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- La mia opinione è questa - continuò a dire Bertini. - Vi sono creature umane destinate unicamente a nuocere agli altri e a se stesse. Buone, inconsapevoli, quasi sonnambule, esse agiscono per impulsi esterni o interni, secondo i casi, e procedono nella vita come se avessero gli occhi bendati, urtando questo, rovesciando quello, stupendosi piú di ogni altro di aver potuto urtare e rovesciare e meravigliandosi ingenuamente dei tristi resultati di quegli urti e di quei rovesci. Si erano immaginato di poter fare del bene, di asciugare qualche lagrima, di consolare qualche cuore e invece, hanno fatto versare molte altre lagrime ed hanno maggiormente contristato coloro a cui intendevano di recar conforto. L'esperienza della vita non ha nessun valore per esse. Stanno sotto l'ossessione d'una prepotente forza che le allucina e le spinge ad agire tanto piú irriflessivamente quanto piú si eran proposte di non lasciarsi traviare da istigazioni fallaci. La società le biasima e le condanna e le apparenze le danno ragione. Spesso però io penso che queste misere creature, degne di piú di compassione che di perdono, esercitino una misteriosa funzione nel grande organismo sociale. Terribile cosa aver le piú pure, le piú elevate intenzioni del bene e poter produrre unicamente i disastri del male! Se nocessero soltanto agli altri, quel che ho chiamato inconsapevolezza, dovrebbe ragionevolmente venir giudicata freddo egoismo; ma nocciono nel medesimo tempo a loro stesse quanto agli altri, talora anche piú; e ciò me le renderebbe inesplicabili, se non sospettassi la misteriosa funzione alla quale ho accennato. In questo caso, quel che noi crediamo male forse dev'essere considerato sotto altro aspetto: una specie di azione eliminatrice o moderatrice o punitrice, non so, che ha radici in un ordine di leggi superiori, ancora ignote alla nostra povera intelligenza. La vita del nostro carissimo amico Eligio Norsi, chiusa cosí tragicamente giorni fa, è uno dei piú evidenti esempi di quel che dico. Nessuno avrebbe mai sospettato ch'egli potesse finire a quel modo. Io che lo conoscevo anche prima di voialtri l'ho creduto, per parecchi anni, uomo quasi felice, cosí laborioso e modesto era il suo tenore di vita. La natura lo aveva riccamente dotato d'ingegno e di notevoli qualità fisiche; la sorte gli aveva dato una discreta agiatezza; ma nessuno oserebbe affermare ch'egli abbia realmente goduto di questa sua situazione un po' privilegiata. Parecchi, con assai minore ingegno di lui, sono saliti in gran fama quand'egli rimaneva in basso, nell'ombra; molti altri sono divenuti ricchi e potenti quando egli cadeva, prima a poco a poco e poi ruinosamente, nella miseria. I suoi quadri, in questi ultimi anni, si vendevano a stento, a prezzi derisori, o non si vendevano affatto; ingombravano il suo studio o giacevano dispersi pei negozi di belle arti, assieme con la ignobile produzione commerciale. Eppure erano pregevolissimi, specialmente per l'assai rara, oggi, sincerità di impressione e di fattura. Egli, che aveva piena coscienza del suo valore, si sentiva avvilito dall'indifferenza del pubblico sviato dietro certe lustre d'arte di pessimo gusto; ma non se ne lagnava nemmeno con noi, suoi intimi amici. Da qualche anno, voi lo sapete, lavorava per strappar di mano ai negozianti, giorno per giorno, tanto da non morir di fame. Dipingeva quadretti di piccole dimensioni, scenette di genere, paesaggi, che era costretto ad offrire e che per ciò gli fruttavano scarso compenso. Stanco, scoraggiato, finalmente non ne ha potuto piú; ha preferito di morire.
