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XIII
Verso l'Avemmaria, il prevosto Montoro arrivava in casino sempre il primo, coi tasconi a cintola che gli si arrotondavano sotto la zimarra, pieni zeppi di scudi; e, per non stare in ozio, intavolava subito una partitina a toppa col primo che capitava; partitina alla lesta, per farsi la mano, intanto che gli altri amici non arrivavano. Cosí spesso i tasconi a cintola si trovavano di già alleggeriti quando tutti i giocatori, ognuno al suo posto, parevano tanti canonici negli stalli del coro, per cantare l'ufficio col breviario di quaranta fogli, come diceva un po' irriverentemente anche il prevosto, ridendo. Ma lo diceva senza malizia. In fatto di religione, oh, no, egli non scherzava punto; e tutte le domeniche, durante la messa cantata, lo si vedeva gironzolare per la chiesa con una lunga canna in mano per dar sulla testa, senza riguardo, ai giovanotti scapati che andavano là a far gli asini con le ragazze, o alle donnicciuole che badavano a conversare invece di recitare il santo rosario e ascoltare la messa.
In casino era un'altra cosa. C'è tempo da pregare e c'è tempo da giocare, ha detto San Paolo. In casino ogni anno si giocava a toppa, dall'Immacolata all'Epifania, e il prevosto per quel mesetto giocava anche lui, appassionatamente, disperatamente, venendo lí carico peggio d'un asino, coi tasconi a cintola pieni zeppi di scudi.
Quand'era seduto a quel coro per cantare quell'ufzio, se monsignore gli avesse posto il dilemma di scegliere lí per lí, tra il breviarium romanum e il piccolo breviario di quaranta fogli da lui febbrilmente rimescolato, il prevosto, senza esitare un istante, gli avrebbe risposto: - Monsignore, mi perdoni... ma scelgo le carte! -
Che volete? In quei benedetti momenti non era più lui; le carte lo ubbriacavano. E cominciando a perdere, perdeva anche il lume degli occhi. Le manciate di scudi ch'egli buttava sul tappeto verde gli parevano a dirittura manciate di fave, quantunque il faccione quadrato, dal mento prominente e dalle sopracciglia setolose, gli si rannuvolasse; e le mani, che poco prima avevano delicatamente accarezzato le carte, ora invece le strizzassero, le maltrattassero, per gastigarle del torto che gli avevano fatto. Pure, non avrebbe mai smesso! Il primo a cominciare, era sempre l'ultimo a levarsi dal tavolino: e giocando, gli piaceva vedersi attorno gente molta e chiassona. Se i giocatori erano meno d'una ventina, egli non ci sentiva gusto: e le sere che scorgeva in piedi dietro le spalle loro una gran ressa di popolino, cioè di studenti tornati a casa per le vacanze natalizie, di figli di famiglia, di puntatori d'occasione - i quali allungavano ai seduti, quasi di soppiatto, certi castelloni alti cosí di carlini o di sei tarí di argento da puntare su questa o quella carta - il prevosto andava in solluchero:
Dal popolino egli si sarebbe lasciato spogliare allegramente, per incoraggiarlo a ritornare la sera dopo e rendere animata la partita.
- Cosí i giocatori si mettono in vena, e la serata passa allegrissima -.
Il povero popolino però ci rimetteva spesso le vincite della sera avanti con qualcosa di piú.
- Non vuol dire! Nel giuoco bisogna esser testardi, forzare le carte. La fortuna è femmina da pigliare, come le altre, per violenza! -
E qualche volta gli accadeva proprio cosí, dopo una disdetta di parecchie ore; dopo che le sue mani, nervosamente agitate, si eran tuffate e rituffate con rabbia fin in fondo ai tasconi a cintola, sotto la zimarra, a pescarvi gli ultimi scudi che pareva si nascondessero tra le pieghe per non raggiungere i loro compagni nelle tasche altrui. Allora il prevosto non badava piú all'asso di danaro o al fante di cuori, sue carte predilette; puntava su qualunque carta, alla cieca, fin sul re di picche, sua bestia nera; anzi raddoppiava la posta, per fargli dispetto. Solamente, in questo caso, egli usava una precauzione importante: intascava volta per volta la vincita, senza lasciarla un minuto sul tavolino.
