Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Racconti
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TOMO II

LE PAESANE

XVIII IL TABBÚTU

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XVIII

 

 

 

IL TABBÚTU

 

La casa di don Stellario Blanco era un arsenale. Egli e sua sorella donna Salvatrice aggirandosi per quegli stanzoni mezzi affumicati, dalla volta ingombra di ragnateli, parevano spersi fra tutti quegli oggetti buttati alla rinfusa, coperti di due dita di polvere e che mandavano un tanfo di cose vecchie in fermentazione. Don Stellario e donna Salvatrice ne avevano pieno il naso e non ne provavano piú nessun fastidio; ma chi entrava colà la prima volta si sentiva prendere da un soffoco alla gola e da nausee irresistibili.

- Vogliono economizzare anche l'aria, che non costa nulla! - diceva mastro Croce Lopiro, falegname di casa, quando il compare lo chiamava per rabberciare gli scuri d'una finestra che cascava a pezzi, o per appiccicare con due chiodi vecchi un resto di tavola fradicia a un uscio che non si reggeva piú.

- Che volete farne di tutti i quattrini messi in serbo da cinquant'anni? Non potrete mica portarveli via nell'altro mondo! -

Don Stellario rideva alle barzellette del compare, chiamato anche Noce di collo; ma donna Salvatrice, spettinata e con quei cenci stinti addosso, che la facevano parere una mendicante, gli dava su la voce:

- Che quattrini andate fantasticando, mastro Croce benedetto! Volete attirar qui i ladri con le vostre stramberie?

- Pei ladri ci sono quegli arnesi - soggiungeva don Stellario.

Infatti agli angoli d'ogni stanza si vedevano due o tre vecchi fucili carichi da anni, coperti di polvere anch'essi e arrugginiti; e quella bravata faceva sorridere mastro Croce che conosceva bene il compare.

 

Ogni sera, dopo l'avemmaria, don Stellario si barricava in casa, come se da un momento all'altro s'attendesse un assalto; e nella nottata, ora che la vecchiaia gli dava sonni brevi e interrotti, si alzava da letto due o tre volte, e faceva un giro per la casa, mezzo vestito, col lume in una mano e una pistola nell'altra, seguito da donna Salvatrice, che saltava giú dal suo canile, buttandosi su le spalle una mantellina di panno tarlata, appena sentiva da la sua camera lo strascico delle ciabatte del fratello.

- Che è stato?

- Nulla. Torna a letto. Darò io un'occhiata -.

Donna Salvatrice, senza dargli retta, gli andava dietro, raggrinzita nella mantellina, seguendolo di stanza in stanza, girando attorno gli occhi sbarrati dalla paura dei ladri, raccogliendo nel passaggio un oggetto cascato per terra, spingendo piú in un sacco pieno di cose inservibili, o una sedia che non stava ritta su i tre piedi rimastile.

- Lascia andare; non far rumore - gli raccomandava don Stellario.

Poi scendevano in cantina fra tre lunghe file di coppi pieni d'olio d'oliva con la morte in centro come chiamasi il coppo sepolto dentro il suolo, a fior di terra, pel caso che qualcuno di essi, crepando, spandesse l'olio per terra. Sul pavimento, fatto a posta saldo e liscio, si camminava a fatica e con pericolo di scivolare e rompersi l'osso del collo.

Giravano attorno sospettosamente, temendo sempre di scoprire qualche cattivo soggetto nascosto in un angolo, dietro un coppo, per poi aprire la porta ai compagni e farli salire su ad assassinare nel letto i padroni e svaligiare la casa.

Di tanto in tanto un sorcio, grosso come un gatto, sguizzava lungo i muri, sparendo dentro qualcuno dei buchi delle rozze pareti umidicce, o saltava via su pei coperchi di legno dei coppi, inseguito dal lume della candela che don Stellario levava in alto, per vedere.

Erano cosí abituati tutti e due a quelle fughe di sorci, quasi di animali domestici, che non se ne curavano. Solamente donna Salvatrice faceva attenta rassegna dei coperchi, sollevandoli per guardare dentro i coppi, se mai qualche sorcio maledetto, cascato ed affogatosi nell'olio, non tentasse di mandarne a male quattro o cinque quintali; e sarebbe stato peccato mortale. E passavano nella dispensa delle botti, in mezzo a un'aria pregna di esalazioni di vino che davano il capogiro; ficcandosi tra i fusti e il muro, guardando in basso e in alto, portando via ragnateli coi gomiti e con la testa; fermandosi dinanzi ai caratelli prediletti, dov'era il vino vecchio che si vendeva piú caro; tastando i cocchiumi, dando un'occhiata alla stoppa che stipava la fecciaia per accertarsi che non ne gemesse stilla di liquido; sarebbe stato altro peccato mortale.

E contenti e soddisfatti, risalivano per visitare la cucina, le soffitte, ogni angolo dei ripostigli, minutamente, come avevano già visitato la stalla, il pollaio e il magazzino del grano.

- Niente! Niente! - diceva don Stellario.

- Per grazia della Madonna dalla Stella! - rispondeva donna Salvatrice. - Fammi lume, e chiudi l'uscio -.

Cosí evitava di accendere la candela in camera per ritrovare il giaciglio ch'ella aveva faccia di chiamar letto; e don Stellario, tossendo, tornava a ficcarsi anche lui sotto le coperte del suo, che faceva il paio con quello della sorella.