Le rare volte che si lasciava sfuggir di bocca qualche sfogo, sentivamo esclamarlo: - Io sono jettato! - E sorrideva tristamente. Noi tutti gli abbiamo invidiato la sua ultima avventura. Parlandone, egli si trasformava, diventava poeta, tanto calore di affetto e tanto splendore di immagini gli sgorgavano dal cuore. Era orgoglioso di aver fatto una buon'azione, di aver salvato da morte e da qualcosa di peggio la bella, virtuosa e intelligente creatura da noi conosciuta nel suo studio e che vi diffondeva un sorriso di serenità e di dolcezza da imporre ammirazione e rispetto. Se in questo mondaccio le buone azioni fossero degnamente rimeritate, Eligio Norsi avrebbe dovuto avere sorte ben diversa! -
Dopo brevissima pausa, Bertini riprese:
- Io sono stato incaricato di radunare parecchi suoi amici nello studio dov'egli si è fracassato con un colpo di pistola il cervello, per comunicar loro la lettera da lui scrittami poche ore prima di attuare il triste proposito: ma non ho avuto coraggio di rivedere quel luogo dove noi abbiamo passato deliziosissime ore in lieti e nobili ragionamenti, mentr'egli continuava a dipingere pur prendendo parte alle vivaci discussioni, illuminandole con frasi brevi, dense di pensiero, anche quando sembravano una bravata da artista di buon umore. Ho pensato meglio di invitare in casa mia voi altri che siete stati tra i piú intimi e piú fidi. Giacché molti, in questi ultimi anni, aveano fatto come il pubblico; si erano allontanati da lui, forse anche perché le circostanze della vita sono grandi disgregatrici di cuori. Io eseguisco la sua ultima volontà parlandovi dell'episodio che conferma la mia opinione, cioè: che vi siano creature umane destinate unicamente a nuocere agli altri e a se stesse. So particolari da voi ignorati, sono stato testimone di scene che mi hanno attristato profondamente e che possono modificare il vostro giudizio, se per caso esso è risultato, in certe occasioni, poco benevolo per Efigio Norsi e per colei che ha voluto seguirlo, con una settimana di distanza, nella tomba, non ostante che egli le avesse «ordinato - sono sue parole - di vivere perché ella aveva davanti a sé il ridente avvenire che la giovinezza, la bellezza e l'intelligenza le avrebbero facilmente permesso di raggiungere». Per sua fortuna, Eligio Norsi ha avuto risparmiato il dolore di assistere a quest'altra rovina di cui è stato involontaria cagione.
Io capitai nel suo studio il giorno dopo in cui egli vi aveva fatto trasportare la giovane balzata, in un momento di disperazione, dal parapetto del ponte Margherita, nei gorghi del Tevere. Nuotatore abilissimo, egli non aveva esitato un istante a buttarsi nell'acqua per salvare la sciagurata. La lotta con l'impeto della corrente era stata tremenda.
«Per questo ella mi è parsa cosa mia! - egli mi disse - E non ho voluto mandarla all'ospedale».
La bionda creatura era assopita sul divano, sotto una coperta di lana, pallida, coi capelli in disordine, ma con una dolcissima serenità nell'aspetto.
«Non ha ancora vent'anni! È sola al mondo... Mi ha rimproverato di averla salvata. Oh! Mi son fatto giurare che non ritenterà di ammazzarsi.»
«Ebbene? - gli dissi. - Che ne farai?»
«Quel che bastava per uno basterà per due! Se avessi una figlia?...»
Gli splendeva negli occhi un'intensa gioia. Sembrava improvvisamente ringiovanito al contatto di quella giovinezza che riprendeva a vivere là, sul divano, nel ristoro del placido sonno.
«Guarda!»
E mi mostrò una tela, dove egli aveva già fissato con larghe e magistrali pennellate la scena che avevo davanti. La giovine sembrava respirasse dolcemente nella tela come io la vedevo respirare sul divano.
«Ne farai un bel quadro?» gli domandai. «No; lascerò l'abbozzo qual è, lo guasterei».
Infatti, messo in ricca cornice, noi abbiamo potuto ammirarlo nel suo studio; e non vi parrà esagerazione se aggiungerò che esso è forse il capolavoro di Eligio Norsi.
Un giorno che dissi questo anche a lui, egli mi rispose seriamente:
«Il capolavoro, eccolo qua!»
E mi mostrò un disegno, inespertamente tracciato, ma cosí rassomigliante - era il suo ritratto - e cosí pieno di vita, che io stentai a crederlo opera di persona che non aveva mai maneggiato un pezzo di fusain, né copiato un modello.
«È un portento. Ne farò una gran pittrice!»
Lo aveva disegnato lei, la sua Moseina, come scherzando soleva chiamarla, alludendo al nome di Mosè che significa: «Salvato dalle acque»
Quel che poi accadde vi è noto. Egli l'amò come si ama talvolta nell'età in cui parrebbe che certe illusioni non dovessero piú prodursi: e fu riamato, né soltanto per gratitudine, ma per le buone qualità del suo cuore e del suo ingegno. Ella era di un'ammirabile saggezza precoce, capace di qualunque sacrificio; e non fu tanto la sua affettuosa compagna, quanto la sua consigliera, la sua severa ammonitrice, la sua ispiratrice anche. Erano bastati pochi mesi perché in lei si sviluppasse un finissimo senso di arte, un gusto delicato sotto le prime lezioni di disegno impartitele da lui. Egli n'era orgoglioso.
