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IX
Fra l'impiegato telegrafico di Pietranera e quello di Golastretta c'era rivalità antica e non solamente di mestiere. Dicono che fosse cominciata sui banchi d'un istituto tecnico, dove il futuro telegrafista di Pietranera si guadagnava tutti gli anni una bella medaglia d'argento, invano contrastatagli dal futuro telegrafista del vicino paese; ma non è ben certo.
È certo però che Pippo Corradi non poteva fare la minima cosa, senza che subito Nino d'Arco non si mettesse a farla anche lui. Cosí, appena Corradi ebbe il ghiribizzo di diventare un prestigiatore dilettante, ecco l'altro in cerca di barattoli d'ogni sorta per divertire egualmente le brigate coi miracoli della magia bianca. Riusciva male, faceva ridere la gente per la poca destrezza, ma questo non gl'impediva di buttar via nuovi quattrini in iscatole a doppio fondo, pistole da mandare fuori carte da giuoco invece di palle, palle meravigliose da moltiplicarsi e ingrossarsi fra le mani. Voleva, a ogni costo, far rimanere a bocca aperta i suoi amici golastrettesi, che gli magnificavano i portenti visti operare dal Corradi a Pietranera e mettevano lui in canzonella.
Poi, quando Pippo Corradi, molto incostante nei gusti, tradí la magia bianca per darsi alla musica e allo studio del clarinetto, Nino d'Arco mise da parte tutt'a a un tratto i barattoli magici, che l'avevano già seccato non poco, prese lezioni di musica dall'organista della parrocchia, comprò un clarinetto d'ebano, nuovo fiammante, e un giorno, a cavallo dell'asina, andò a visitare il Corradi con la scusa di consultarlo su la scelta, ma con la intenzione di umiliarlo. E fu l'unica volta che riuscí. Lo trovò che soffiava nel becco d'un clarinettaccio di bosso, avuto per poche lire da un vecchio suonatore della banda musicale, il quale non sapeva che farsene; e gonfiò dalla soddisfazione, al vedergli luccicare nelle pupille l'ammirazione e la invidia, quando, aperto l'astuccio di pelle, poté mettergli sotto gli occhi i pezzi del clarinetto nuovo con chiavi di rame bianco che luccicavano quasi fossero state d'argento, piú che non luccicasse la vernice fresca del legno.
Nino lo montò di propria mano, delicatamente, e imboccatolo, pensò di sbalordire Pippo con una scala semitonata; ma cacciò una stecca. Allora Corradi poté prendersi una bella rivincita; e, non contento d'aver fatto col clarinettaccio scale in tutti i toni, maggiori, minori, diatoniche, cromatiche, di punto in bianco, senza avvertir Nino che gli guardava le dita armeggianti sui buchi e su le chiavi, intonò il suo pezzo forte, La donna è mobile del Rigoletto, strillandola divinamente, finché non sentí il bisogno di riprender fiato. Aveva gli occhi quasi schizzati di fuori, il viso pavonazzo; ma non voleva dire! Gongolava, vedendo l'aspetto mortificato di Nino, che, smontato il suo strumento, lo riponeva nell'astuccio, confessando cosí la sconfitta.
Nino era tornato a Golastretta, sfogandosi contro l'asina che non voleva andare di trotto, quasi La donna è mobile gliel'avesse insegnata essa al Corradi; tant'è vero che la passione rende ingiusto l'uomo! Ed era corso dal maestro, per apprendere La donna è mobile anche lui, per poi andare a suonarla al cospetto dell'odiato rivale. Il quale però aveva un altro gran vantaggio, oltre al saper suonare il Rigoletto; era già uffiziale di posta! Su questo punto tornava inutile tentar d'eguagliarlo, quantunque Nino sognasse pure uno stanzone di ufficio come quello di Pietranera, dove il Corradi, tra la vendita d'un francobollo e l'altro, tra la raccomandazione d'una lettera e una sgridata al postino, poteva divertirsi soffiando a tutto spiano dentro il proprio clarinetto. Invece egli doveva scapparsene fuori di casa, se voleva studiare e stare in pace coi suoi! Colui, nell'ufficio postale, non disturbava nessuno.