Ogni notte cosí.

 

All'alba però, donna Salvatrice era in piedi e chiamava comare Stella, che abitava di faccia, perché venisse a darle una mano nelle faccende di casa. C'era sempre qualcosa da fare; ora mondare il grano da consegnare al mugnaio; ora impastare e infornare il pane; ora vagliare il frumento e metterlo nei cannicci; ora misurare fave e ceci da dividere coi mezzadri, secondo le stagioni; o preparare le botti per la prossima vendemmia, o salare le ulive, o far le vendite, all'ingrosso e al minuto, dell'olio, del vino, e fin degli ortaggi e delle frutta; talché a volte l'anticamera pareva bottega, rivendita di commestibili, e la stanza ne aveva l'odore, che già da un pezzo s'era attaccato alle pareti.

- Qui non si perde niente - diceva comare Stella, piena d'ammirazione.

La poveretta lavorava come un facchino tutta la giornata, pel tozzo di pane duro e la manciata di fave che donna Salvatrice le regalava ogni sera, all'avemmaria, prima di chiuderle il portone alle spalle. E spesso don Stellario brontolava contro la sorella che, secondo lui, allargava troppo la mano.

- Non basta mezza pagnotta? -

Nei giorni che non andava in campagna a cavallo della sua vecchia asina spelata, per far una giratina pei poderi e dare un'occhiata ai seminati, agli ulivi, alla vigna, e sorvegliare quei furfanti di mezzadri che badavano soltanto a derubarlo, don Stellario non mancava mai di ascoltare la santa messa, quella del Rosario, sua particolare devozione; e andando alla chiesa, non mancava mai di dare una capatina nella bottega di compare Noce di collo, che trovavasi appunto nella via, alla cantonata della piazzetta di S. Maria dalla Stella, parrocchia di don Stellario; per questo gli avevano messo quel nome al fonte battesimale.

La bottega di mastro Croce era un bugigattolo ingombro di legname di bassa qualità. Egli non lavorava di fino, serviva soltanto contadini, pei quali sbozzava aratri di forma primitiva, basti da mulo per aratura, collari da campanacci per buoi, usci rozzi, madie e tavolini d'abete con gambe tornite o no, secondo la richiesta.

Don Stellario, aspettando il segnale della campana, si divertiva a osservare il compare intento al lavoro in maniche di camicia e con gli occhiali a capestro sul naso adunco. - Buon giorno, compare.

- Benedicite, signor compare -.

Mastro Noce di collo, lavorando, era di poche parole. Reso il saluto, seguitava a piallare, a segare, o a dar sodi colpi d'ascia con accompagnamento di hah! hah! hah!, specie di grugnito; e don Stellario, strizzando gli occhi, raggrizzando le labbra, a ognuno di quegli hah! scuoteva la testa, quasi facesse uno sforzo per aiutarlo.

Negli intervalli, tra una presa di tabacco e una soffiata di naso, o nel tempo che mastro Noce di collo assestava sul pancone un grosso pezzo di legname da squadrare, don Stellario gli domandava:

- Che c'è di nuovo, compare?

- Chi ha quattrini mangia, e chi non ne ha si gratta la pancia.

- Bella novità! -

- La miglior novità, com'è vero Dio, sarebbe che io smettessi di rompermi le braccia con la pialla e l'ascia, e me ne venissi a casa vostra per mangiare e bere senza far niente. Invece, vedete? ora mi tocca adoprar la scure per isquadrare questo tronco qui... Hah! Hah! Hah! -

I grugniti erano piú forti, piú staccati; e don Stellario, che non poteva fare a meno di dare una scossetta con tutta la persona, secondo le braccia che andavano su e giú in cadenza, doveva tirarsi indietro, verso l'uscio, per evitare le scheggie.

Pel solito, don Stellario incontrava qualche contadino intento a sorvegliare un lavoro ordinato; e allora attaccava discorso intorno alle faccende campagnuole. Mastro Croce non apriva bocca; però se sentiva il compare pianger miseria per le tasse, le cattive annate, e pel commercio che andava male, gli diceva:

- Con che faccia vi lagnate, voi che avete i quattrini a staia?

- La solita canzone! - rispondeva don Stellario, un po' stizzito perché ora non erano piú a quattr'occhi.

E scappava per la messa.

 

Una mattina egli trovò mastro Noce di collo fuori della grazia di Dio. Sbraitava sull'uscio della bottega, fra un gruppo di comari e di contadini, che ridevano davanti a una cassa da morto messa quasi a traverso la soglia.

- Che me ne farò? Corpo!... Sangue!...

- State zitto, non bestemmiate - gli diceva una vecchia, segnandosi.

- Levatevi tutti di torno... Sangue!... Corpo!... O ve la sbatacchio su la testa -.

E visto accostare don Stellario, si rivolse a lui:

- Ecco le belle azioni di voialtri galantuomini! -

Cosa non mai vista una cassa da morto nella bottega di mastro Croce. Ma la notte avanti erano andati a svegliarlo per commissione di quel ladro di don Pietro Nigido Ciuco vestito - bene appiccato il soprannome! - Gli moriva il figliuolo; presto, una cassa! - E aveva lavorato tutta la nottata, sciupando quattro tavole da cinque bolli che erano una bellezza...

