Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Racconti
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TOMO III

COSCIENZE

XI RISPOSTA

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XI

 

RISPOSTA

 

Signora,

E non premetto «gentilissima» perché sarebbe vigliacca ipocrisia. Voi siete stata tutt'altro che gentile con me; siete stata falsa e cattiva. L'ultima vostra lettera che ho voluto rileggere non so piú quante volte, dubitando sempre dei miei occhi e della mia intelligenza, è tale mostruoso viluppo di cavilli da convincermi che hanno torto coloro che vorrebbero interdire alla donna l'esercizio dell'avvocatura. La donna è nata «avvocato» nel peggior senso di questa parola.

Ho tardato a rispondervi, augurandomi, da quel grande sciocco che sono (lo confesso con umiltà mista di orgoglio, perché la mia sciocchezza, di fronte alla vostra furberia, diventa virtú da potersene inorgoglire) augurandomi che voi sentiste il bisogno, se non di cancellare, almeno di attenuare la triste impressione che quelle venti paginette, scritte con la piú ferma calligrafia di ultima foggia da voi adottata l'anno scorso, dovevano aver prodotto sul mio povero cuore. Mi sono ingannato come sempre.

Le ho sotto gli occhi, ordinate in fila, per osservar meglio con quanta feroce tranquillità le avrete scritte. Non vi è nessuna traccia che possa far sospettare la piú lieve commozione. Maiuscole e minuscole - voi abusate con strana predilezione delle maiuscole, permettetemi di tornare ad avvertirvelo - hanno cosí simmetrica quadratura che non sembrano scritte ma disegnate. Ho voluto confrontare la vostra calligrafia con quella di parecchie altre signore che - è bene dichiararlo per precauzione - non mi hanno scritto lettere d'amore ma di presentazioni, di raccomandazioni, di inviti, e mi sono convinto che dev'esserci una nascosta e ben calcolata ragione, se tutte le intellettuali vostre pari e anche le non intellettuali, si son messe oggi di accordo per adottare questa calligrafia quadrata che toglie alla scrittura ogni impronta personale. Forse la nascosta e ben calcolata ragione sta appunto nell'uniformità che può sottrarla alla indiscreta curiosità dei grafologi. La mano, scrivendo a questo modo, è impedita di abbandonarsi all'impulso del pensiero; viene infrenata dall'attenzione di dover foggiare le lettere con meticolosa simmetria, di stupefacente grossezza, in guisa da riempire le pagine col minor numero di parole possibile e dare nello stesso tempo la illusione di ricevere lettere, come la vostra, di «venti» paginette che ricopiate da me si ridurrebbero appena a due paginette e mezzo.

Eppure in queste due paginette e mezzo la vostra furberia ha saputo accumulare tanti cavilli, tanta malafede, tanta cattiveria, tanto veleno insomma da poter ammazzare facilmente un povero cuore come il mio.

Badate: non vi scrivo per confutare ad una ad una le pretese ragioni che vi hanno spinto a questa rottura. Quindici giorni di riflessione, quanti ne sono trascorsi dalla sera in cui il postino mi ha recato la vostra lettera «raccomandata» (avevate forse paura che io fingessi di non averla ricevuta se fosse stata semplicemente affrancata?), mi hanno già fatto capire che si tratta di un fatto definitivo, e che avrei commesso un'imperdonabile stupidaggine tentando di dimostrarvi che vi siete ingannata, e che i vostri terrori di una vicina catastrofe erano allucinazioni facilmente dissipabili, dato che si trattasse davvero di allucinazioni prodotte da momentaneo eccitamento del sistema nervoso.

Vi scrivo soltanto per farvi sapere che oggi sono calmo, rassegnato alla mia sorte di «uccello da richiamo», di allumeur di amore come mi sembra abbia qualificato lo Stendhal coloro che le donne destinano maliziosamente a tal ridicolo ufficio. Non sono ben sicuro della citazione stendhaliana; ma in questo momento mi sembra inutile riscontrarne l’esattezza. E poi ricordo che le citazioni non vi piacciono; le stimate pedantesche.