Non sapeva però Nino che tormento mai fosse pei vicini quel diabolico clarinetto, strillato da mattina a sera, con la solita cocciutaggine del Corradi in ogni cosa che intraprendeva! Il bottegaio di faccia, poverino, sacrava tutto il santo giorno peggio d'un turco; gli pareva di non avere piú la testa al posto appena Pippo prendeva a ripassarsi il maledetto La donna è mobile, cioè sette, otto volte la giornata! Sbagliava il peso, sbagliava nel rendere i quattrini - sbagliava piú spesso in favor suo che in favore dei compratori - e se per caso vedeva il Corradi alla finestra, alzava le mani in atto di preghiera, fingendo di scherzare: - Vuol farmi morire d'accidente, Signore Iddio! -
Tutto questo Nino d'Arco lo ignorava; e un mese dopo, sellata l'asina, con l'astuccio dello strumento nella bisaccia, s'avviò di buon mattino per Pietranera. Aveva il suo bel La donna è mobile stavo per dire, in tasca, meglio assai di Corradi, ed era sicuro del fatto proprio. Portava seco anche una sorpresa pel rivale, un magnifico Mira Norma da far passare a quell'altro ogni voglia di superarlo.
Quando egli entrò nell'ufficio, Pippo, occupato a fare i conti mensuali, non solamente non s'accorse neppure che Nino aveva con sé il famoso astuccio del clarinetto, ma non gli parlò né di musica, né di nulla.
- E il clarinetto come va? - domandò Nino; sornione. L'altro fece una spallucciata e continuò le addizioni.
Era accaduto che, una di quelle giornate, al terzo o quarto La donna è mobile, il misero bottegaio era davvero cascato morto d'accidente come egli aveva detto, quasi n'avesse avuto il presentimento. E Pippo, impressionato del triste caso, non era piú stato buono d'accostare alle labbra il becco dello strumento, pel rimorso di aver ammazzato proprio lui quel povero diavolo, a furia di La donna è mobile! Non voleva piú sentir parlare né di musica, né di clarinetto.
Nino si morse le labbra, e dové tornarsene via senza nemmeno aver aperto l'astuccio, non che sfoggiata la sua abilità col Mira Norma su cui contava tanto. E di nuovo la pagò l'asina! Infine, con qualcuno bisognava sfogarsi.
Se ci fosse ancora bisogno d'un esempio per provare che soltanto la gara sviluppa le umane facoltà, questo di Nino d'Arco con Pippo Corradi basterebbe. Infatti, visto che il Corradi aveva già rinunciato al clarinetto, e alle sue dolcezze, il rivale non sentí piú il gusto di continuare a sciupare il fiato con quello strumento, quantunque d'ebano e con chiavi di rame bianco. Per essere fedele istoriografo, debbo però aggiungere che, un momentino, lo tentò l'idea d'afferrare anche lui la gloria di far morire qualcuno d'accidente; ma, sia che i golastrettesi fossero di timpani piú duri degli abitanti di Pietranera, sia che a lui mancasse la forza necessaria e la costanza, è certo che Nino d'Arco non fece col suo clarinetto nessuna vittima umana. E il non avere un morto sulla coscienza lo tenne avvilito per qualche tempo.
Cosí aveva egli preludiato a piú alte e difficili lotte contro l'antico condiscepolo.
E fu un gran bel giorno per Nino quello in cui poté istallarsi da ufficiale telegrafico di Golastretta, dopo che Pippo Corradi aveva accumulati nelle mani gli uffici della posta e del telegrafo di Pietranera. Golastretta stava tra l'ufficio centrale della provincia e l'ufficio del rivale, e perciò toccava a lui, Nino d'Arco, segnalare all'inviso collega l'ora del tempo medio con cui doveva regolare l'orologio; supremazia che il Corradi non gli avrebbe potuto mai togliere. Fu però una gioia di corta durata.
Avendo ben poco da fare, terminato di leggere la «Gazzetta di Catania», o qualche dispensa di romanzo da dieci centesimi, egli soleva schiacciare nell'ufficio un sonnellino dolce. Una mattina, che è che non è, la macchina si mette a fare tic-tac, tic-tac, e non la finiva piú. Era l'amico ciliegia di Pietranera, che spediva dispacci dietro dispacci, e gli impediva d'appisolarsi.
Teso l'orecchio, capí subito di che si trattava. Quel paesetto, la notte avanti, s'era messo a ballare come persona morsicata dalla tarantola, per via di certe scosse di terremoto che si ripetevano d'ora in ora. Il sindaco telegrafava al sottoprefetto, al prefetto, all'ufficio provinciale di meteorologia, in nome della popolazione spaventata... E il Corradi telegrafava pure per conto proprio, segnalando le scosse appena avvenivano, indicandone la durata e la natura del movimento, per farsene bello presso i superiori, diceva da sé Nino d'Arco, stizzito che Golastretta non avesse anche essa una mezza dozzina di terremoti.
