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XI
Il dottor Maggioli era stato proprio meraviglioso. Io non ho l'audacia di trascrivere la sua storiella di quella sera. Il maggior pregio di essa non consisteva tanto nel soggetto e nella forma, quanto, e soprattutto, nell'espressione del viso, nell'efficacia dell'accento e del gesto, che avevano trasformato il narratore in attore e, direi quasi, in protagonista.
- Ah! - gli dissi, stringendogli la mano. - Voi potreste essere un gran novelliere, se vi decideste a fare la dolce fatica di scrivere quel che vi piace di narrare a voce, con immenso piacere di chi vi ascolta.
- Dio me ne guardi, caro amico! - egli rispose.
E aveva un'aria cosí atterrita, che non potei far a meno di insistere:
- Perché?
- Perché ho provato, una sola volta. Oh, non ritenterei per tutto l'oro del mondo!
- Eh, via!
- Sí, sí, per tutto l'oro del mondo!
- Che vi è mai accaduto?
- Una cosa incredibile.
- Sentiamo.
- Voi mi costringete a ricordare i piú tristi giorni della mia vita!
- Oh!
- Molti anni fa, precisamente come voi, un amico mi disse: «Perché non scrivete qualcuna di queste vostre novelle? Sarebbero lette con lo stesso piacere con cui sono ascoltate». Vah! Grattate l'uomo piú modesto e troverete, sotto, un vanitoso; per ciò mi lasciai lusingare.
Io, sappiatelo, non ho mai riflettuto un istante intorno al soggetto delle mie storielle. Esso mi fiorisce nella mente cosí all'improvviso, che io sono il primo ad esserne stupito. Una parola, un accenno... e mi sento costretto a raccontare. Che cosa? Non lo so neppur io cominciando; ma, dopo il po' di esordio destinato ad attirare l'attenzione degli uditori, l'immaginazione, tutt'a un tratto, mi si schiarisce; e veggo i miei personaggi, osservo i loro atti, odo la loro voce, quasi avvenga in me una semplice operazione di memoria, piú che di altro.
Spesso, quel che mi dà la spinta è un concetto astratto, un principio morale, o anche una nozione scientifica. Per qual processo essi mi si trasmutano subito in persone vive, e con tale rapidità da farmi dimenticare il lor punto di origine? Non saprei dirlo, né mi son mai curato di saperlo. Ho creduto anzi, per un pezzo, che questo fenomeno avvenisse in tutti e fosse cosa ordinaria. Noi respiriamo, digeriamo, adopriamo i nostri sensi; pensiamo forse a cavarci la curiosità di sapere in che modo ciò avvenga? Lasciamo che vi perdano il lor tempo gli scienziati; ci basta poter respirare, digerire, adoprare liberamente i nostri organi. Quella esplosione di storielle - proprio, esplosione! - mi sembrava dunque un fatto comune, ed io mi divertivo ad ascoltarmi, al pari degli altri. La novella che cosí mi usciva dalle labbra era una novità anche per me.
- Che? Vorreste darmi ad intendere...?
- La piú schietta verità. A furia di sentirmi applaudire, a furia di osservare la meraviglia dei miei uditori, ho dovuto poi convincermi che ero dotato d'una facoltà d'improvvisazione... in prosa, non tanto comune e ordinaria quanto prima credevo. Non dirò che io l'abbia coltivata di proposito; ma esercitandola, continuamente e volentieri, ogni volta che mi si presentava l'occasione - non posso resistere, debbo raccontare per forza - essa si è talmente educata, aumentata, ed è divenuta cosí facile e cosí varia, che, forse formerebbe la fortuna di un novelliere di professione.
- Forse? Certamente potreste dire.
- Purché non gli accadesse quel che poi è accaduto a me!
- Ma, insomma, che cosa?
- Una cosa incredibile - ripeté il dottore. - Quando la vanità se ne mescola, noi ci riduciamo impazienti come i bambini. E quel giorno tornando a casa, pensavo: «Perché, infine, non dovrei scrivere le mie novelle? Mi riescono cosí facilmente! E piacciono tanto!» Non vedevo l'ora di cominciare un esperimento che solleticava il mio amor proprio, anche per la ragione che mi era stato suggerito da un altro, e a me non sarebbe mai passato per la testa.
Voi immaginate, senza dubbio, che io dovetti soltanto sedermi a tavolino e prendere un quaderno di carta e la penna per scrivere, di foga, senza esitazione alcuna, quasi raccontassi, la mia prima novella... Lo credevo anch'io, caro amico!
- Capisco - lo interruppi. - La novità dell'atto, la trepidazione... Ma poco dopo...