- Ebbene?

- Ebbene, ora che il malato sta meglio, Ciuco vestito risponde che non piú sa che farsene del tabbútu. - Vendetelo a un altro, mastro Croce. - A chi debbo venderlo?... Lo farò citare dal pretore; darò ricorso in tribunale, se non mi fanno giustizia. Quattro tavole da cinque bolli!... E una nottata di lavoro!

- O che non morrà piú nessuno? - rispose don Stellario, ridendo.

- Chi volete che lo prenda? È fatto su misura. Ladro! Ladro! - tornava a sbraitare mastro Croce.

E dava calci alla cassa che risonava cupamente.

- Non la sfasciate intanto - soggiunse don Stellario.

Il falegname, continuando a dar calci per traverso, l'aveva già fatta ruzzolare dentro la bottega.

- Solida! - osservò don Stellario. - E col coperchio da baule.

- L'ha voluta cosí, per farmi lavorare di piú. Ladro! Ladro!... Commetterò un eccesso; ci metterò dentro lui, Ciuco vestito com'è!

- Non urlate. Può darsi che ve la paghi.

- Se ha detto di no! «Vendetela a un altro!» A chi debbo venderla?... E poi, lo sapete meglio di me, questi son lavori che si pagano a merito. Ladro d'un Ciuco vestito!

- Chetatevi, compare, chetatevi. Parlerò io con don Pietro. Su, venite a sentire la santa messa insieme con me -.

Giusto, era quello il momento d'andare a sentire la santa messa!

 

D'allora in poi, tutte le volte che don Stellario dava una capatina da mastro Croce, spingeva gli occhi in alto, verso la catasta del legname dove era stata buttata la cassa da morto.

- Sempre quel tabbútu? -

Né poteva tenersi dal ridere alla spallucciata rabbiosa con cui il compare gli rispondeva. E guardava, guardava lassú, mentre il falegname seguitava a piallare o a dare colpi d'ascia coi soliti hah! hah! hah! Gli frullava pel capo una idea.

- Se la comprassi io quella cassa? Sarebbe un bel risparmio -.

Ma non ne diceva nulla a maestro Noce di collo, per lasciar passare tempo, e farlo convinto che gli conveniva disfarsene anche a metà del costo. Tanto, non la voleva nessuno.

Ne aveva parlato alla sorella, per ridere del caso del compare:

- Bella cassa! Solida e col coperchio da baule. Non ci vogliono meno di cinquanta lire per averne una simile, fatta a posta in caso di morte. I falegnami abusano dell'urgenza in quel caso; l'occasione capita di rado, e bisogna piegar la testa alle loro pretese -.

Ne ragionava a tavola, in quei brevi momenti in cui mandavano giú un boccone: minestra di verdura e quattro olive salate, che donna Salvatrice masticava spesso in piedi, per accorrere nell'anticamera a misurare il vino con le proprie mani a qualche vicina venuta a comprarne un litro.

- Oggi, ventiquattro tarí di quel mezzo guasto. Se non si via presto, si farà aceto - brontolava donna Salvatrice.

- Cola Nasca ne voleva un carico.

- E un tumulo di fave: sei tarí.

- Meglio che niente! I tempi son cattivi -.

La sera, prima d'andare a letto, contavano il denaro e lo riponevano qua e , dentro una calza vecchia, in fondo a un cassettone, tra un pezzo di tela, in una cappelliera di cartone sfasciata e nascosta in un angolo ingombro, o in un sacco di noci; e mettevano in ogni posto un pezzettino di carta per segnale. Cosí i ladri non potevano portar via ogni cosa.

Il vero morto però trovavasi in cantina, sotto terra, tutto in pezzi da dodici tarí d'argento, come essi continuavano a chiamare anche i pezzi da cinque lire; e, accanto, dentro un barattolo di terra cotta piú piccolo, le monete dagli occhi rossi, quelle d'oro.

Di tratto in tratto, don Stellario disseppelliva il morto per accertarsi che trovavasi ancora o per aggiungervi un'altra manciata di monete dagli occhi rossi, o un sacchetto di quelle di argento.

- Venti sacchetti!

- , venti - ripeteva donna Salvatrice.

E quando veniva Cola Nasca a prendere il solito carico di vino, e picchiando il piede sul suolo, diceva per chiasso: - Il morto è qui! - donna Salvatrice trasaliva, quantunque il morto non fosse proprio ma sotto la botte della Madonna, in fondo alla dispensa.

- Quel pezzo d'ubbriacone si è forse accorto di qualcosa -.

E una notte d'inverno, che pioveva a dirotto, mutarono il posto. Don Stellario aveva scavato un'altra buca dietro la botte di san Francesco. Ogni botte portava il nome del santo la cui immagine benedetta vedevasi appiccicata a le doghe, piú in su del cocchiume, per garentire il vino dal guastarsi. E donna Salvatrice aveva aiutato il fratello a cavar la terra e a riporre la gran brocca di terra cotta dal tappo di sughero, che conteneva i sacchetti delle monete d'argento, e l'altro barattolo con quelle dagli occhi rossi; fatica a dirittura. Ora però potevano dormire sicuri: il terreno era stato battuto; sopra vi avevano sparso un mucchio di sassi e d'immondezza da far sparire ogni traccia, e pareva che sassi e immondezza si trovassero colà da cento anni.