Com'era parziale la natura! A una ventina di chilometri appena, rendeva un gran servizio al Corradi con otto, dieci, venti scosse di terremoto tra giorno e notte, da una settimana; e a lui, neppur l'ombra d'una scosserella qualunque! Non se ne dava pace e stava a orecchiare.
Un giorno, ecco, passa l'annuncio d'una commissione scientifica, che si recava a Pietranera per studiare quegli insistenti fenomeni sismici. Parecchi giorni dopo, ecco un altro dispaccio, colto a orecchio, con cui il telegrafista di Pietranera veniva nominato direttore della stazione meteorologico-sismica, che la commissione aveva creduto opportuno di stabilire colassú. Da lí a un mese, ecco altri dispacci, colti a orecchio anch'essi, annunzianti il prossimo arrivo d'un gran numero di strumenti scientifici.
Nino d'Arco non resse piú, e volle andar a vedere coi propri occhi che diamine fosse quell'osservatorio meteorologico-sismico che gl'impediva di vivere tranquillo.
Non rinveniva dallo stupore, osservando tutte quelle macchine già messe a posto, di cui Pippo Corradi gli snocciolava con gran facilità i nomi strani, spiegandogli il modo di funzionare d'ognuna: pluviometro, anemometro, barometri, termometri a massima e minima, provini; e poi tromometro e diavolerie d'ogni sorta per le scosse sismiche piú leggiere, da segnarne la natura, da notarne l'ora col mezzo di orologi tenuti fermi, che si mettevano subito in movimento, appena avvenuta la scossa... Nino non ci capiva niente, ma faceva le viste di capire; e, all'ultimo, stette un bel pezzo a osservare, dietro una lente d'ingrandimento. il pendolo destinato a dare la grafia dei movimenti sismici, segnandola con la punta aguzza sul sottoposto cristallo affumicato... Il pendolo s'agitava in quel momento, andando ora da destra a sinistra, ora avanti e indietro; e il movimento era cosí impercettibile, che a occhio nudo non si scorgeva... A un tratto, drin! drin! i campanelli suonano, il pendolo guizza...
- Scossa!
E Pippo, trionfante, afferra il tasto per telegrafare.
- Io non ho sentito nulla! - disse Nino d'Arco, bianco in viso dalla paura.
E si affrettò a andar via. Ma era proprio schiacciato da tutte quelle macchine e dall'aria soddisfatta del collega. Questi già si firmava: direttore dell'osservatorio meteorologico-sismico di Pietranera, e pareva - rifletteva Nino - un pezzo grosso fin a lui, che pur sapeva bene chi fosse: telegrafista suo pari! Lungo la strada, lasciando di scontarsela con l'asina, rimuginava le centinaia di lire che quelle macchine costavano. Il pendolo sismografico però valeva soltanto diciotto lire. Egli avrebbe voluto almeno un pendolo!... Per farne poi che cosa? Non lo sapeva neppure lui. Ma quel pendolo gli frullò per tutta la settimana nel cervello: girava, andava avanti e indietro, da destra a sinistra, grattando leggermente con la punta aguzza lo strato di fumo del cristallo sottoposto. Pareva a Nino di star sempre a guardare dietro la lente d'ingrandimento, come aveva fatto a Pietranera.
Aveva dovuto umiliarsi dinanzi all'aborrito collega per avere indicazioni, schiarimenti, istruzioni; ma, infine, il pendolo sismografico era là, al suo posto, presso la finestra dell'ufficio! Gli costava quasi metà dello stipendio d'un mese. All'occasione, ora poteva telegrafare bei terremoti anche lui.