So che c'è stato qualcuno che è andato ad informarsi dal mio portiere se ero ancora in città o se ero partito e per qual posto. Il portiere era stato prevenuto di spedirmi le lettere, ferme in posta, a Parigi. La mia prima risoluzione, dopo il fiero colpo ricevuto con la vostra inattesa lettera, era stata appunto quella di mettere quanto piú spazio potevo tra voi e me; e avevo scelto Parigi, città ricca di distrazioni per un deluso di amore come me.

Avrei potuto darvi ad intendere che la vostra lettera mi ha lasciato indifferente e che vi sono anzi grato di non aver atteso che la mia passione fosse maggiormente divampata per poi buttarvi il freddo getto di acqua destinato a spegnerla evidentemente tutt'a un tratto.

La mia grande sciocchezza mi induce ad esser sincero, e a confessarvi che ho sofferto terribilmente, quattro o cinque giorni, come innamorato e come uomo. L'amor proprio, il sentimento della dignità non sempre rimangono sopraffatti dall'impeto selvaggio della passione. E il mio era proprio selvaggio contenuto e represso da quasi un anno, quando non osavo di manifestarvi neppure con un accenno di quale amore vi amavo.

Cinque giorni di mortale angoscia, di sconvolgimento dell'intelletto e del cuore molto vicino alla pazzia, non dovrebbero sembrar pochi al vostro orgoglio femminile. Certi sentimenti vanno giudicati, piú che dalla durata, dalla loro intensità. E la intensità di quel che ho sofferto in quei cinque giorni potrebbe soddisfare le pretese eccessive di qualunque donna anche piú vanitosa di voi.

Se il mio dolore fosse stato meno intenso forse durerebbe ancora; ed io vi avrei scritto da Parigi una lettera probabilmente molto diversa dalla presente. L'eccesso mi ha salvato; e per questo, invece che dalla capitale della Francia, vi scrivo da una deliziosa villetta della riviera ligure dove potrò serenamente riflettere sul mio caso, se il lavoro, a cui mi son rimesso dopo un'interruzione di sei mesi, mi concederà il tempo di abbandonarmi a tale meschina occupazione psicologica.

La villetta è quasi in riva al mare, circondata da tre lati da un giardinetto dove la mite temperatura di questo aprile ha già fatto esplodere una vigorosa fioritura che voi mi invidiereste, se poteste vederla, voi che amate tanto i fiori, dato pure che il vostro cuore possa amare qualcosa. Dall'altro lato, verso il mare, si stende un morbido tappeto di arena gialliccia a cui le onde rinnovano continuamente la loro ricca frangia di spuma. Sono solo solo, perché la vecchietta che ho presa per servirmi non m'importuna affatto con la sua presenza. È persona primitiva; non sa leggerescrivere, e si stupisce della vita eremitica che io meno, specialmente del sapermi intento a scrivere da mattina a sera; giacché non faccio altro. Difficilmente avrei potuto trovare un posto piú adatto per continuare e finire il mio romanzo Primavera, che non dedicherò piú a voi, per non farvi immaginare che io voglia destarvi in petto qualche fugace rimorso. Voi, ne sono certo, non mi addebiterete a colpa questa mancata promessa.

Senza la premurosa compiacenza di un amico, non saprei ancora spiegarmi il mistero della vostra lettera di rottura. Sarei stato cosí sciocco da stentare lungamente a trovarne la chiave, e chi sa? forse avrei finito con credervi sincera. Debbo soggiungere, per scrupolosità di esattezza, che in certi momenti, nel vostro salotto, ho avuto piú volte una sfumatura di presentimento di quel che stava per accadere. Ricordate? Vi ho manifestato in parecchie occasioni la mia istintiva avversione verso quella stupida figura di belloccione - se si può cosí tradurre il francese bellâtre - che voi, nella nostra intimità, chiamavate: «manichino da gran sarto», per convincermi che lo avevate destinato a servirvi da schermo contro i sospetti e la malignità dei frequentatori della vostra casa, specialmente delle vostre amiche. Ricordate? Una sera fin mi rimproveraste:

- Non mancherebbe altro che essere oltraggiata dalla vostra gelosia per costui! -

Oltraggiata! E pronunziaste questa parola con tale accento di disgusto, che io, dopo quella sera non ebbi piú ardire d'insistere.