 

- Sempre quel tabbútu, eh?

- Aspetta che Ciuco vestito crepi. Dovrà servire per lui, o non c'è Dio lassú -.

Mastro Noce di collo non poteva sentirne parlare.

- Dovreste sfasciarlo e servirvi delle tavole.

- E il lavoro? Chi me lo paga?

- Terrete sempre quella jettatura?

- O prendetela voi! - rispose mastro Croce stizzito.

- Io?

- Dunque perché mi tormentate, caro compare? -

Don Stellario non gli aveva detto nulla neppure quella volta, visto che il compare accennava di cascar da sé nell'idea che gli frullava piú di prima dentro la testa.

- Se mastro Noce di collo mi cede quella cassa per una quindicina di lire, sarà un bell'affare anche per lui -.

Oramai la cassa gli faceva gola; e per ciò don Stellario veniva piú spesso a fare una visitina al compare, anche senza il pretesto d'andare alla messa del Rosario. Anzi, da qualche settimana, si accostava alla bottega con un po' d'ansietà: temeva che qualcuno non fosse stato piú lesto di lui. Sentendo parlare d'un malato in fin di vita, pensava:

- Sta a vedere, che la cassa abbia a servire per questo minchione! -

E si decise la mattina in cui trovò mastro Noce di collo che bestemmiava peggio d'un turco:

- Accadono tutte a me! C'era una bella occasione di dar via quel tabbútu del diavolo, ed è riuscito troppo stretto pel pancione del notaio Tirella!

- Andiamo - disse don Stellario. - Se sarete ragionevole, lo prenderò io.

- Voi? Che ve ne fate?

- Dieci lire! -

Mastro Croce gli diè un'occhiataccia.

- Dieci lire. Lo faccio soltanto per voi; non siamo compari per nulla - soggiunse don Ilario ridendo.

Mastro Croce mugolava bestemmie:

- C'è il sangiovanni di mezzo!... Se no, ve la darei io la giusta risposta, compare.

- Quindici; e facciamola finita.

- Neppure il costo delle tavole? Quattro tavole di abete, da cinque bolli; volete sentirlo?

- Quindici e una bottiglia di vino. Lo porterete a casa domani mattina. È per rendervi un servizio -.

Mastro Croce tenne duro. Due giorni dopo, don Stellario tornò all'assalto.

- Siete ancora ostinato? Quindici lire e una bottiglia di vino.

- Gli do fuoco piuttosto.

- È per rendervi un servizio; dovreste persuadervene -.

- Anche questa volta il povero mastro Croce tenne duro; ma don Stellario non si diè per vinto. E la spuntò il giorno che il falegname non sapeva dove dare il capo per pagare la pigione della bottega.

- Venti lire, compare - gli disse in tono di preghiera -. Le tavole mi costano piú.

- Quindici.

- Levate via il vino?

- E una bottiglia di vino, poiché mi scappò detto -.

A quel prezzo, il tabbútu era proprio regalato.

All'alba del giorno appresso don Stellario, che si era levato di buon'ora, andò lui stesso ad aprire il portone, sentendo il picchio del compare venuto con la cassa da morto.

- Portatela su, nel camerone -.

Donna Salvatrice strabiliò e si fece piú volte il segno della croce, vedendo entrare in casa quell'arnese di cui suo fratello le aveva parlato piú volte, senza mai comunicarle l'intenzione che aveva.

- Che volete farne? Madonna dalla Stella!

- Zitta; è bell'affare! - le sussurrò all'orecchio il fratello. - Quindici lire e una bottiglia di vino... Bada, di quello guasto - soggiunse, abbassando ancora la voce.

- Ah, compare! Mi levate di tasca per lo meno dieci lire! - disse mastro Noce di collo, prendendo danaro e bottiglia. - Il vino lo berrò alla vostra salute -.

A desinare, quando si provò a berlo, mastro Croce fece le boccacce al forte sapore d'aceto:

- Accidenti, compare ladro! - esclamò, versando il resto per terra.

 

- Che ne faremo? - ripeteva donna Salvatrice nei primi giorni, imbroncita contro il fratello perché aveva fatto portare in casa quel mal augurio.

- Servirà, fra cent'anni, per me o per te -.

Don Stellario glielo diceva tranquillamente, riflettendo, senza malizia, che sua sorella avea cinque anni piú di lui. Gli pareva naturale che, nata prima, dovesse anche morire prima. E per confortarla, aggiungeva:

- Intanto, è una cassa come un'altra; può servire a qualunque uso -.

La verità era che a nessuno dei due, benché oltre la sessantina, passava pel capo che un giorno dovessero andarsene al camposanto, e lasciare la cantina con l'olio, la dispensa con le botti di vino, il magazzino coi cannicci ricolmi di grano e il morto sotterrato dietro la botte di san Francesco. Avevano salute di ferro, non erano mai stati gravemente malati; e si sentivano cosí attaccati a tutta quella roba ammassata in casa a prezzo di tante privazioni e di tanti stenti, da non pensare che finalmente una volta avrebbero dovuto distaccarsene, e lasciare per forza ogni cosa a quei due parenti lontani che ora essi non volevano neppure sentir nominare.

