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VII
- I sogni? - rispose il dottore. - Se dovessi dire la mia opinione, vi farei strabiliare.
- Ce la dica! Ci ha fatto strabiliare tante volte, che, una di piú, una di meno, non conta nulla!
- Lo so, caro avvocato, - rispose il dottore - loro credono che io mi diverta a raccontare fandonie ogni volta che metto fuori una delle mie storielle. Ma, se io scrivessi le mie memorie - e queste storielle, infine, non sono altro che memorie parlate - vedreste che gli scienziati se ne impossesserebbero e darebbero valore di documenti ai fatti narrati. Qui però non posso pretendere che lor signori li prendano sul serio. È assai che mi facciano l'onore di stare a sentirmi. Sono persone educate, sanno che ai vecchi come me si deve deferenza e rispetto, e mi lasciano dire. lo non credo di aver mai abusato della loro cortesia; le mie storielle arrivano sempre a proposito di qualche soggetto della conversazione, e non sono mai tanto lunghe da stancare.
- Eh, via! Com'è malinconico questa sera! - lo interruppe la baronessa Lanari. - Noi lo ascoltiamo perché lo stare a sentirlo ci fa gran piacere. Dunque, i sogni secondo lei...
- Giacché si vuol sapere la mia opinione...
- Ce la dirà con una storiella!
- Anche con una storiella, caro avvocato! E, innanzi tutto, contro l'opinione comune, affermerò che, dormendo, noi sogniamo sempre, anche quando non abbiamo nessun ricordo di aver sognato. Il sogno differisce dalla realtà in questo soltanto: è un'altra realtà. E piú bella, piú libera, piú reale aggiungo, non ostante il suo risolino di compassione, avvocato.
- Come piú reale? - lo interruppe questi. - Parecchie volte mi son sognato di essere ferito, di morire, e mi sono svegliato vivo e sano!
- Ma di là, nella vita del sogno è stato ferito davvero; ma di là, nella vita del sogno, è morto davvero. E quando, tra cento anni, se le fa piacere, morrà qui, in questa realtà, in questa natura, forse si desterà nell'altra, precisamente come da un sogno, e dirà: «Che stranezza! Mi era parso di morire! Come sembrano veri certi sogni!» Lei ha troppo fiducia nei suoi sensi; si figura che non lo ingannino. Ma sappia che la scienza non ha ancora provato che quel che noi vediamo e tocchiamo sia precisamente quale noi crediamo di vederlo e di toccarlo. L'enimma sta in questa essenza che noi chiamiamo spirito e non sappiamo affatto che cosa sia. Egli spesso, nel sogno, vede chiarissimo il futuro; scioglie problemi che, sveglio, non era riuscito a distrigare, crea opere d'arte che, sveglio, era incapace di creare. Piú realtà di questa vuole lei? Ma è inutile discutere. Il giovane viennese di cui voglio parlare è una prova evidentissima di quel che sostengo io.
Abitavamo nella stessa casa in due stanze, l'una di faccia all'altra; povere stanze a un quarto piano, appena appena mobiliate, ma silenziose e piene di luce; quasi due celle di convento. Saputo che io studiavo medicina, un giorno venne a consultarmi intorno a certo mal di stomaco che gli dava gran fastidio. Era biondo, bianco, esile e di una timidità infantile. Gli volli subito bene. Egli si meravigliò che uno scienziato, diceva lui, si interessasse molto di musica e di musica sacra. Giacché Volgango Brauchbar si occupava soltanto di musica sacra. Aveva su questo argomento una teorica tutta sua, mistica, elevatissima. Secondo essa, la piú alta espressione musicale si poteva raggiungere soltanto nei soliloqui dell'anima pregante, invocante Dio. E per ciò non studiava altro che i grandi maestri italiani e Bach, il suo Bach, come lo chiamava. Allora io ero materialista, ateo, e quei soliloqui dell'anima pregante e invocante Dio, mi facevano sorridere, con grandissima afflizione del biondo Volgango; ma gustavo infinitamente le sue meravigliose esecuzioni; e ammiravo i pezzi di sua fattura che egli si compiaceva di sottomettere al mio giudizio. Spesso spesso però non finiva di sonarli; s'interrompeva, scoraggiato; e non andava piú avanti.