- Unico mezzo per sviare la disdetta! - diceva seriamente.
E seriamente credeva al buono o al cattivo influsso di certe persone.
Don Filippo Spano - che sapeva la cosa ed aveva un viso smunto e sbiadito, da vero jettatore - di intesa con gli altri, andava per ciò ad appostarglisi zitto zitto a fianco o dietro la seggiola, per stuzzicarlo.
- Caro don Filippo, perché non andate a fare due passi? - gli diceva il prevosto, mezzo in canzonatura e mezzo in serietà. - Vi gioverebbero, per la digestione -.
Don Filippo non si moveva; fino a che, picchia e ripicchia, il prevosto non veniva a patti per levarsi quella pittima d'addosso.
- Una bottiglia di rosolio vi basta? Da bere cogli altri?
Allora due o tre dei giocatori fingevano di prender don Filippo per le spalle e cacciarlo via, mettendolo a sedere laggiú, sul divano, se non volea andarsene addirittura; e il prevosto pagava la bottiglia, anche perché cosí la brigata si metteva di buon umore e il gioco diventava divertente.
- E il mio bicchierino? Me lo merito - gridava dal divano don Filippo.
- Anche dieci! - rispondeva il prevosto.
Siccome due o tre volte quel regalo di rosolio gli avea, secondo lui, recato fortuna, ed egli era tornato a casa coi tasconi a cintola insolitamente pesanti e una gran pezzolata di carlini, di due tarí e di sei tarí del povero popolino molto afflitto del gran repulisti; cosí, le sere che vedeva accostare lemme lemme don Filippo, improsciuttito e sbiadito da quel jettatore che era, il prevosto chiamava subito il cameriere e lo mandava da donna Proserpina, la droghiera di faccia, per la solita bottiglia di veleno:
- Chi vuole avvelenarsi, si avveleni! -
E si avvelenavano tutti allegramente, alla salute del prevosto; perché il rosolio di donna Proserpina, come la chiamavano, infine non era altro che un po' d'alcool e un po' di zucchero diluiti nell'acqua di fonte che la cocciniglia tingeva di rosso fiammante, un intruglio qualunque; e nessuno nella baraonda faceva lo schizzinoso.
Il quale intanto rimpiangeva il preziosissimo tempo perduto a stappare solennemente la bottiglia e a mandare attorno i bicchierini ricolmi. E, per sgravio di coscienza, quasi quel quarto d'ora sciupato fosse peccato mortale, egli imbastiva nel suo cantuccio di tavolino una giocatina in partibus col compagno accosto, perché le carte non gli si freddassero in mano; e tirava in fretta in fretta, lasciandosi scappar di bocca certe esclamazioni molto energiche e poco pulite a ogni par di scudi che colui gli portava via, contro ogni previsione della cabala.
Altra fisima del prevosto la cabala! Le prestava fede come al cattivo influsso di don Filippo e al buon influsso di Nino, il figliuolo del cameriere, biondino mingherlino, che pareva un angioletto coi begli occhi azzurri e il dolce sorriso infantile.
Quell'anno, intanto, pel prevosto non c'era né cabala, né buon influsso di Nino, né Cristi né niente: disdetta sera per sera. I tasconi a cintola si vuotavano rapidamente; e a ogni mucchio di scudi di santa chiesa che don Peppino, detto il Capitano, tirava a sé, ripetendo: - Grazie, signor prevosto! - questi sbuffava, sbuffava, senza però cessare di buttar su le carte i bei scudi di santa chiesa a pugni, a manciate, non contandoli neppure.