«Non passerà molto, che dovrò io apprendere da essa». Gliel'abbiamo udito ripetere piú volte.
E cosí trascorsero due anni, tra le prime avvisaglie di quella lotta economica ch'egli si sforzava di nasconderle, ma che la bella creatura indovinava, e che le velavano gli occhi con leggiera nebbia di rassegnata tristezza.
Appunto in quel tempo parve che la forte fibra dell'artista desse visibili segni di stanchezza, dopo un lieto periodo di geniale produzione. Io credo che si trattasse di una di quelle mude in cui l'ingegno, come gli uccelli, butta via le vecchie penne e dà tempo di crescere alle nuove. In tale stato, anche gli uccelli sembrano malati, perdono la loro vivacità, non fanno piú udire un solo gorgheggio. L'ingegno si concentra, rimugina tacitamente nuovi ideali di arte che si maturano in un'inconsapevolezza strana, sotto forme diverse o di lassezza o di scoraggiamento o di smania che non sa ancora che cosa voglia e a che tenda.
Ma ella non poteva indovinare se quella lassezza, se quello scoraggiamento nascondessero un prossimo risveglio; e sapendo per prova che la sua parola incitatrice esercitava grande efficacia su lui, lo assaliva con rimproveri nei quali le parole avevano una calcolata esagerazione che costava tanto al suo povero cuore. E appena le sembrava che esse avessero ottenuto un qualche effetto, gli buttava le braccia al collo, lo copriva di baci, di carezze e per poco non gli chiedeva perdono di essersi mostrata, pel bene di lui, quasi cattiva ed ingrata. Eligio Norsi, in quei momenti, si sentiva - ed era infatti - un fanciullo che promette di essere buono, ma che sa di non potere facilmente mantenere le promesse.
Sopraggiunsero presto giorni tristissimi. Egli, per una specie di pudore, le aveva celato i gravi imbarazzi in cui si trovava per la sua quasi assoluta inettezza negli affari. Caduto in mano di rapacissimi strozzini, aveva perduto, per sodisfare gli impegni presi, il suo piccolo patrimonio, i frutti del suo lavoro, vivendo ogni giorno in continua lotta di espedienti, lusingandosi sempre di uscire con qualche colpo di fortuna, da quello stato di precarietà che lo esauriva per lo sforzo di nasconderlo non solamente a lei, ma ai suoi amici e agli invidiosi della sua fama di artista.
E quando non fu piú possibile fingere con lei e si credette simile a un reo davanti al suo giudice e non osò piú di farle la proposta di darle il suo nome da lei tante volte ricusato perché non voleva essere sospettata di calcoli interessati sotto sembianze di gratitudine e di affetto, egli fu stupito di sentirsi dire le piú dolci, le piú carezzevoli parole che fossero mai uscite da labbro di donna; le parole piú confortevoli e piú incoraggianti; parole di dedizione completa, di sacrifizio assoluto, quasi la colpevole di quel disastro fosse stata lei. Eligio me lo raccontò, con le lagrime agli occhi, lo stesso giorno, pregandomi d'intervenire, di fare opera da amico, da fratello.
«Ella vuole abbandonarmi, ella vuol morire, capisci? per lasciarmi libero, per non gravare su me, capisci?» E, cosí dicendo, si torceva dolorosamente le mani.
Intervenni. Non ho mai udito in vita mia parole piú savie, piú ferme e piú affliggenti di quelle che mi rispose la bella e buona creatura che anch'io avevo appreso a chiamare Moseina.
«Bisogna che io lo liberi - ella mi disse. - Egli ha messo in pericolo la sua vita per salvare la mia quando io non sapevo che cosa farne, perché non avevo piú nessuna ragione di vivere. So bene come mi giudicano parecchi dei dei suoi intimi amici, lei stesso, forse...».
