Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Racconti
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TOMO III

COSCIENZE

XV LETTERA DI UNO SCETTICO

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XV

 

LETTERA DI UNO SCETTICO

 

Caro Poldo,

Teresa è partita ieri. Sembrava commossa. Aveva le lagrime agli occhi, a giudicare dall'apparenza. Ma io che l'ho vista ugualmente commossa e con gli occhi ammammolati, in parecchie altre circostanze assai meno tristi della nostra definitiva separazione, non mi sento punto lusingato dello sforzo da lei dovuto fare per produrre il pallore che le scolorava il viso, il rapido ansare del seno e quell'umido luccicore che indugiava sull'orlo delle palpebre e non sgorgava in «una» lagrima, in quella famosa lagrima stereotipata, di cui parla gran parte dei romanzieri e novellieri.

Ti dico questo dopo ventiquattr'ore precise dal momento che il treno si è messo in moto per portarla via lontano, fuori d'Italia, in quel paesetto svizzero dove, probabilmente, l'attendeva colui che - lo sospetto - ha preso il mio posto nel suo cuore.

In quel momento però - non arrossisco di confessarlo - il tuo scettico amico era diventato un fanciullone. Gli tremava la voce, aveva le mani agitate da rapido modo convulso, sorrideva scioccamente a sproposito, ed era preso da tale smaniosa premura di mostrarsi cavallerescamente gentile - me ne accorgo ora e lo rammento con dispetto! - che Teresa non poté reprimere un gesto d'incredulo stupore, del quale in quel momento avrei dovuto offendermi, se fossi stato capace di riflessione.

Ed ora vuoi un'evidentissima prova di quel che tu chiami il piú assurdo dei miei paradossi senza intendere che, cosí dicendo, ne confermi il valore, vuoi un'evidentissima prova che il nostro io è doppio, triplo, quadruplo e forse indefinitivamente multiplo? Eccola, caro Poldo.

In quel momento, assieme col fanciullone, c'era dentro di me l'indifferente che poteva osservare Teresa e ammirarla, quasi la vedesse la prima volta in un fortuito incontro; l'indifferente che la squadrava da capo a piedi, dalle elegantissime scarpettine al gran cappello di paglia azzurra guarnito bizzarramente da tralci di edera che dava a quella testina bruna, con capelli nerissimi, un'aria di freschezza giovanile in contrasto col contegno serio e riserbato che la vera o finta commozione la costringeva a tenere. E quell'indifferente, a poco a poco, forse si sarebbe esaltato, se l'altro «io», lo scettico, non fosse sopraggiunto e non gli avesse comunicato che non metteva conto di esaltarsi davanti a una persona il cui interiore era in perfetta discordanza con la bella forma esteriore; mentre un terzo «io», tranquillo e sorridente, interveniva per far osservare a tutti e due che è da stupidi occuparsi di esteriore e d'interiore trattandosi di una donna e specialmente di una bella e giovanissima donna. E il quarto «io» intanto, il fanciullone, stava ad ascoltare con un senso di doloroso smarrimento; profondamente indignato che qualcosa dentro di lui, a lato di lui (qualcosa che egli riconosceva cosí intima parte di sé da non riuscire a distinguerlo come fuori di sé) potesse badare alle scarpettine, al cappello azzurro, e fare osservazioni di scettica psicologia, invece di abbandonarsi tutto al voluttuoso dolore da cui egli si sentiva invaso e che era dolcezza e tormento nel medesimo punto.

E in questo stesso punto in cui mi compiaccio di aver ripreso completa padronanza di me, di essere rientrato in quello stato d'animo che tu chiami scetticismo perché non sai qualificarlo piú esattamente e che io ho sempre negato di esser tale; in questo stesso punto in cui vorrei raccontarti freddamente come la nostra rottura sia avvenuta, e spiegarti il mio telegramma che ti ha tanto maravigliato, se rifletto un istante... Ma lasciamo andare; riprenderemo, quando sarò tornato costí, o quando tu sarai venuto qua, le nostre discussioni, e allora tenterò di convincerti...

Ricordi quel tale da noi chiamato direttore delle pompe funebri perché vestiva sempre di nero, e che molti stimavano pazzo perché credeva di avere in corpo sette spiriti, ai quali imponeva di non parlare tutti a una volta, se gli accadeva d'imbrogliarsi nel discorrere? Ricordi? Tenterò di provarti che quel tale...

Perdona, caro Poldo: vorrei fare proprio lo scettico, prendere in burletta il mio dolore, i sentimenti che mi tumultuano nel cuore da due giorni in qua, recitare davanti a te la commedia che soglio recitare davanti a tutti dal giorno in cui mi son messa sul viso la comoda maschera dello scetticismo... ma, no, non posso piú fingere. Ho bisogno di esser sincero, di sfogarmi liberamente, di buttar via la maschera almeno con te e mostrarmiti qual sono, povera creatura sofferente, umile e meschina come tutte le umane creature che non mentiscono agli altri e a se stesse.

Tre giorni fa, ella era seduta presso quella finestra dirimpetto al tavolino d'onde ti scrivo, col libro da leggere posato su le ginocchia, e con gli occhi che evidentemente guardavano un punto lontano, o assorti in qualche visione che le velava gli oggetti circostanti. Ed io, osservandola a intervalli, interrompendo il lavoro che stavo per finire, pensavo freddamente: - Come siamo già estranei! -

La risoluzione di dividerci per sempre era stata presa, di accordo, il giorno avanti, dopo cinque anni di un'unione che non aveva avuto niente da invidiare a un matrimonio all'infuori della sanzione legale. Se ci fossimo sposati, come due o tre volte, nei giorni piú felici, io le avevo proposto, a quest'ora ella non sarebbe chi sa dove, abbandonata a chi sa quale destino, né io qui solo, con uno sgomento nel cuore che mi la sensazione della inutilità della mia vita.

