Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Racconti
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TOMO II

DELITTO IDEALE

XI NON PREDESTINATO?

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XI

 

NON PREDESTINATO?

 

A Giuseppe Costanzo

 

Io non credo alla fatalità - disse Oddo Remossi - almeno nel modo in cui generalmente s'intende. Per quanto si voglia ingrandire l'azione e l'influenza delle circostanze esteriori ed ereditarie, resta sempre un largo margine dove può trovar posto la libertà individuale. Solamente avviene che noi non ci opponiamo a bastanza a quelle forze, diciamo, nemiche che ci stanno dattorno. Spesso, pur troppo! non ne abbiamo il tempo, né il modo. La vita c'incalza; la stessa civiltà che dovrebbe renderci piú indipendenti e piú liberi, ci costringe a una schiavitú di atti e di pensieri di cui non ci rendiamo mai conto. Oggi nessuno di noi avrebbe il coraggio di soffiarsi il naso con le dita, come il gran cavaliere della Mancia e qualche raro contadino attuale. La schiavitú del fazzoletto vi sembra poca cosa? Ne ridete? Ebbene, tant'altre schiavitú di idee non sono meno ridicole di essa. Rifletteteci un po', e ve ne avvedrete.

- Che c'entra tutto questo con la fatalità? - disse Mazzani.

- C'entra - rispose Remossi - perché noi sogliamo chiamare «fatali» quei fatti dei quali non riusciamo a scorgere la concatenazione e la logica.

- Troppa filosofia e, mi sembra, sprecata a proposito di un avvenimento cosí meschino e comune come quello di cui ragioniamo! Gramoglia aveva parlato senza togliersi di bocca il sigaro gustato beatamente, stando sdraiato su la poltrona, su la «sua» poltrona, da lui chiamata cosí perché ogni volta che si trovava nello studio dell'amico Remossi la voleva per sé, o preferiva di restare in piedi se era già occupata da un'altra persona.

- Secondo te - soggiunse continuando a fumare - io dovrei ribellarmi alla schiavitú della «mia» poltrona che stimo tanto comoda e tanto dolce. Perché?

- Con voialtri è impossibile ragionare! - esclamò Remossi. - Ne volete la prova? Vi racconterò un fatto. È autentico, autenticissimo; non lo invento per comodo della discussione. So già, anticipatamente, il giudizio che ne darete, e sarà la conferma di quel che sostengo.

- Non usciamo però dalla specie di fatti dei mariti fatalmente predestinati... Ce n'è parecchie categorie. Quella di coloro che non hanno occhi per vedere, né orecchie per sentire; quella di coloro che vedono e sentono e si rassegnano al loro destino; quella di coloro che si ribellano inutilmente, giacché un fatto è un fatto e niente può annullarlo dopo che esso è avvenuto. Un marito che ammazza la moglie infedele o l'amante...

- È superfluo che tu balzaccheggi; la Fisiologia del matrimonio l'ho letta anch'io. Che cosa voglio provarvi? Che noi ci siamo appunto resi schiavi di un pregiudizio, o di un sentimento ridotto tale. Non ci sono «predestinati» nel matrimonio, ma, invece, mariti sciocchi, imprevidenti, incuranti, mariti nervosi, irragionevoli, delinquenti...

- Se non è zuppa è pan molle - lo interruppe Mazzani. - Ma è meglio che tu racconti il fatto. Riprenderemo a discutere dopo.

- Eccolo - fece Remossi - coi tre soliti personaggi «Ella», «Egli», «Lui». Dispensatemi dal dire i nomi, quantunque non ci sarebbe niente di male se io li rivelassi. Ma si tratta di un fatto intimo, saputo per caso, e la malvagità umana è tale da poter sospettare che le cose siano andate altrimenti di come io le ho apprese.

- Non sei assolutamente certo, dunque! - disse Gramoglia.