«No, no! Non è quel che intravedo. C'è ancora troppa sensualità, troppa materialità in queste note. Non riuscirò; non farò niente di buono!»
Ed era inutile che gli dicessi sinceramente:
«Anzi! Anzi! Vedete? lo, che non credo, sono commosso. Mi avete quasi costretto a pregare insieme con voi... Che pretendete di piú?»
«La mia disgrazia - mi confessò un giorno, - proviene dallo stato del mio cuore. Amo, riamato!»
«Per l'arte, sí. Ma come fare?»
«Io v'invidio».
«Se potessi strapparmi il cuore!»
«Sposerete presto?»
«Tra sei mesi».
E quel tedesco biondo, mezzo anemico, timido come un fanciullo, si era innamorato di una giovane italiana di forme giunoniche, fior di bellezza e di salute, che rideva sempre, e che alla musica sacra del suo fidanzato preferiva i valzer degli Strauss e le canzonette napoletane. Mai la teorica dei contrasti, che si completano a vicenda, aveva trovato nella vita una piú chiara conferma.
Io passavo le giornate all'università e all'ospedale, e Volgango era libero di sonare da mattina a sera senza timore di disturbarmi. Nei giorni di vacanza però mi piaceva di andare a passare qualche ora nella sua stanza a discutere, a sentirlo sonare - bisognava pregarlo - a ricevere le confidenze del suo amore, che non era meno ideale della sua musica. Io, che allora correvo strenuamente dietro le serve e le sartine, lo compiangevo, e glielo dicevo, ridendo.
Una notte, cosa affatto insolita - era d'inverno e faceva freddo intensissimo - ecco il pianoforte di Volgango che rompe il gran silenzio della casa e mi desta nel meglio del sonno. Sto ad ascoltare, mezzo insonnolito, e mi metto a sedere sul letto, vinto dalla delizia della musica. Il pianoforte tace per alcuni minuti, poi riprende lo stesso pezzo. L'impressione è cosí viva, cosí forte, cosí meravigliosa, che salto già dal letto, mi vesto in fretta, e picchio all'uscio del mio amico
Indietreggiai quando venne ad aprirmi. A quell'ora, con quel freddo, egli era in mutande e aveva la faccia cosí sconvolta e gli occhi cosí sbalorditi, da metter paura.
«Scusate! - balbettò. - Vi ho svegliato... Scusate... Ah, se sapeste, caro amico! Se sapeste!»
«Mi direte tutto, ma prima vestitevi; copritevi bene, se non volete prendere un malanno».
E vestendosi, mi raccontava:
«Ho fatto un sogno!... Mi pareva di essere in mezzo a una fitta nebbia, illuminata da luce bianca bianca, assai piú bianca della luce lunare. Ero atterrito di trovarmi cosí sperduto, e non osavo di fare un passo, quando tutt'a a un tratto una dolcissima voce mi disse, piano, all'orecchio: "Ascolta!"
Un coro di voci femminili; prima lento, quasi lontano, poi incalzante, incalzante, con una melodia larga, ma piena di fremiti, di lagrime... Oh! Oh! Una cosa ineffabile! Avevo coscienza di sognare; e ascoltando intentamente, dicevo tra me e me: "Potessi ricordarmene sveglio! Potessi trascriverlo! Basterebbe a immortalarmi! Signore, Signore, fate che io me ne ricordi! Che non ne perda una nota!" E intanto il coro sembrava allontanarsi, diveniva piú fievole, si estingueva quasi in un sospiro. Ma ecco uno scatto di gioia, un sussulto, un inno di liberazione, di redenzione, di trionfo! Tutte quelle voci lo lanciavano per lo spazio, tra la nebbia che nascondeva ogni forma, via per l'infinito, Nessuna musica umana aveva mai attinto quell'altezza di espressione e di forza. Me la sentivo vibrare dentro, dalla testa ai piedi, come se tutte quelle voci scaturissero dai miei nervi in tumulto, dalle mie fibre, dal mio sangue, dal mio spirito... E la sensazione era cosí forte che credevo di doverne morire.