«Grazie - ella riprese. - Questo non toglie che per tanti altri amici o conoscenti io non abbia l'apparenza di essere stata la rovina di Eligio Norsi, rovina materiale e morale. È un dolore di cui non so consolarmi. Che posso fare? Avrebbe dovuto abbandonarmi alla mia sorte; la sua pietà, la sua bontà gli hanno impedito di agire cosí. Non è stato sincero con me, per eccesso di buon cuore. E quando penso che non ho saputo indovinare prima d'ora i sacrifici che gli sono costata, sento rimorso di questo male involontariamente cagionato piú che se lo avessi operato con malvagia intenzione. Come vuole che io non cerchi un rifugio nella morte? Quali speranze possono allettarmi? Se mi risolvessi ad uscire di qui, dovrei chiedere soltanto alla mia giovinezza mezzi di vivere che ora mi ripugnano piú che mai; non sono nata per questo. Appunto per tale repugnanza ho tentato di ammazzarmi a vent'anni. Mi ero lusingata di trovare una risorsa nella pittura per la quale mi riconosco anch'io qualche attitudine; ma occorre parecchio tempo prima che questo possa avvenire. Ogni giorno che passa, mi rivela piú chiaramente che terribile cosa è quest'arte. Quando ignoravo le difficoltà, ero tranquilla... Ora, oh!... Solo, egli può lottare e vincere. Io gli sono d'impaccio. Perché ritardare una soluzione inevitabile? Se egli mi avesse lasciato nella mia ignoranza... Invece mi ha inoculato la smania dell'arte, mi ha fatto assaporare le sue lusinghe... Credeva di farmi del bene, e si è ingannato. Mi sono ingannata anch'io, immaginandomi di potergli essere di aiuto e conforto... Ecco perché voglio...!»
E non poté finire, interrotta da un grande scoppio di pianto.
«L'ammiro - le dissi - ma non posso approvarla. Non bisogna mai disperare della vita!»
«Belle parole!» esclamò tra i singhiozzi. «Se gli vuole veramente bene...».
M'interruppe con un'occhiata che non dimenticherò mai e mi tese le mani in segno di ferma promessa.
Ah, se fossi stato ricco! Cercai e trovai un generoso che prestò ad Eligio Norsi mille e cinquecento lire perché uscisse dai piú cocenti imbarazzi e avesse modo di lavorare con un po' di tranquillità. Bastarono appena per opporre un momentaneo argine alle necessità piú imperiose. Ella volle sacrificare gli orecchini, i braccialetti, gli anelli regalatile da lui nel primo anno della loro unione. Stremata fin di abiti, si rassegnò a vivere chiusa in casa per mesi e mesi, sottoponendo la sua giovinezza a una volontaria prigionia nelle stanze accanto allo studio o nello studio, quando non c'era nessun altro che lui intento a un frettoloso lavoro che doveva provvedere alle urgenze del domani. Il gran quadro ideato e disegnato rimaneva là con pochi imbratti di colore; ed ogni sua speranza di risorsa intanto era riposta in esso!
Ora era Moseina che mi confidava i suoi terrori, le rare volte che avevo la forza di presentarmi nello studio di Eligio Norsi e nei brevi intervalli che mi avveniva di restar solo con lei.
Cosí io ho assistito, impotente di apportarvi un riparo, alla straziante agonia di quei due poveri cuori, che pur recavano sul viso una maschera di sorridente rassegnazione per ingannarsi l'un l'altro, fingendo di credere a speranze di prossimi aiuti, a rivolgimenti improvvisi di buona fortuna... finché lui che avrebbe dovuto essere il piú forte...
Bertini s'interruppe; la commozione gli aveva troncato la parola. Tutti eravamo rimasti silenziosi egualmente commossi, attendendo la lettura della lettera ch'egli aveva davanti sul tavolino. L'aperse senza dir altro e lesse con voce tremante:
Vorrei sparire senza che nessuno se n'accorgesse. Spero che Moseina, la mia buona e adorata Moseina, vorrà perdonarmi l'atto disperato che sto per compire e accogliere la mia estrema parola che le impone di vivere. Sappi, non sono un vigliacco; ci vuol coraggio a morire. Un solo pensiero mi addolora in quest'istante: che la mia buona e adorata Moseina sarà mal giudicata. Tu che sei stato messo a parte di tante confidenze, raduna nel mio studio i comuni amici e giustificala innanzi a loro, perché essi la giustifichino presso i maligni e gli ignari. Io non ho bisogno di esser scusato in faccia a nessuno; la mia coscienza è serena. La vita ha fatalità che nessuno può vincere!... Addio!».
- Povera Moseina! - continuò Bertini - Che può importarle di essere giustificata? Pur troppo, la vita ha fatalità che nessuno può vincere! Povero Eligio Norsi, a cui l'arte non ha saputo all'ultimo dar tanto da sfamarlo ogni giorno! Con che ironico sorriso hai tu forse appreso nell'altro mondo che ieri uno dei quadri da te ceduto per cento lire, è stato comprato per ventimila da un tuo postumo ammiratore!