Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Racconti
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TOMO II

IL DECAMERONCINO

X GIORNATA DECIMA UN UOMO FELICE

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X

 

GIORNATA DECIMA

 

UN UOMO FELICE

 

- Singolarissimo uomo! - riprese il dottor Maggioli. - Ci eravamo conosciuti all'università, egli studente di lettere e filosofia, io di medicina. Perché, quasi povero, avesse scelto le lettere e la filosofia che avrebbero potuto condurlo soltanto a una cattedra di liceo, e, tardi, di università, se fosse riuscito una cima, egli me lo spiegò una mattina che era venuto ad assistere a una lezione di anatomia.

«Tu qui!» esclamai, meravigliato di vedermelo accanto nella prima fila dell'emiciclo, proprio davanti alla tavola di marmo dove giaceva, coperto da un lenzuolo, il cadavere da sezionare.

«Per curiosità - rispose. - Ho saputo che oggi avete il cadavere di una bella ragazza. Voglio provare la sensazione di vedervelo squartare».

«Scapperai, nauseato, al primo colpo di bisturi del professore».

«Sono già abituato. L'anno scorso ho assistito a parecchie lezioni di anatomia; avevo la tentazione di lasciare le lettere per la medicina».

«Avresti fatto bene. È una professione piú rimuneratrice».

«Pensavo appunto a questo. Mi ha trattenuto una riflessione».

«Quale?»

«Con la cattiva sorte che mi pesa addosso, ammazzerei tanti malati, che presto non troverei nemmeno un cane per cliente. Invece, con le lettere e la filosofia, farò degli asini, dei prosuntuosi, scribacchini o sognatori, parolai venditori di fumo senz'arrosto, e sarà poco male».

E per ciò si era laureato in lettere e filosofia due anni dopo.

Poi lo avevo perduto di vista. L'ho riveduto poche settimane fa, vecchio arzillo e allegro, quantunque quasi povero come quand'era studente.

«Che fai?» gli dissi.

«Niente; mi ostino a vivere, al pari di te. Ci ho preso gusto».

«Eri professore, se non m'inganno».

«Godo una misera pensione. Mi basta».

«Filosofo anche nella pratica

«Soprattutto nella pratica. Sono felice».

«È la prima volta che sento dir questo da un uomo».

«La mia felicità è cosí particolare, che non posso augurartene una simile

«Cioè?»

«Sono il piú gran disgraziato di questo mondo, e per ciò mi stimo felice. Da che son nato, non me n'è andata mai bene neppur una».

«Non capisco...»

«Capirai subito, quando ti avrò esposto la mia filosofia della felicità. Hai mezz'ora da concedermi

«Faremo colazione insieme».

«Grazie. Io mangio una sola volta al giorno, la sera».

«Berrai almeno un caffè».

«Non prendo caffè».

«Un bicchiere di marsala».

«Non bevo vino di nessuna sorta».

«Parlerai mentre ingoierò un boccone alla lesta».

«Volentieri, quantunque avrei preferito di passeggiare».

«Passeggeremo dopo».

Si sedette di rimpetto a me, nell'angolo appartato della trattoria dove l'avevo condotto.

«Dunque?» esclamai, appena ordinata la solita frugale colazione.

«Nella mia qualità di filosofo - prese a dire sorridendo - dovrei cominciare con una definizione della felicità in generale; te la risparmio. La mia è consistita fin oggi nella certezza di vivere lungamente, perché soltanto i disgraziati come me non muoiono mai. Io sono quasi sicuro di arrivare ai cento anni. E la vita mi sembra cosí prezioso tesoro, che nessun sacrificio può essere giudicato abbastanza elevato per conquistarlo e mantenersene il possesso. Riguardo a questo mondo, abbiamo sufficienti indizi della sua realtà. Dell'altro non sappiamo niente. Godere quaggiù non è facile. Avere almeno la certezza di vivere a lungo, ecco la felicità. Hai tu mai notato come i disgraziati siano di pelle dura? Essere disgraziati val meglio di avere in tasca una delle tante assicurazioni su la vita, che si dovrebbero chiamare piuttosto assicurazioni della morte. I supposti felici, coloro che toccano il colmo delle loro aspirazioni, dei loro desideri, delle loro speranze, muoiono quasi subito appena raggiunto lo scopo. Se, per caso, non muoiono, ricominciano a desiderare nuovamente, con maggior intensità, a sperare con più forti illusioni, cioè a tormentarsi, ad affaticarsi, a soffrire ansie e timori peggio di prima. Quando i disgraziati che non ne indovinano una si convinceranno del gran compenso che loro accordò la natura, facendoli nascere sotto una cattiva stella ma con forza di vitalità da resistere a qualunque urto, non sentiranno più invidia di coloro che essi considerano in miglior condizione di loro. Amare però la vita per se stessa non è da tutti».

«Non tutti possono essere filosofi - lo interruppi - e pascersi di paradossi

Ridevo.

«Sai tu che significa paradosso? Verità che ha l'apparenza di non esser tale» egli rispose gravemente.