- È una cassa come un'altra; vuoi capirlo? -

Parve anche a donna Salvatrice una buona ragione. Cosí, un giorno, non sapendo dove riporre le filze di fichi secchi portate dai mezzadri, ella disse:

- Le riporremo -.

Don Stellario gliele porgeva a una a una, osservandole, dando il parere intorno alla qualità dei fichi di quell'anno, che gli sembrava scadente. Poi le coprí di nepitella e rosmarino perché non s'intignassero come l'altra volta. E la cassa, piena zeppa, rimase socchiusa, quantunque avesse il coperchio rotondeggiante, da baule.

- Solida! - conchiuse don Stellario, applaudendosi nuovamente dell'acquisto, dopo aver picchiato sul coperchio con le mani.

Da qualche tempo però, quando egli e la sorella andavano in giro, per la solita ispezione notturna, passando davanti a quella cassa che dava subito nell'occhio pel colore dell'abete nuovo in mezzo ai mucchi di arnesi diversi già scuriti dal tempo e dalla polvere, sentivano tutti e due un brividino alla schiena.

- Ah, don Stellario! - borbottava la sorella. - Dite quel che volete, ma questa cassaccia mi pare il mal augurio di casa nostra! Gli dava del voi per rispetto, perché era un uomo.

- Sciocca! - egli rispondeva. - Sciocca!... Sono già sei mesi che essa è qui. Dov'è il mal augurio? -

E faceva la voce brusca, per celare la cattiva impressione che, con suo gran dispetto, cominciava a sentirne anche lui.

Mastro Noce di collo, che non poteva perdonargli la bottiglia di vino inacetito e aveva la celia brutale, tutte le volte che il compare, andando alla messa del Rosario, si fermava per salutarlo, dopo il solito: - Benedicite, signor compare, - gli ricantava sempre la canzone:

- Ce n'avete ancora di quel famoso moscadello? -

E vedendolo ridere, aggiungeva subito

- Avete fatto come i giudei con Gesú Cristo, dandomi il fiele delle quindici lire e l'aceto per giunta. Ma non c'è Dio lassú, se non vi riporrò io, con queste mie proprie mani, dentro quel tabbútu rubato! -

Da principio, don Stellario si divertiva alle cattive parole del compare; non era una femminuccia da credere al mal augurio; e poi, poverino, bisognava lasciarlo sfogare. Si riprendeva forse la cassa, parlando cosí? E gli rispondeva:

- Eh via compare! Acqua passata non macina piú! -

Ora però che sentiva anche lui, ogni notte, quel brividino alla schiena vedendo la cassa stesa nel camerone, col coperchio socchiuso, quasi non fosse ripiena di fichi ma attendesse dentro qualcuno, don Stellario rideva agro; e una mattina, appena il compare ricominciò la trista celia, egli lo interruppe:

- Volete finirla, compare Noce di collo? Dovreste anzi ringraziarmi! -

E gli voltò le spalle, mentre colui gli brontolava dietro:

- Anche ringraziarvi? -

Il resto don Stellario non lo udí, e fu meglio. E da quel giorno in poi non mise piú piede nella bottega del compare.

 

Non gli valse a niente. Egli andava notando un po' di debolezza alle gambe nel montare le scale di casa, un po' di affanno ai polmoni quando giungeva all'ultimo pianerottolo, quasi gli scalini si fossero raddoppiati. Eppure da piú di sessant'anni egli li aveva rifatti una diecina di volte al giorno, fino a una settimana addietro, senza ombra di fatica.

- Che significa? E la mattina, perché mi levo con una specie di confusione nella mente e sto con quell'accapacciatura fino a tardi? -

Azava le spalle, non voleva pensarci; intanto guardava con un po' d'invidia sua sorella che pareva fatta di acciaio, e si levava sempre prima dell'alba, e non stava un minuto con le mani in mano, e andava su e giú - in cantina, nella dispensa, nel magazzino del grano - senza mai riposarsi, quasi non le pesassero addosso cinque anni piú che a lui.

No, non voleva pensarci!

E poiché da un pezzo non andava in campagna, una mattina, anche per svagarsi, mise all'asina la vecchia sella sdrucita, dalle staffe e dal posolino che si reggevano a furia di spago, e partí per la Balata, quantunque il cielo minacciasse di piovere e la sorella gli avvertisse:

- Non andate, con questo tempaccio! -

A mezza strada, cominciò a piovigginare. Don Stellario buttatosi su le spalle il ferraiuolo, si alzò il cappuccio e tentò, a colpi di pungolo, far allungare il passo all'asina piú vecchia di lui e che metteva un piede davanti all'altro con gran flemma, scuotendo le orecchie alle insolite trafitture, senza però indursi ad andare piú lesta, quasi intendesse rimproverare al padrone la biada che non le dava. Poi lampi, tuoni, e le cataratte del cielo si apersero.

Don Stellario cercava di ripararsi alla meglio, con quel ferraiuolo stravecchio e rapato che assorbiva l'acqua senza perderne nemmeno una goccia; e spiava torno torno la campagna, per iscoprire una casupola dove ripararsi, pentito di non aver dato retta alla sorella e d'essersi avventurato cosí alla sbadata.