- Né quel giorno, né parecchi altri appresso. Ero stato assalito da scrupoli letterari, dalla paura del pubblico, io, io che pure solevo improvvisare una, due novelle davanti a un eletto uditorio, formato di colte e spiritose signore, di professori, di letterati, di artisti, di eleganti uomini di mondo, senza punto badare alla loro qualità, imperturbabile, con tale faccia tosta da destare invidia in un ciarlatano. In quel tempo era in gran moda il verismo o naturalismo che voglia dirsi, assai piú che non adesso. Dovevo essere, pensavo, verista naturalista, anch'io; e osservare, studiare, dipingere minuziosamente la realtà. In che modo? Non sapevo da che parte rifarmi. E rimanevo là, con la penna tra le dita, tormentandomi i baffi e la barba allora biondi, stropicciandomi la fronte, quasi il calore della mano dovesse farvi scaturire le idee.
Una malaugurata ispirazione mi balenò nella mente: non avevo, a portata di mano, al secondo piano della casa dove abitavo, quella coppia di giovani che facevano all'amore da un anno? I parenti della ragazza chiudevano un occhio, anche tutti e due, nelle serate in cui ricevevano poche famiglie di amici. Vi andavo pure io, qualche volta, insistentemente invitato, e mi divertivo a osservare le manovre dei due innamorati per darsi una stretta di mano, per susurrarsi tenere paroline in questo o quel canto del salotto. Il babbo e la mamma di lui non mancavano mai; sembravano contenti anche loro che quell'amoretto prendesse piede. La ragazza, figlia unica, aveva una buona dote; egli si sarebbe laureato dottore fra qualche anno, e avrebbe ereditato la clientela del padre, medico un po' all'antica e pieno di acciacchi... Come non ci avevo pensato subito?
E imbastii, faticosamente, sí, il piano della mia novella; infine! E non meno faticosamente scrissi le prime cartelle.
Ma dopo che ebbi buttato giú quel che avevo tante volte osservato, non seppi andare piú avanti. Intanto non pensavo ad altro, agitato per la condotta di quel giovanotto che non si curava di fare ai parenti della ragazza la richiesta in piena regola; intendo del giovanotto della mia novella. Giacché, modificando un po' la realtà, io volevo fare di quel personaggio un cattivo soggetto, un seduttore di bassa lega; e bisognava mettere in guardia almeno la mamma di lei.
Una mattina... Avevo ideato che un brav'uomo, amico di quella famiglia, si assumesse il difficile incarico di aprire gli occhi alla signora. E da due giorni mi sforzavo inutilmente di entrare, come si dice, nella pelle del bravo omo, d'indovinare la scena, il dialogo che avrebbero dovuto aver luogo tra lui e quella signora. Se avessi dovuto raccontare in conversazione questa scena, il dialogo mi sarebbe uscito dalle labbra quasi senza che io me ne accorgessi. Ora, invece, mi sentivo impacciato dal maledetto verismo o naturalismo, dalla maledettissima teorica dell'osservazione diretta. Avevo io mai badato a queste sciocchezze? E in quei giorni me ne sentivo oppresso, ossesso; e non vivevo piú, e piú non curavo i miei affari. I fatti da me ideati mi torturavano quasi fossero realtà.
Una mattina, dunque, salendo le scale, investito della parte che colui doveva rappresentare, tiro il campanello del secondo piano e mi faccio annunziare alla signora...
Vi figurerete facilmente la scena che accadde!
«Ma voi siete matto, dottore! Mia figlia...? È impossibile!» Mentre la povera signora protestava, mezza svenuta, con le lagrime agli occhi, atterrita dalla terribile rivelazione da me fattale per conto del mio brav'omo, io gongolavo di assistere a qualcosa che non avrei saputo immaginare, felice di raccogliere frasi, brani di dialogo di efficacia suprema, gridi di dolore, schianti di desolazione che avrebbero dato alla mia novella tale impronta di verità da farla riuscire - e me n'inorgoglivo - un capolavoro!
Soltanto il giorno dopo cominciai a comprendere la stupida enormità che avevo commesso. Ne fui sbalordito. Cercavo di persuadermi che avevo fatto un brutto sogno, quand'ecco il giovanotto, il vivo, il vero, che viene a chiedermi ragione della calunnia con cui avevo tentato di denigrarlo! Balbettavo: «Ecco!... Ecco!...» e additavo le cartelle del manoscritto ammucchiate su la scrivania.
Ci volle del bello e del buono per convincerlo di che si trattava. E dovetti soffrire l'umiliazione di andare assieme con lui dall'afflitta signora e dare schiarimenti e chiedere scuse, senza riuscire compiutamente a scancellare il sospetto che avessi voluto metter male tra le due famiglie, chi sa per quale inconfessabile scopo!