E il Capitano li tirava a sé pulitamente:
Il prevosto allora chiedeva che si cambiasse mazzo di carte a ogni momento, e buttava per terra, calpestandoli coi piedi, i mazzi appena sfiorati, perché non ricomparissero piú sul tavolino. E tornava a far cabale, per indovinare la carta buona, guardando se mai non fosse lí il suo Nino, che aveva ordine segreto di stargli seduto dietro, nel vano della finestra, a pregare pel nonno prevosto, il quale, ad ogni vincita, gli avrebbe regalato uno scudo. Il nonno prevosto, invece, si faceva svaligiare alla lesta dalle maledettissime carte che gli dicevano contro ostinatamente, a dispetto delle vere regole della cabala, contro ogni filosofia di giuoco, com'egli affermava; e Nino, una sera, attendendo inutilmente il promesso scudo, s'era addormentato sulla seggiola nel vano della finestra.
Il Capitano che teneva banco, vista la grossa puntata, esitava a tirare, faceva lo smorfioso.
- Tira o non tira? - insisté il prevosto, stizzito dell'indugio.
Quegli non rispondeva, rassegnando le poste, disponendole in tre lunghe file a lato delle due carte. Quando si decise, tutt'a a un tratto si fece attorno al tavolino silenzio profondo. Il prevosto seguiva con tanto d'occhi la lentissima tiratura di don Peppino che lo metteva alla tortura. Questa volta però egli era sicuro: il suo fido fante di cuori era là, contro il banco, e la cabala parlava chiaro. Ed ecco il sette di picche, come la cabala aveva previsto! Ed ecco l'asso di cuori, come la cabala aveva previsto!... Ed ecco il re di danaro, come la cabala aveva previsto!... Volevano altro? Il Capitano, tenendo il mazzo stretto stretto fra una mano, con due dita dell'altra tirava le carte, adagino, adagino, adagino, quasi a ognuna di esse gli si dovesse spiccicar l'anima; e lo faceva a posta.
- Ed ecco l'asso di picche... come la cabala non ha previsto! - egli esclamò solennemente.
Il prevosto, sconcertato, si guardò attorno, per scoprire qual jettatore aveva mai potuto produrre cosí inatteso disastro; e visto il suo Nino che, invece di pregare pel nonno prevosto, se la dormiva tranquillamente, non seppe frenarsi e gli allungò un solennissimo schiaffo che lo sbalzò per terra.
- Mi smoveva co' piedi la seggiola! - egli balbettò, furibondo e pentito nello stesso tempo, cercando di scusarsi di quell'eccesso. E al bambino che piangeva regalò i due scudi rimastigli in tasca.
Poco dopo, seduto in un canto, il prevosto si vendicava di quell'infamissimo mazzo, riducendo ogni carta in minuscoli pezzettini.
- Perché mai, signor prevosto? - venne a dirgli dimessamente don Antonio, deputato cassiere, a cui quello sciupio pareva sacrilegio.
- Ah, si vuol vietare fino un po' di sfogo a un giocatore! I quattrini perduti a toppa forse me li date voi, signor cassiere? Io, io ho vuotato il magazzino del grano e la cantina dell'olio, capite? Voi ve la spasseggiate per la stanza, non rischiando neppure un carlino, e poi avete il coraggio di far da censore, appena voglio cavarmi il gusto di ridurre in pezzi un vilissimo mazzo di carte! È troppo! È troppo! -
Urlava, gesticolava, con la schiuma alla bocca, bestemmiando come un turco, benché prete e prevosto.
- Ah!... Vietare fino un po' di sfogo a un giocatore! È troppo! È troppo! -
Sbraitò piú d'un quarto d'ora. E rimessosi a sedere in quel canto, tornò a stracciare il mazzo, carta per carta, con piú rabbia di prima.
La domenica, per santificare la festa, in casino si giocava a toppa anche dalle dieci di mattina fino al tocco dopo mezzogiorno. Quel diavolo di don Peppino, il Capitano, che aveva visto passare frettolosamente il prevosto intabarrato fino agli occhi e col cappuccio in testa, perché gli toccava di cantare la messa di Santa Lucia, ne fece una delle sue.