- Sarà meglio tornare addietro. Con questa lumaca, arriverei morto alla Balata! -

Ma dové combattere un pezzetto prima che l'asina, sbalordita da quel diluvio, si persuadesse di voltare. Insomma, un disastro!

Appena giunto a casa, dovette mettersi a letto; e non valsero a riscaldarlo né il bicchiere di vino bevuto, né la scottatura di tiglio preparatagli dalla sorella che non cessava di ripetergli:

- Dovevate darmi retta!

- Che conchiudi ora col brontolare? - rispose all'ultimo don Stellario, seccato.

Si vedeva passare e ripassare davanti agli occhi la cassa da morto, e dentro gli orecchi gli zufolavano le male parole di mastro Noce di collo:

- Dovrò mettervi io, con queste mie proprie mani, dentro il tabbútu rubato! -

E batteva i denti, non per la febbre soltanto.

 

Donna Salvatrice, vedendo da due giorni che suo fratello peggiorava e che le scottature non gli profittavano, una mattina cominciò a domandarsi se non era opportuno, anche per gli occhi della gente, chiamare un dottore.

- Non gioverà, forse, e sarà una spesa!... Ma per sapermi regolare... - esclamò tristamente, pensando che sarebbe rimasta sola sola, nel caso d'una disgrazia del povero fratello.

- Come ti senti? Debbo mandare pel medico?

- Sei matta? - strillò don Stellario, sbarrando tanto d'occhi, quasi avesse sentito dirsi: - È finita per te! -

E con uno sforzo si rizzò sul letto; ma la tosse lo costrinse a buttarsi giú. Era estenuato e con un febbrone da cavallo; pure non voleva né medici, né medicine!

- Infreddatura; non si tratta d'altro. Le scottature di tiglio bastano. Sprecar quattrini pel dottore e pel farmacista? Impostori! Intrugli! Intrugli! Impostori! Senti? Hanno picchiato. Vogliono forse del vino -.

Di tratto in tratto giungevano gli avventori consueti, e donna Salvatrice accorreva; e tornando presso il letto del malato, vi portava l'odore del vino mesciuto allora allora:

- Quattro soldi. Era comare Pina la mineòla. Oggi se n'è venduto sette lire sole, di quello della botte della Madonna.

- Ne rimangono ancora sei salme! Cola Nasca non si è piú fatto vedere?

- Te l'ho detto: vuol pagarlo a tre lire il barile. Il prezzo è calato, pretende.

- A dieci lire! Non lasciarti infinocchiare.

- Tu bada a guarire, e la Madonna t'aiuti! - ripeteva donna Salvatrice, tutte le volte ch'egli entrava a ragionare di interessi.

Di giorno in giorno intanto ella perdeva fede nella guarigione augurata al malato; e l'osservava da piè del letto, scuotendo tristamente il capo quando don Stellario non poteva vederla.

- Poverino!... Si è attirata addosso la jettatura con le sue stesse mani, comprando quella maledetta cassaccia da morto, quasi il cuore gli predicesse: dovrà servire per te! -

E attraversando il camerone, nel passare davanti la cassa, donna Salvatrice, con le lagrime agli occhi, levava via ogni volta due, tre filze di fichi secchi e le riponeva in un armadio.

- Bisogna sbarazzarla, pur troppo! -

Ma non ne fiatava col fratello, per non spaventarlo.

- Insomma, dovrà morire senza medico e senza confessore? - le disse un giorno comare Stella, tirandola da parte.

- Non vuole! Non vuole!

- Almeno il confessore! - soggiunse comare Stella.

 

Vedendo entrare il prete in camera col pretesto d'una visita, il malato si perdette d'animo tutt'a a un tratto.

- Don Stellario, son venuto qui per caso, per saggiare una partita di vino; saputo che state a letto... Cosa da niente. Coraggio!

- È inutile cercar d'ingannarmi - biascicò don Stellario con flebilissima voce. Poi rivolto alla sorella, mormorò:

- Tu pensa a sbarazzare la cassa -.

Fissava il prete paurosamente:

- Ditemi la verità: non c'è piú speranza per me?

- Le cose di Dio, se voi le volete, sono vera medicina!... Non siamo al caso, no; non c'è pericolo per ora; ma...

- Capisco, capisco -.

E parve rassegnarsi.

Appena il prete avvertí donna Salvatrice che egli sarebbe tornato poco dopo col viatico e l'estrema unzione, per la camera del malato fu un gran tramenio. Le due donne volevano dare un po' d'assetto a quel canile, spazzare, spolverare per ricevere degnamente Gesú sagramentato; e a don Stellario, che le seguiva con lo sguardo sbalordito, sembrava che spogliassero anticipatamente la camera, vedendo portar via tutti gli oggetti ammonticchiati su per le seggiole e sul tavolino dove bisognava apparecchiare la credenza coi candelabri e le candele di cera.

Comare Stella bruciò anche due pallottoline di zucchero per smorzare il tanfo.

- Signore Dio! Con tante ricchezze! Questa camera pare un porcile - ella diceva da sé da sé.

- Salvatrice! - chiamò il malato.

Ella gli si accostò presso il viso, per risparmiargli di affaticarsi alzando la voce:

- La cassa... non occorre farla ricoprire di stoffa... Spesa perduta!... Hai capito?