Chè! L'infame pendolo, quasi per fargli un dispetto, restava immobile, fin se guardato con la lente d'ingrandimento. Nino, che passava intere giornate, sciupandosi gli occhi dietro quella lente, ansioso d'osservare il primo movimento, per segnalarlo, e cosí cominciare la sua concorrenza all'osservatorio di Pietranera, fremeva di rabbia; specie nei giorni che il fortunato rivale sembrava si burlasse di lui col tic-tac-tic-tac dei dispacci, annunzianti all'ufficio provinciale di meteorologia qualche scossettina segnalata dagli strumenti sismici in Pietranera. Per un terremoto, per un terremoto coi fiocchi, Nino avrebbe dato chi sa che cosa: fin l'anima! I terremoti intanto ei li sognava, sí, svegliandosi spesso esterrefatto nella notte, incerto se fosse stato sogno, o se la scossa fosse avvenuta davvero; ma il pendolo, duro, immobile! Ah! Il maledetto strumento la intendeva cosí? Ah! i terremoti non si facevano vivi? E li inventò. Infine, chi poteva smentirlo? Cosí quel povero comune, che se ne stava da secoli tranquillamente aggrappato alle coste del monte, si mise a ballare anch'esso, sui bollettini dell'ufficio meteorologico di Roma, una danza indiavolata di scosse, scossettine e scosserelle; non c'era piú verso di farlo star fermo. E siccome Nino, per vanità, mostrava agli amici quel foglio dove il suo nome era stampato accanto ai nomi di parecchi famosi scienziati, cosí la voce si sparse pel paese che il monte si moveva, impercettibilmente, e minacciava rovina.
- È poi vero? - andavano a domandar i piú paurosi.
- Se è vero! - rispondeva Nino, con aria solenne.
E additava il pendolo; ma non permetteva che v'accostasse l'occhio nessuno.
A farlo a posta, in quel tempo l'osservatorio di Pietranera non segnalava niente, dopo che Golastretta aveva preso a scapricciarsi con quel frequente tremolio; e Pippo Corradi, sospettando il tiro del collega, si rodeva il fegato per le false indicazioni che si ficcavano zitte zitte tra le vere del bollettino ufficiale, burlandosi della scienza.
Egli faceva sul serio, scrupolosamente, lasciando fin di desinare quando l'ora delle osservazioni scoccava; e il suo bullettino poteva dirsi modello di esattezza scientifica. Doveva denunziare il collega? Ismascherarlo? Non sapeva risolversi. Colui, a faccia tosta, continuava a far tremolare il suo paesetto come se nulla fosse stato.
E questa volta non era vero che le bugie hanno le gambe corte, perché arrivavano fino a Roma, dal Tacchini, fino a Moncalieri, dal P. Denza, e forse imbrogliavano i calcoli di quei poveri scienziati, che non potevano sospettare neppur dalla lontana la birbonata di Nino.
Un giorno, tutt'a un tratto, il pendolo sismografico di Golastretta si desta dal sopore, e s'agita di qua, di là, dietro la lente d'ingrandimento, quantunque ad occhio nudo si scorgesse muovere appena.
- Finalmente! Finalmente! -
E alla prima persona capitata in ufficio, disse con un gran gesto
- Guardate qui!
- Che significa?
- Avremo un terremotone!
E si dava stropicciatine alle mani.
- Misericordia! -
Colui, che aveva provato il capogiro alla continua agitazione del pendolo, ed era sbalordito e atterrito che ad occhio nudo si scorgesse appena, corse subito a diffondere la terribile notizia per le vie, per le botteghe, pei caffè. L'ufficio telegrafico, in poco d'ora, fu invaso, assediato. Tutti volevano vedere coi propri occhi, per assicurarsi e prendere una decisione. E la gente che aveva veduto, spaventava gli altri col racconto, esagerando, dando spiegazioni piú sbalorditoie di quelle fraintese, accrescendo cosí il panico, che già invadeva anche gli animi piú scettici; successo straordinario per Nino d'Arco. Gli pareva di avere davanti agli occhi il collega giallo itterico dall'invidia; e tornava a darsi stropicciatine alle mani. Fuori, la via era zeppa di gente che commentava, che discuteva. Le donnicciuole piangevano, i bambini strillavano.
- Si muove ancora?
Accorse il parroco, impaurito al pari degli altri dalle notizie recategli dal sagrestano; e appena ebbe osservato dietro la lente, scattò dalla seggiola, quasi si fosse sentito traballar il terreno sotto i piedi:
- È castigo di Dio, signori miei! Pei nostri peccati, signori miei! -
Era uno sbatter di imposte, un chiudere affrettato di usci, un correre, un chiamarsi per nome.
- Si muove ancora?
- Peggio di prima!