Il prevosto stava per inginocchiarsi sul predellino del praeparatio ad missam, quando un ragazzo venne a susurrargli in un orecchio:
- Debbono aspettarlo - dice don Peppino - per quell'affare?
Si sbrigò del praeparatio in un batter d'occhio; preso però da scrupoli, ricominciò da capo. Indossò anche il camice e la pianeta senza fretta, concentrato, recitando i versetti latini sotto voce, calcolando che fra una mezz'ora tutto sarebbe finito. E uscí di sagrestia solenne e severo sotto la pesantissima cappa di broccato, argento e oro a fiorami, con le mani giunte e gli occhi bassi, preceduto dal mazziere vestito di rosso, dal sagrestano e dai diaconi in tonacella, fra il magnifico scampanío di tutte le campane interne della chiesa, e il grave suono dell'organo. La chiesa rigurgitava.
Al primo dominus vobiscum che dovette intonare rivolto ai fedeli con le braccia aperte pel sacro augurio, il prevosto scorse in piedi tra la folla inginocchiata, don Peppino e parecchi altri amici di toppa che gli accennavano di far presto, se voleva essere aspettato; e continuando la sua bella nota baritonale di canto fermo, rispose: - Aspettate! - con lieve segno delle mani aperte e ancora in alto pel dominus vobiscum. Poco dopo, intanto che il diacono si segnava per cantare il vangelo e il prevosto, appoggiate le spalle a un angolo dell'altare, riuniva dignitosamente le mani sul petto, don Peppino e quegli altri seguitarono ad accennargli con insistenza: - Abbiamo fretta! -
Che poteva mai farci, se quell'asino di diacono ragliava il vangelo lentamente, per far pompa della sua voce fessa e stonata di frate francescano? Quasi la gente fosse venuta in chiesa unicamente per ammirare i ragli di lui! E il prevosto, con le mani giunte, dall'angolo destro dell'altare, rispondeva a don Peppino e agli altri, torcendo gli occhi e il muso:
- Che posso fare, se quest'animale non la finisce piú?
E quando toccò di nuovo a lui, non stette piú sulla mossa. Gli oremus, l'orate fratres, i dominus vobiscum, il sursum corda sfilaron via di carriera. E Cristo fu fatto frettolosamente discendere dal cielo nell'ostia e nel vino del calice, moscadello dalla fragranza di paradiso e che pareva oro colato. Il prevosto solea portarsene in tasca una boccettina per la propria messa. Doveva forse guastarsi lo stomaco con l'aceto che i fedeli regalavano alla parrocchia?
Intanto i canonici dagli stalli e i fedeli dalla navata di mezzo si erano già accorti della commedia e ridevano sotto il naso. Il prevosto si sentiva su le spine; la pianeta gli bruciava addosso; quando, all'ultimo dominus vobiscum, don Peppino facendo il verso di tirar le carte, gli accennò che egli e gli amici, stanchi d'attendere, andavano via e avrebbero incominciato a giocare senza di lui. Fu il colpo di grazia.
I canonici cantavano tuttavia l'Agnus Dei a due cori, e già il prevosto, spezzata in due l'ostia consacrata e rivoltatala lestamente tra la lingua e il palato, vi aveva bevuto su il vino del calice per inghiottirla piú presto. Però, tenendo il calice tra le mani, con gl'indici e i pollici riuniti su l'orlo, si era rivolto al sagrestano perché vi versasse il resto dell'ampollina pel lavabo.
Don Panecotto, il sagrestano, ch'era coll'acquolina in bocca da mezz'ora, versava il moscadello a goccia a goccia, per risparmiarne mezzo ditino da berselo lui a messa finita.