E avrei dovuto subito capire come mai quel belloccione poteva servirvi da schermo, se poi sdegnavate di prendere qualche precauzione per nascondere alle amiche, e a tutti coloro che in casa vostra avevano occhi per vedere, la vostra apparente predilezione per me; la quale poteva benissimo far sospettar ben altro di quel che, con sapiente indugio, vi eravate degnata di concedermi. Poco o niente, ahimè! e che pure sembrava molto alla facile contentatura (piena di dolci speranze, non lo nego) del mio cuore d'innamorato.

Vi supponevo maestra nell'arte degli indugi che costituiscono, a quel che pare, la miglior maniera di accendere maggiormente gl'ingenui e di protrarre piú a lungo la natural durata dell'amore. Ingenuissimo, avevo ben altra idea di esso, giudicando da quello che sentivo per voi. Sono stato in adorazione, non ai vostri piedi, ma davanti alla vostra immagine che portavo nel cuore; era la prima volta che mi accadeva di amare davvero, e i miei trent'anni e la mia esperienza mondana non bastavano a difendermi dal commettere le inevitabili sciocchezze di un primo amore. Se avessi avuto il doppio di età e di esperienza, le avrei commesse egualmente. Infatti! Qualunque altro (io stesso forse, se avessi provato soltanto un passeggero capriccio per voi), si sarebbe quasi subito accorto del vostro gioco e vi avrebbe guastato le carte in mano. Non tutti i calcoli di una astuta e poco scrupolosa signora - è il caso vostro - riescono bene. Con un tantino dell'audacia che, in altre circostanze, mi ha fatto superare ostacoli per lo meno uguali a quelli che, certe sere, voi mi opponevate sorridendo e supplicando, a quest'ora io potrei stropicciarmi le mani dalla soddisfazione di essermi cavato un capriccio e di aver trovato l'imbecille che mi ha salvato dal pericolo di una incomoda relazione.

Vi assicuro, Signora (e, se volete, posso confermarvelo con giuramento) che sono anzi lietissimo di non aver avuto quell'audacia. Voi, cosí fina, cosí intelligente, capirete che, affermandovi questo, intendo di farvi un altissimo elogio. Rimpiangerei oggi qualche cosa, e non saprei consolarmene, come ho rimpianto qualche volta, e me ne sono consolato a stento, il non aver prolungato la durata di un capriccio che forse meritava di divenire qualcosa di meglio. Spero non mi stimerete un vanesio leggendo queste che non vogliono essere poco modeste parole.

Dovrei rimpiangere il tempo sprecato oggi a scrivervi; avrei potuto impiegarlo piú utilmente attorno agli ultimi capitoli del mio romanzo, Ma, che volete farci? non ostante l'indegno modo con cui mi avete trattato, io persisto a credervi migliore di quella che non volete apparire. La fatuità della perversione è difetto esclusivamente femminile. Per ciò non rimpiango affatto il tempo impiegato intorno a questa lettera. Voi forse sareste capace di foggiarvi l'acre delizia del rimorso di avermi reso infelice, e vorreste servirvene a insaporire piú ghiottamente la conquista del belloccione pel quale mi avete fatto recitare la parte di «richiamo», di allumeur stendhaliano. Forse avreste potuto avere, perché no? qualche giorno, qualche ora di sincero rimorso; ho voluto risparmiarvelo. Se alla vostra vanità può sembrare sufficiente la confessione di aver molto sofferto per quattro o cinque giorni, non ci trovo niente da ridire. Ma non abbiate nessun rimorso sul serio; io non mi sento infelice. E se soggiungessi che vi sono grato di avermi guarito un po' spietatamente, non importa, di una passione che minacciava di diventar pericolosissima, credetelo, Signora, non mentirei. Non vi accadrà tanto facilmente di far del bene senza volerlo.

Vi lascio. È l'ora in cui, ogni giorno, esco a passeggiare su la spiaggia per riempirmi i polmoni di benefica salsedine di aria marina prima di riprendere a lavorare. Vi sono immensamente grato anche di questo beneficio.

Sappiate conservarvi intanto... il vostro «manichino da gran sarto»! E perdonatemi la piccola malignità di rammentarvi, finendo, questa veramente pittoresca frase che fa onore al vostro buon gusto, se non alla vostra sincerità. Cordiali saluti.

 

Riccardo

 

 

 



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