- Ah, san Liborio protettore! -
Nino d'Arco piú non si sentí tranquillo neppure lui. E di tratto in tratto, tornava a guardare quel maledetto pendolo che continuava tuttavia ad agitarsi. Era la prima volta che a Nino accadeva di trovarsi davvero quasi a faccia a faccia con un lontano accenno di terremoto, dopo quel centinaio di scosse, scossette, scossettine e scosserelle da lui inventate e fatte pubblicare nel bullettino meteorologico di Roma; e non gli pareva cosa divertente quella muta minaccia, a cui la sua ignoranza dava fallace significato. Pendolo del diavolo! Non voleva chetarsi dunque? Bella invenzione della scienza, per far morire di paura anticipata i pacifici cittadini! Chi aveva mai saputo che il terreno poteva traballare, senza che la gente se n'accorgesse?
E i suoi sguardi erano sempre attratti verso la lente. E gli pareva che i movimenti del pendolo aumentassero di ora in ora, che il pericolo d'un gran crollo di case diventasse, di minuto in minuto, piú imminente. Era rimasto solo nell'ufficio; per la via non si vedeva anima viva; tutti erano corsi a mettersi in salvo fuori del paese, nella pianura. Egli intanto non poteva moversi di là per dovere di telegrafista; e alzava le atterrite pupille alla volta, che poteva in un batter d'occhio rovinargli addosso.
Sul tardi, chiuso l'ufficio, andò all'aperto anche lui. La gente a crocchi, a capannelli, fra alberi di ulivi, qua recitava il rosario, là cantava le litanie. Quando lo videro arrivare, per poco non se la presero con lui, che metteva il paese sossopra con quel pendolo indiavolato.
Il rosario, le litanie, nell'oscurità della notte gli facevano brutta impressione, quantunque tentasse darsi aria di bravo, quantunque cercasse di persuadere i suoi compaesani del gran benefizio di quell'avviso che, forse, salvava la vita a tante persone.
Fino alle dodici del giorno dopo intanto non era accaduto niente.
Il pendolo però continuava il suo tristo prognostico, e gli faceva diventare il cuore piccino piccino. A ogni quarto d'ora, arrivava dalla campagna al telegrafo qualcuno dei piú animosi per avere notizie.
- Si muove ancora?
- Ancora! -
Ma il terremoto annunziato non arrivava.
Dovevano rimanere per tutta l'eternità accampati sul prato?
Venne la sera. Terremoto niente! Qualcuno cominciò a mettere la cosa in burletta. Il sindaco, capo-mastro muratore, aveva spedito un ragazzo a Pietranera. Quando il ragazzo tornò con la risposta di Pippo Corradi: - È una sciocchezza; state tranquilli! - s'udí un'esplosione - oh!... Oh!...Oh!
E coloro che piú avevano avuto paura e si sentivano i più canzonati, cominciarono a urlare:
- Imbecille! Ignorante! Cretino! -
Si precipitarono, in tumulto, schiamazzando, fino all'ufficio telegrafico; e se non avessero trovato il tenente dei carabinieri, accorso in fretta al dispaccio cifrato del brigadiere, chi sa come sarebbe andata a finire per Nino d'Arco!
- Che si è messo a fare? Lei disturba l'ordine pubblico - lo rimproverava il tenente.
Nino era rimasto di sasso; poi, cercando di scusarsi con la prova, gli aveva additato il pendolo...
- Ebbene?
- Ha le traveggole. Qui non si move niente!
- Mi faccia il piacere!... Non si move -.
Infatti il pendolo s'era arrestato. Nino non credeva ai propri occhi.
- Io glielo sequestro, per ora - gridò il tenente.
E alzato il cristallo della cassetta, strappò il tubo dove il pendolo era fissato.
- Quando si è ignoranti come lei!... -
La gente applaudiva.
- E ne farò rapporto alle autorità! -
A Nino importava poco che la folla applaudisse e fischiasse, e che il tenente dei carabinieri facesse il rapporto alle autorità. Egli pensava soltanto a Pippo Corradi che si sarebbe divertito alle sue spalle, saputa la cosa; e aveva le lagrime agli occhi.
E, come se tutto questo non fosse bastato, ecco, il giorno dopo, Pippo Corradi, tic-tac-tic-tac, che telegrafava: «Oggi alle 2 pom. scossa sussultoria di primo grado durata tre secondi, seguita, con intervallo di sette secondi, da scossa ondulatoria Sud-Nord, anch'essa di primo grado, durata cinque secondi. Nessun danno».
- Sorte infame! - balbettò Nino d'Arco.
E interruppe la corrente elettrica, per non sentire quel tic-tac-tic-tac che gli pareva un'irrisione!