- Che cassa e non cassa! Tu starai bene. Ho fatto accendere una torcia alla Madonna dalla Stella, che ti farà il miracolo! -

Non era vero; ma la pietosa bugia fu di buon augurio.

 

Allorché don Stellario si sentí, come diceva, proprio ritornato dall'altro mondo e mise i piedi a terra, la prima cosa di cui domandò la sorella fu appunto della torcia.

- Si è consumata tutta? -

E sentito come la cosa era andata, se ne rallegrò assai.

- Se ero destinato a morire, sarei morto lo stesso! -

Il giorno che poté uscir di camera volle vedere innanzi tutto il tabbútu, che si trovava appunto a bocca spalancata, come lo aveva lasciato donna Salvatrice nella fretta di sgombrarlo dai fichi secchi.

Don Stellario gli fece tanto di corna, e disse:

- Ora ci rimetteremo i fichi -.

La prima volta che fu in grado d'andare a messa, passando con gran soddisfazione davanti alla bottega di mastro Noce di collo, si fermò su la soglia:

- Salute, compare!

- Oh, oh, chi si vede! Benedicite, signor compare! Avete la ricetta di Paolo Maura? come dicono quelli di Mineo.

- Quale ricetta?

Mastro Croce lasciò di piallare, si cavò gli occhiali, tirò su una presa di tabacco, e restando presso il pancone, riprese:

- Ascoltate bene. Paolo Maura, il poeta, aveva un compare; mettiamo che il compare foste voi. Una volta, come voi, quel compare cadde malato. Paolo Maura andò a visitarlo...

- Voi però, da me non ci siete venuto, brutto compare! - lo interruppe don Stellario.

- Ho avuto torto. Dunque il poeta andò a visitarlo...

- Ho inteso.

- E gli disse: «Compare, ecco una polizzina miracolosa piú di qualunque rimedio». Quell'amico - soggiunse mastro Croce, cambiando tono, - era piú tirchio di voi, e aveva un moscadello peggio del vostro, ma se lo teneva per sé. E ritorno al poeta: «Compare, - continuò - basta tenerla sotto il guanciale. Guai però a leggerla prima di esser guarito! Ammazza, caro compareGuarito, colui volle subito vedere che mai contenesse la polízzina. Indovinate che c'era scritto; indovinate. C'era scritto: «Allegro, allegro, signor compare! Le persone cattive non muoiono mai!» Ah! ah! ah! -

- Avevo giurato di non tornarci piú in questa bottega. Ben mi sta - brontolò don Stellario voltando i tacchi.

Quella conchiusione non se l'aspettava.

 

Scampato cosí dall'orlo della sepoltura, era diventato piú rubizzo, e spesso scherzava intorno alla cassa da morto, che anzi gli aveva portato buona fortuna.

Quell'anno infatti, raccolto straordinario. I coppi dell'olio straboccavano; i recipienti del vino pure, fino all'ultimo caratello, tanto che era occorso comprare un'altra botte, di seconda mano, non volendo spandere il mosto per le vie. I cannicci di grano poi minacciavano di scoppiare nel magazzino: fave, cicerca, fagioli, carrubbe, ceci ammonticchiati negli angoli, in mezzo, da per tutto; non si poteva fare un passo senza calpestare la grazia di Dio.

- Hai visto, sciocca? Hai visto? - egli diceva alla sorella che si mostrava di tutt'altro umore.

- La cassa è dunque destinata per me! - pensava spesso donna Salvatrice.

Talvolta pareva, sto per dire, che ella volesse prendersela col Santissimo Salvatore e con la Madonna dalla Stella, perché non avevano lasciato correre quando suo fratello, arrivato proprio all'orlo della sepoltura, con viatico ed estrema unzione, si era bell'e rassegnato a morire; cattivo pensiero, che le passava per la mente quasi senza che ella ne avesse piena coscienza. Piú ella invecchiava, e piú s'aggrappava alla vita; e piú le veniva in uggia quella cassaccia ripiena di fichi secchi, che faceva ingombro, stesa nel camerone.

- Portiamola in soffitta - disse una volta al fratello.

- , perché i topi si rosichino lassú cassa e fichi! - rispose don Stellario.

Donna Salvatrice però si era fissata di non volerla piú ; e tornava a insistere:

- Portiamola in soffitta; qui impiccia troppo.

- Qui si può tirar di scherma! - replicava il fratello che non capiva quella insistenza, a suo modo di vedere, irragionevole.

E la picca lo faceva spropositare, perché nel camerone c'era affastellata tanta e tanta roba, che bisognava badar bene, attraversandolo, per non spezzarsi una gamba.

Donna Salvatrice fu piú piccosa. Approfittando d'una gita in campagna del fratello, vuotò in fretta la cassa - aveva ribrezzo fino a toccarla - e chiamò comare Stella perché le desse una mano.

- Ci vorrebbe un uomo - disse la vecchia.

- È leggiera. Su, su! -

Dopo una ventina di fermate e di rifiatate, arrivarono in soffitta, grondanti di sudore, ansimanti, stracche morte. Donna Salvatrice, bevuto un po' di vino, ne diede un dito anche a comare Stella, e questa generosità parve alla poveraccia un portento.

- Ah! -

La sorella di don Stellario si era sentita allargare il petto, non vedendo piú nel camerone la cassaccia del mal augurio; quasi, portato via il tabbútu, ella non dovesse piú morire, mai piú!