L'ultima volta che io le ripetei, insistendo, quella proposta, ella rispose:

- Che temi? Non dobbiamo essere piú orgogliosi di sentirci legati spontaneamente, invece di saperci legati quasi per forza dal giuramento civile e religioso? -

E nota ch'ella si sdegnava quando sentiva parlare di divorzio. Ella pensava che la gran virtú del matrimonio insolubile consiste appunto nel salvarci, nostro malgrado, dalle viltà e dalle aberrazioni prodotte da passeggere circostanze che poi si lasciano dietro grandi rimpianti. Ella pensava anche che il matrimonio civile è incompleto se non va accompagnato al religioso; e non era fervida praticante.

Soltanto ora comprendo la immensità del suo sacrifizio. Ella ha voluto che io fossi libero di dividermi da lei il giorno in cui mi fossi accorto di non poter piú vivere insieme, il giorno in cui ella avrebbe potuto essere un ostacolo, un impaccio, una gravezza con qualche ragione e anche senza nessuna ragione.

La colpa è stata di tutti e due, piú mia che sua però. Giacché io ho dovuto essere un enimma per lei, che non è mai riuscita a penetrare se i miei atti e le mie parole fossero in contraddizione coi miei sentimenti, coi miei pensieri. E lei si è quindi sforzata di parere un enimma anche a me imitandomi in tutto, quasi per mettersi all'unisono con me, quando avrebbe dovuto, invece, lasciar trasparire la discordanza e mostrarsi proprio quale era.

Cinque anni di stupida finzione da l'una parte e dall'altra; cinque anni di balorda commedia divenuta a poco a poco abitudine da non permetterci piú di riconoscere se quella nostra vita fosse una finzione o una realtà, e se noi non ci esaurissimo con quel cattivo gioco di cui ci compiacevamo come di un necessario elemento di felicità.

E ci siamo esauriti, fino a non riconoscerci piú, fino a credere che oramai non avevamo piú niente da dirci, né da sentire insieme, e che era inutile e sciocco il continuare la prova.

Ed io - la prima parola di accenno è venuta da lei - ho potuto sospettare ch'ella si fosse stancata o che qualche altro avesse preso il mio posto nel suo cuore! Ho avuto la spudoratezza di scrivertelo in questa stessa lettera quantunque fossi già convinto dal contrario, tanto l'abitudine di fingere e di mentire, per vanità di apparire affatto diversi dagli altri, superiori agli altri ed emancipati da qualunque pretesa convenzione sociale, persiste in noi anche nei momenti, come questi, che avrei dovuto essere sincerissimo.

Ero risoluto di esser tale, per soddisfare un impeto del mio povero cuore, e intanto - hai visto? - ho cominciato la lettera lasciando parlare il finto me, il mentitore me, quello che tu chiami lo scettico e che è invece il miserabile vanitoso che pretende di apparir superuomo!

Oh! Ci sarebbe un rimedio a tanto disastro: richiamare telegraficamente Teresa, ricominciare da capo, svelarle il segreto della mia miseria spirituale... Ma chi le assicurerebbe che io non mentisco ora come ho saputo mentire per cinque anni?... E chi mi assicura - caro Poldo, compiangimi, sono arrivato fino a questo! - chi mi assicura che questa resipiscenza, questo scoppio di sincerità non sia un inganno di quella stessa vanità che mi ha ridotto qual sono?

E gli intimi «io» multipli mi si accapigliano dentro come i sette spiriti di quel tale e parlano tutti a una volta. E uno mi dice: - Lascia andare! Meglio cosí! -

E un altro mi dice: - Troppo tardi ti sei accorto del tuo grand'amore per Teresa! Ormai! Ormai! -

E un altro mi suggerisce: - Niente è perduto! Ella ti ama troppo da non essere felice di ricominciare da capo! -

E un altro: - Non far ridere la gente della tua debolezza di spirito. La vita è una commedia; rappresentala bene fino all'ultima scena! -

Ed è quel che piú s'impone a me, quantunque il suo suggerimento sia quello che mi fa piú soffrire e che non cesserà di farmi soffrire!

Ho tralasciato di scrivere e mi sono aggirato, come uno sperduto, per queste stanze dove è rimasta la impronta del suo cuore, del suo spirito con la suprema eleganza della disposizione dei mobili, dei quadri, delle stampe, dei ninnoli, e direi quasi della luce e dei colori, perché tutto è opera di lei. L'unica trasformazione da lei voluta fare una settimana prima di partire è stata quella del suo salottino, ora mezzo vuoto, con un'espressione di tristezza, come di luogo saccheggiato da violenza sacrilega. Ed io non l'ho impedita! Ed io l'ho compiacentemente aiutata con inconsapevolezza che ha dovuto essere ineffabile strazio per lei!

Ed ho potuto telegrafarti i saluti di Teresa e soggiungere: Incipit vita nova! No, continua e continuerà la misera vita bugiarda! E mi durerà questo sgomento, giusto castigo dell'aver falsato violentemente in me la natura umana per vanità, per orgoglio di esser stimato un ribelle, un vincitore su tutte le leggi sociali! Ed ero un vinto! Debbo riconoscerlo...

 

2 pomeridiane.

Ho riletto questa lettera. È assurda! Spero che tu non la giudicherai sincera... Ho esitato a spedirtela... e la spedirò... La commedia continua! Applaudisci o fischia: non me ne importa niente.

Ci rivedremo presto.

Tuo aff.mo Cesare

 

 

 



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