«Credevo significasse: stramberia che vorrebbe darsi apparenza di verità».

«È errore comune... Dunque fino ai trent'anni io pensavo come gli altri. Vedendo che non me n'andava una sola pel giusto verso, mi arrabbiavo, mi disperavo. Una volta, dopo una gran delusione, tentai anche di suicidarmi. Avevo preso ogni precauzione per non sbagliare nel finirla. Tu non lo crederai; mi andò a male anche il suicidio per eccesso di precauzioni. Avevo ingoiato cosí forte dose d'arsenico da ammazzare non un uomo ma dieci cavalli. Il mio stomaco si ribellò, rigettò il veleno quasi subito, prima di esserne intaccato. Anzi, a quel che mi dissero i dottori, se ne assimilò tanto quanto bastò a guarirmi da una malattia viscerale che mi infastidiva e a farmi anche ingrassare. Ridi? È stato proprio cosí. Allora mi son rassegnato. Ne ho viste di tutti i colori, ne ho gustate di tutti i sapori. Quando pensavo che il destino doveva ormai esser stanco di prendersela con me, scoprivo, da a poco, che ne aveva già trovata una nova di zecca, assolutamente imprevedibile.

"Non sono riuscito ad ammazzarmi con l'arsenico, mi ammazzeranno - speravo - la bile, i dispiaceri!..." Niente!

Muscoli di acciaio, stomaco capace di digerire i ciottoli meglio di quello degli struzzi. E intanto disdette sopra disdette. Il proverbio: se si mettesse a fare il cappellaio, tutti gli uomini nascerebbero senza testa, sembrava di essere inventato unicamente per me. Dissi:

"Infine, l'aver studiato filosofia non deve soltanto servirmi per insegnarla agli scolari." E mi misi a filosofare intorno ai casi miei. Non mi parvero accidentali, dopo che intrapresi a studiarli anche negli altri.

"Qui sotto c'è una legge! - esclamai. - Bisogna scoprirla!"

E l'ho scoperta: legge di compensazione. Mirabile legge! Occorre di essere disgraziati per raggiungere l'estremo possibile limite della vita. Ti par poco? E d'allora in poi - per me che apprezzo la vita per se stessa - le disgrazie son diventate una benedizione di Dio. Ogni volta che intraprendevo un'impresa - qualcosa bisogna fare a questo mondo! - la mia ansietà era al rovescio di quella che sarebbe stata per gli altri:

"Se, per sventura, riuscissi!"

Fortunatamente non riuscivo. E cosí, di disgrazia in disgrazia, sono arrivato a ottantanove anni. Trovami uno dei pretesi felici che sia arrivato a quest'età».

«Io» risposi trionfalmente.

«Ebbene, eccezione che conferma la regola. Ma no; sei un disgraziato anche tu! A quest'ora, con la tua scienza, con la tua operosità dovresti essere milionario, come certi tuoi colleghi, che non valgono neppure un terzo di quel che tu vali».

«Oh! oh!» feci io.

«Ecco: la modestia è stata la tua disgrazia! Non era possibile che la legge fallisse

E rideva e si stropicciava allegramente le mani.

«Andiamo a fare una bella passeggiata! - dissi, levandomi da tavola. - Viva aprile! Viva la primavera

«, è stata la tua disgrazia! - egli ripeté assorto nella sua idea. - La legge non fallisce».

Si fermò su la soglia, guardando un pezzetto di carta per terra. Poi si chinò, e prese con due dita quel fogliolino quadrato. V'erano scritti tre numeri.

«Ho trovato piú di venti volte pezzetti di carta come questo, con tre, quattro, cinque numeri, e li ho sempre giocati al lotto, mettendovi su tutto quel che avevo in tasca. Due miei amici sono arricchiti, da un giorno all'altro, facendo cosí; e son morti tutti e due senza poter godersi l'improvvisa fortuna. Ho dieci lire; me ne serbo cinque per vivere due giorni. Siamo al venticinque del mese; tra due giorni esigerò la pensione. Mi è piaciuto sempre di fare questa sfida al destino! Ed ho sempre vinto io, perdendo, s'intende. Vediamo: 52, 47, 21! Nemmeno uno di questi numeri uscirà sabato prossimo, in tutte le ruote del regno

E, piegatolo accuratamente, si mise in tasca il fogliolino. Il mio amico filosofo aveva proprio scoperto, com'egli affermava, una legge? Sembra di si. Due giorni dopo, s'era fermato tutto a un tratto per guardare la tabella di un botteghino del lotto.

«52, 47, 21! Oh, Dioesclamò.

E indietreggiando, indietreggiando, come davanti all'annunzio d'una grande disgrazia, prima che io potessi afferrarlo per un braccio, era travolto sotto le ruote di una carrozza che, veniva di corsa.

Quando potei sollevarlo, pesto e sanguinante, con l'aiuto di due altre persone, egli respirava appena, aveva perduto i sensi. Rinvenne un istante nella farmacia vicina, dove l'avevamo trasportato.

«La legge non falliscebalbettò, riaprendo gli occhi. E li chiuse per sempre! -

 

 

 



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