- Addio fichi! - esclamò malinconicamente don Stellario quando si accorse del trasporto.

 

In che modo avere tristi pensieri con tutta quella gente che, da una settimana, andava e veniva per la vendita all'ingrosso del vino, dei grani e del sommacco; con tutti quei quattrini, bianchi e dagli occhi rossi, che piovevano in casa da non dare neppure il tempo di contarli, metterli dentro i sacchetti e nasconderli qua e , prima di seppellirli insieme con gli altri, nella buca dietro la botte di san Francesco?

Cola Nasca faceva viaggi col carro carico di barili; e i venditori di sale d'Augusta, spacciata la merce per le vie del paese, affluivano a insaccare il grano, ingombrando il vicolo con le loro salmerie di muli, urlando, bestemmiando, mentre don Stellario sorvegliava il misuratore, e donna Salvatrice e comare Stella, con le granate, s'affaticavano attorno perché non andasse perduto neanche un chicco di farro o di grano marzuolo.

Un giorno Cola Nasca era venuto coi carretti per vuotare, in una sola volta, la botte di san Francesco. Donna Salvatrice stava nella dispensa fin dall'alba, seduta in un canto presso la botte, con la tacca in una mano, e nell'altra il coltellino dal manico di ferro, da due soldi, per non farsi rubare nel conto da quell'imbroglione. A ogni sedici mezzine spillate, ella faceva un'incisione su la tacca di ferula lisciata e divisa in due, perché poi il Nasca prendesse la sua metà. Cosí non potevano sbagliare.

Don Stellario appariva di tanto in tanto, tutto impolverato, e domandava:

- A che punto siamo?

- Otto salme; dieci salme.

- Lassú abbiamo quasi finito. Rimangono soltanto i ceci a insaccare... Ah, Madonna dalla Stella! -

Egli aveva visto donna Salvatrice impallidire, stralunare gli occhi e piegare il capo da un lato; sarebbe cascata dalla seggiola, se Cola Nasca non l'avesse sorretta, gridando:

- Signora! Signora!...

- Niente! Niente!... Mancanza per debolezza... Tappa il cocchiume, Cola... Salvatrice!... Sorella mia! -

Le strofinava le mani e le tempia per farla rinvenire, chiamandola e scuotendole ora un braccio, ora l'altro.

- Non è niente!... Salvatrice!... Tappa il cocchiume, Cola -.

Donna Salvatrice, bianca come un cencio lavato, non rinveniva, non dava segno di vita.

- Portiamola via di qui - disse il Nasca. - Sarà stato l'odore acuto del vino. Povera signora! -

 

Invece le era scoppiata un'arteria, che non le aveva dato nemmeno il tempo di dire: Gesú! Don Stellario aggiravasi per le stanze dandosi pugni su la testa, non sapendo persuadersi di quella gran disgrazia piombatagli addosso cosí all'improvviso; e non voleva neppure affacciarsi nella camera della morta, quasi per continuare a credere che vivesse tuttavia. Pure, a sera inoltrata, si ricordò nella cassa che bisognava vuotare; e salí in soffitta, solo, con un lumicino che pareva facesse piú buio.

- Ah!... Ah, povera sorella mia!... Era destinata per te! -

E a ogni filza di fichi secchi che metteva dentro il sacco portato seco a posta, ripeteva quella nenia scuotendo il capo, senza una lagrima, con tono di voce che pareva canzonatura e non era:

- Ah!... Ah, povera sorella mia! -

La mattina quando comare Stella venne a dirgli in camera, tutta atterrita: - Non c'entra! - Don Stellario, a primo colpo, non capí; e le spalancò in viso gli occhi stralunati, senza muoversi dalla seggiola, con le mani sui ginocchi.

- Sissignore! Non c'entra!... - ripeté singhiozzando la donna...

Don Stellario scattò:

- Non c'entra?... Bestia!... In quella cassa? -

Gli pareva un'enormità. E agitandole convulsamente le mani davanti al viso, le ripeteva:

- Bestia!... In quella cassa non entra?

- L'ha detto il becchino -.

Non ci mancava altro!

- Possibile?... In quella cassa?...

- È un po' stretta e corta, signore mio.

- Tu sei piú bestia di tutti! - urlò don Stellario al becchino.

Tremava da capo a piedi, diventato di bragia dalla rabbia.

- Te l'ha detto mastro Noce di collo, eh? Levati di torno, bestia! C'entreresti anche te!... Bestia! Bestione!... -

E si slanciò, spinto dal furore. Per un attimo esitò in faccia del cadavere che non poteva entrare nella cassa; poi cominciò a calcarlo con gran cautela, quasi per non fargli male:

- Benedetta da Dio! Benedetta da Dio! - balbettava. - Eppure devi entrarci, sorella mia!... Devi entrarci! -

Calcava, calcava, abbassando il coperchio per prova.

- Benedetta da Dio, devi entrarci!... Ecco! Ecco, se c'entra, bestione! - esclamò rivolto al becchino - Benedetta da Dio!... Requie materna! -

E, data una girata alla chiave della serratura, si buttò ginocchioni davanti alla cassa, piagnucolando il suo latino:

- Requie materna! Riscatta in pace! -

 

Roma, novembre 1889.


 

 

 


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