Quando il coro, all'improvviso tacque con uno schianto, io pregavo insistentemente: "Signore, Signore, fate che me ne ricordi svegliandomi!" E quella dolcissima voce tornò a parlarmi, basso, all'orecchio: "Ricorderai la prima pare soltanto. Se ricordassi anche la seconda, morresti!" Mi destai con un gran scossone, tremante, quasi i miei nervi, simili a corde di pianoforte, ancora fremessero delle ultime ondulazioni di quel coro divino».
«E, sveglio, ve ne siete ricordato, e vi siete messo a sonare, capisco».
«La prima parte soltanto! Dell'altra mi è rimasta una sensazione confusa, indeterminata, indefinibile, inesprimibile! Ah! Vorrei ricordarmene...»
«Anche a costo di morire! Ho tentato, ma invano!»
E si slanciò verso il pianoforte, e ricominciò a sonare «Udite! Udite!»
Pareva trasfigurato! Mai le sue dita avevano tratto dal pianoforte suoni cosí meravigliosi.
«È il vostro capolavoro!» gli dissi.
«Mio?»
«Di chi dunque?»
Qualche giorno dopo, Volgango mi confidò che non aveva piú cercato di rammentarsi. Era anzi atterrito della possibilità di rammentare la sublime seconda parte del coro. Aveva paura di morire.
Trascrisse infatti la prima, ma non la suonò piú. Non ne parlò con nessuno, neppure con la sua fidanzata. Aveva sempre nell'orecchio la dolcissima voce da cui gli era stato sussurrato: "Se ricordassi anche la seconda parte, morresti!" Amava e non voleva morire. Io lo punzecchiavo per questa sua ingenua paura.
«Siete superstizioso quanto un latino!» gli dicevo.
Egli alzava le spalle e sorrideva tristamente.
Mi aveva invitato alle sue nozze. Era raggiante di felicità quella sera, in muta adorazione attorno alla sposa, con gli occhi quasi notanti nelle lagrime di tenerezza rattenute a stento.
Aveva composto un epitalamio musicale, e fu pregato di sonarlo.
Io mi ero seduto accanto a lui per voltargli i fogli della musica. Terminato quel pezzo, tra fragorosi applausi degli astanti, egli non si alzò, ma riprese a preludiare. Si fece subito silenzio. E, con mia grande meraviglia, udii le prime battute del coro da lui sognato.
«Perché?» gli dissi sottovoce, vedendolo impallidire. Con gli occhi spalancati enormemente e fissi davanti a sé, quasi non vedessero, egli sonava, sonava, assorto, impallidendo sempre piú. Perline di sudore cominciarono a spuntargli su la fronte e su le tempia; il respiro diveniva affannato, ansimante.
«Smettete, Volgango; vi fa male!»
«Oh Dio! Oh Dio! - mi disse con un fil di voce. - Ricordo!... Oh Dio!»
E nello stesso tempo scattò dai tasti del pianoforte l'inno di gioia, di liberazione, di redenzione, di trionfo di cui egli mi aveva parlato. Tutti gli invitati si erano levati in piedi, affollandosi attorno a lui, attratti dal fascino di quel miracolo musicale...
Io avrei voluto afferrar le mani di Volgango, impedirgli di sonare, ma ero ammaliato anch'io, incredulo e nello stesso tempo ansioso di vedere quel che ne sarebbe seguito.
Con lo schianto delle ultime note, Volgango Brauchbar reclinava la testa sul pianoforte. Era morto! -