- Certissimo. Non ho conosciuto un uomo piú savio di... (Mi avvedo che bisogna ribattezzare i miei personaggi per evitare confusione) di Roberto Cagli. La natura e le circostanze lo avevano singolarmente dotato. Era quasi ricco, di eccellente famiglia, e bell'uomo per giunta. Aveva studiato molto, senza prendere una professione. Le professioni stimava tiranne, e voleva godersi le fortunate circostanze che gli permettevano di restare indipendente da tutto e da tutti. Soleva dire: «Uomo perfetto è colui che può conservarsi selvaggio in mezzo alla civiltà.» Per lui selvaggio era sinonimo di libero. A trentacinque anni aveva sposato la donna eletta dal suo cuore, bella e colta a bastanza. Vero matrimonio di amore, perché la signorina... Balestri poteva portargli appena un modesto corredo per dote. I primi anni del loro matrimonio erano trascorsi felici, e la felicità, evidentissima, dei due sposi destava ammirazione ed invidia. Nessuno però osava pensare d'intorbidirla. La signora Cagli veniva stimata una di quelle donne che, anche per indole, rimangono superiori a ogni insidia. Ma, pur non essendo diversa la convinzione di suo marito, egli non tralasciava di tenerla d'occhio, di osservarla senza averne l'aria e lasciandole amplissima libertà. Qui entra in scena «lui», il terzo, il serpente tentatore, secondo la leggenda, se può dirsi tale uno che in un certo momento, nel momento piú pericoloso e quasi decisivo, rinunziava alla sua parte: era, naturalmente, il piú intimo amico del marito. Conformità di sentimenti e di idee, oltre a circostanze delle due famiglie, avevano legato Roberto Cagli ad Adolfo Gissi con un'amicizia piú che fraterna sin dai primi anni della loro giovinezza. Avevano studiato insieme, e fatto insieme qualche piccola stravaganza. Il matrimonio dell'uno, che sembrava avesse dovuto rallentare la loro intimità, l'aveva anzi rafforzata. Era un bell'uomo anche Gissi, di carattere gioviale però, e con parola facile e colorita, che formava un po' di contrasto col carattere piú serio e contegnoso del suo amico.

La signora Cagli, da principio, si sentiva quasi intimidita davanti a quell'espansione di allegria che il Gissi metteva nella conversazione ogni volta che veniva a trovarli o che era invitato a pranzo, cosa che accadeva una volta la settimana, a giorno fisso. (Cagli aveva voluto mantenere quella sua abitudine di scapolo). Poi...

Una mattina, non ricordo per quale circostanza, Roberto Cagli era andato dal suo amico, e lo aveva sorpreso occupatissimo a preparare le valige.

«Parti

«Intraprendo un lungo viaggio».

«Come mai non me n'hai detto niente?»

«Sarei venuto ad accomiatarmi questa sera».

«E dove vai

«Non lo so; lontano».

«Che mistero è questo? Hai tu dunque dei segreti per me che per te non ne ho avuti mai?»

Gissi lo guardò negli occhi; anche il suo amico lo guardava intentamente; pareva volessero scrutarsi a vicenda.

«Che ti accade? - disse Cagli. - La nostra amicizia mi il diritto di farti questa domanda con la certezza di ottenere una schietta e sincera risposta».

«Forse non hai bisogno che te la dia» rispose Gissi.

«Non capisco. Commetteresti una indegna azione se non mi dicessi la verità».

«Vi sono cose in questo mondo che non si possono né si devono confidare neppure al piú intimo amico».

«A un intimo amico qualunque, ; non a me».

E tutti e due rimasero interdetti di parlarsi con tanta insolita severità.

«Hai ragioneesclamò Gissi dopo un istante di esitanza. Si passò due o tre volte una mano su la fronte, fece qualche sforzo quasi per trattenere le parole che stavano per sgorgargli dalle labbra, poi, prorompendo, disse:

«Parto perché... amo tua moglie

«Ella lo sadomandò tranquillamente Cagli.

«» rispose Gissi, chinando dolorosamente la fronte.

«Non c'è altro?...»

«Oh! Sono gentiluomo e soprattutto amico; non dovresti dubitarne un solo momento».

«Non ne ho dubitato, e non ne dubito. Mi ero accorto che mia moglie cominciava ad amarti. È un'anima nobile ed onesta anche lei. Di che cosa avete paura tutti e due?»

«Della nostra fragilità. Come non intendi...?»