La vanità però ne poté piú del dispiacere che mi aveva colpito.
Tra i personaggi della novella c'era anche una vecchia donna, che faceva da mezzana ai due amanti; e la mia donna, vecchia e sempliciona, mi era servita da modello per foggiare quel personaggio. Io le parlavo degli amori di quei due, quasi ella potesse capirmi. Mi spalancava in viso gli occhi smorti, e protestava forte che lei certi mestieri non li aveva mai praticati... «Tu menti!» le gridai un giorno, investendomi della parte del babbo della ragazza. La povera vecchia scoppiò in pianto dirotto, giurando e spergiurando che non era vero. «Via, via di qua, megera!» Ed era andata via davvero quel giorno, povera vecchina! E si era presentata dalla signora per dirle che l'avevano ingannata, e che lei non sapeva nemmeno che la signorina facesse all'amore. «Di nuovo? Ancora?» esclamò la mamma, furibonda. E ne nacque tal putiferio, ed ebbi una serie di cosí gravi dispiaceri... che, appianata alla meglio ogni cosa, corsi di lancio nel mio studio, feci una manata delle cartelle scritte e andai a ficcarle in fondo a un baule per liberarmi dall'oppressione di quella sciagurata novella. Avrei dovuto buttarle nel fuoco; sarebbe stato piú spiccio. Mah! Le mie viscere paterne non furono capaci di cotanto sacrifizio.
Respirai! Per una settimana credetti di essermi liberato dall'enorme peso che mi gravava sul petto. Una notte, però, nel piú fitto del sonno, mi par di sentirmi scotere da mani che volevano destarmi, e che mi destarono infatti. E subito, appena sveglio, ecco tornarmi alla memoria i due amanti della novella!
Sentii un brivido di orrore. Ricominciavo? Accesi la candela, fumai una sigaretta, sorridendo della strana allucinazione, e mi riaddormentai.
Ma la notte appresso, alla stess'ora, riecco l'impressione di quelle mani che mi scotevano per destarmi; e, appena desto, riecco la figura dei due amanti, che quasi mi sembrava di scorgere nel buio della camera, con l'aria dolente di chi invoca soccorso e pietà:
«O dunque? Ci lascia cosí, né in cielo né in terra; con le mani in mano, in questo stato? Una fine dobbiamo farla, non possiamo rimanere perpetuamente innamorati, e nelle circostanze in cui ha avuto la crudeltà di abbandonarci!»
Mi sentivo ammattire. Capivo che era affare di nervi, di allucinazione proveniente dallo sconvolgimento prodotto in me dai casi in cui mi ero impigliato; e intanto non sapevo come dominarla, come scacciarla!
Voi ridete; vi sembra assurdo che un uomo cosí solidamente imbastito possa essere giunto a tal estremo; ma in questo momento io non invento niente, caro amico!
Quell'idea diventava una fissazione, una persecuzione. Me li sentivo attorno, dovunque, imploranti:
«O dunque? Ci lascia cosí? Né in cielo, né in terra?» Ah! Il pensiero di riprendere in mano la novella mi faceva sudar freddo. Temevo che non dovessero accadermi peggiori complicazioni delle già sofferte; e mandavano al diavolo l'amico che mi aveva soffiato il maligno suggerimento di diventar novelliere.
Finalmente, una notte che non ero riuscito a chiuder occhio, e l'allucinazione aveva preso tale intensità che io vedevo e udivo quei due quasi fossero persone vive, balzai dal letto, in camicia, a piedi scalzi, corsi a cavar fuori dal baule le infami cartelle; e scritta, rapidamente, nell'ultima mezza pagina questa laconica chiusa: «Una pleurite uccise Giulio; il dolore e la febbre tifoidea sopraggiunta uccisero Ernesta!» tracciai con mano convulsa la parola: «Fine!»
Fui liberato, per sempre!
Ed ora voi vorreste che tornassi a tentare? Nemmeno, ve lo giuro, per tutto l'oro del mondo! Il dottor Maggioli si era allontanato, continuando a dir di no coi gesti, di no, di no!
Ebbene, non ho potuto mai sapere con certezza se quella sera egli mi abbia detto la verità o si sia burlato di me con quest'altra improvvisazione.
Non vorrei, però, che l'aver trascritto, alla peggio, queste ed altre sue storielle (ne lascio inedite parecchie) potesse essere creduto una specie di mia vendetta contro il povero dottor Maggioli, e menomarmi l'indulgenza dei lettori del Decameroncino.