disse a mastro Rocco:

- Trovate qualcosa altro, o risparmiatevi di venire. Di queste, guardate, ne ho già pieno un armadio -.

E gli additava le statuette - Cerere seduta e con le mani sui ginocchi - schierate in fila dietro i vetri dell'armadio, tra vasi greci, lucerne, bronzi e monete antiche d'ogni grandezza...

Mastro Rocco stette un bel pezzo senza farsi vedere. Quando gli si ripresentò, insieme col solito vecchietto, posata delicatamente per terra la cesta coperta di fieno portata sotto il braccio, cominciò a gesticolare, annunziando a quel modo i meravigliosi oggetti riposti nella cesta e coperti di fieno:

- Signor barone, gran novità! Voscenza resterà incantato! -

Il barone si era messo gli occhiali per ammirare meglio; e vedendo quelle quattro figurine di Cerere simili in tutto alle altre ma con tanto di pipa in bocca, invece di restare incantato cominciò a urlare:

- Ah, mastro Rocco ladro! Ah, mastro ladro! -

E avrebbe, con una pistolettata, sfracellato il cranio a quei due, se non fossero saltati dalla finestra a pian terreno, senza neppur badare che potevano rompersi il collo.

Mastro Rocco si ruppe soltanto un braccio; e fece dire una messa al suo santo protettore che lo aveva aiutato in quella circostanza. E col braccio legato al collo, imprecava al tristo compagno da cui gli era stata suggerita la bella novità della pipa!

- Non bastava aver fatto cosí bene la forma dell'idoletto che aveva ingannato il barone Padullo? -

D'allora in poi, mastro Rocco si contentò soltanto di scavare e scavare. E se don Tino e don Micio gli riparlavano del Rutilio, rispondeva:

- Non me ne parlate. È falso! -

Pure non disperava di poter avere in mano, un giorno o l'altro, l'autentico, quello del Cinquecento, come gli aveva detto il decano Vita.

L'anno dopo, mentre padre Mariano d'Itria, confortandolo in punto di morte, gli raccomandava di chiedere a Dio la grazia dell'anima:

- La vera grazia sarebbe stata un buon Rutilio! - esclamò mastro Rocco con voce mezza spenta.

E gli voltò la gobba.

 

 

 



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