«La tua partenza, in ogni caso, non rimedierebbe a nulla. Peggiorerebbe la situazione. Sei un uomo

«Lo vedi. Un altro...»

«Precisamente perché non sei quest'altro tu devi restare. Se ti ostinassi a partire, io avrei ragione di supporre che cedi a un tardivo rimorso».

«No, te lo giuro

«Non occorreva giurarmelo

«Restando non potrei piú frequentare la casa tua. Che direbbe la gente

«Non mi sono mai curato di quel che la gente può pensare o dire di me e dei fatti miei; intanto non avrà da pensare e da dir niente, perché tu continuerai, tu devi continuare a frequentare la mia casa come hai fatto finora. Sei un uomo? Il tuo dovere è di vincere te stesso. Dammi la tua parola di onore che farai come io voglio».

Per quanto Gissi conoscesse l'animo del suo amico, non rinveniva dallo stupore di sentirlo parlare a quel modo. Gli era balenato il sospetto che quella tranquillità apparente nascondesse un tranello; l'uomo non è sempre un eroe, in ogni circostanza, anche quando è dotato di tutte le qualità che producono l'eroismo, egli pensava. Ma il rapido sospetto era sparito dopo le ultime parole del suo amico.

«Ti la mia parola di onore!... Rifletti però... te ne prego».

«Per lei, forse? Senti: io sono sicuro di vedere un prodigio. Non credo alle passioni fulminanti, al coup de foudre dello Stendhal. Noi commettiamo cattive azioni, perché ci diciamo che non sapremmo non commetterle, intendo parlare specialmente delle cattive azioni passionali. Se guardi bene dentro te stesso, vedrai che tu hai lusingato, accarezzato, e non inconsapevolmente, sensazioni che avresti potuto con facilità soffocare nel momento che cominciavano a determinarsi. La tua rettitudine di animo ti ha ora suggerito un mezzo violento che, come tutte le violenze, può produrre, anzi, produrrà certamente effetti contrari a quelli preveduti. Se vuoi la tua, la mia e la tranquillità di lei...»

Insomma Gissi dovette arrendersi in faccia a cosí incredibile mitezza.

Avvenne, lo stesso giorno, una scena che può sembrarvi strana ma che raggiunse lo scopo voluto. Gissi non se l'aspettava. Era andato, come per una solita visita, in casa del suo amico. La signora Cagli si trovava in salotto col marito che l'avea pregata di suonare mentre egli finiva un sigaro dopo la colazione.

«Continuadisse alla moglie che cessava di suonare all'inattesa apparizione.

Ella sapeva che Gissi doveva partire senza piú rivederla, dopo che in un istante di debolezza si erano lasciati sfuggir di bocca il loro reciproco segreto, o piuttosto dopo che l'imprudenza di Gissi le aveva strappato una confessione che l'aveva fatta piangere indignata contro di lui e di se stessa. E soltanto per nascondere il suo turbamento, riprese a suonare; smise dopo poche battute.

«Dunque - disse Roberto Cagli - voi due vi amate o state per amarvi...?»

Gissi scattò in piedi, pallido, portando disperatamente le mani alla testa; la signora chinò la fronte sul leggio del pianoforte mezza svenuta.

«Non vi sembra di essere ridicoli? - soggiunse Cagli. - Vorreste diventare due volgari adulteri? Eh, via! Eh, via!» Il colpo era fatto. Gissi e la signora si trovarono, con una mossa involontaria, l'una di faccia all'altro, l'una con gli occhi in quelli dell'altro, ridicoli come quegli aveva detto, nient'altro che ridicoli, e rossi tutti e due dalla vergogna di riconoscersi tali, mentre nei giorni scorsi si erano creduti sopraffatti da fiero tragico destino. E tutto fini !

- Caro Remossi - disse maliziosamente Gramoglia - dobbiamo proprio crederti?... Tutto finí ?

- Io ti credo - soggiunse il Mazzani. - Hai raccontato con troppa calorosa sincerità e con troppi particolari, da non lasciar nessun dubbio su la veridicità del fatto... Ma esso non prova niente contro la teorica dei «predestinati». Il tuo amico Roberto Cagli non era del bel numero; ecco tutto -.

 

 

 



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