- Versa! Non lo piscia tua sorella! - gli ringhiò sottovoce il prevosto. - Versa! Versa! -
Oramai mancava soltanto l'ite missa est. Ed ecco quell'asinaccio di frate che ricominciava da capo con la voce fessa e stonata; un iiiite interminabile! Il prevosto, che lo aveva davanti, con le spalle a lui rivolte, stralunava gli occhi e sbuffava, gonfiando le gote. Se non gli lasciò correre un calcio in quel posto, fu davvero miracolo di santa Lucia.
E cosí finí quella messa cantata, fra le risate dei canonici e della gente, con grande scandalo dei colli torti e delle beghine, che denunziarono il prevosto a monsignore quando venne per la visita.
- Ah, signor prevosto, signor prevosto! - cominciò monsignore a quattr'occhi.
Solennissima lavata di capo! E questa volta al prevosto non era giovato mettersi a zoppicare quindici giorni avanti, e calzare scarponi di panno nero per simulare la podagra e muovere a compassione monsignore.
- Un sacerdote che gioca a toppa in casino!... Ma le pare, signor prevosto! -
E il prevosto era uscito dalla stanza masticando tossico.
- Parla bene monsignore! Ma lo sa monsignore che durante tutto l'anno io gioco soltanto a briscola col barone, il cancelliere e don Peppino, il quale è capace di sbagliare le giocate a posta, per farmi arrabbiare, quando mi tocca per compagno di partita? Sfacchina forse lui, monsignore, l'intera annata, a confessare, a predicare, a recitar l'ufficio due volte il giorno? E poi, quando in casino tutti giocano a toppa durante il mese di Natale, perché è costume, monsignore pretende ch'io debba rimanermene in disparte, come un cane rognoso, e star soltanto a guardare! È giusto, via? È giusto?... Ah, questo benedetto collare!... Ci vuol pazienza! -
E le prime due sere, mentre gli altri giocavano al solito posto, attorno al solito tavolino, egli si mise a misurare per lungo e per largo lo stanzone, tenendo raccolto l'ampio ferraiuolo dietro la schiena, col nicchio quasi sugli occhi, sbattendo i tacchi, con tanti colpi di mazza sui mattoni del pavimento.
- Insomma, signor prevosto?... - lo stuzzicava don Peppino.
- Quest'anno non giuoco!... - rispondeva, soggiungendo fra i denti: - per far piacere a monsignore! E la zimarra gli sbatteva rumorosa fra le gambe nell'andare in su e in giú.
Passando però accosto al tavolino dove gli altri si divertivano a toppa - per loro non c'erano monsignori! - dava una sbirciatina, di sbieco; e le monete che suonavano rimescolate sul tavolino se le sentiva tormentosamente rimescolare in fondo allo stomaco.
- Si persuada, signor prevosto. Manca il meglio pezzo con lei!
- Quest'anno non giuoco! - E fra' denti: - A monsignore piace cosí! -
Ma quei cinquanta scudi ch'egli aveva messi, per abitudine, nei tasconi a cintola uscendo di casa, gli pesavano, gli pesavano!
Era già risoluto di andar via; non ne poteva piú, quando gli passò accanto uno studentino che accorreva per puntare.
- Questo per me, e zitto! - gli susurrò, mettendogli di nascosto uno scudo in mano.
Don Peppino se n'accorse; e appena lo studentino puntò lo scudo, egli lo prese con due sole dita e cominciò a passarselo e a ripassarselo buffamente su gli occhi socchiusi
- Oh sacro scudo! Oh scudo divino! Oh scudo miracoloso, piovuto dal cielo e capace di dar la vista ai ciechi e l'udito ai sordi! -
Tutti ridevano.
Il prevosto, serio serio, con le sopracciglia corrugate che parevano setole, col nicchio rovesciato indietro su la nuca, brancicava il mantello raccolto dietro le spalle, andando su e giú come un'anima dannata, imprecando a monsignore che lo metteva a quella tortura. Ma avvistosi che il suo prediletto fante di cuori stava appunto contro il banco, buttando per aria nicchio e mantello:
- Un momento! - urlò. - Dieci scudi! -