Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Racconti
Lettura del testo

TOMO III

LA VOLUTTÀ DI CREARE

X IL DOMATORE DI AQUILE

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

X

 

IL DOMATORE DI AQUILE

 

Il dottor Maggioli proseguí, senza tener conto della interruzione:

- , a poco a poco, a furia di scienza, arriviamo a falsificare la natura, che però si vendica terribilmente della nostra spensierata improntitudine. Abbiamo rotto il limite, l'armonia, e finiremo - vorrei essere cattivo profeta - con la distruzione della specie umana.

- Eh! già! - protestarono parecchi.

- Questa sera è di cattivo umore - gli disse la baronessa Lanari.

- No, cara baronessa; io non sono mai di cattivo umore. Sarebbe una stupidaggine e un'imprudenza a ottant'anni. Non sono stato di cattivo umore, neppure nella giovinezza e nella virilità. Abbandonarsi al cattivo umore sarebbe una specie di suicidio all'età mia. Da lungo tempo, ho preso le mie precauzioni per evitare, a ogni costo, che s'impossessi di me. È quistione di igiene, fisica e spirituale.

- Come? Un materialista suo pari? - esclamò il canonico Venini, che si compiaceva di punzecchiare il dottore, quasi per incitarlo.

- Materialista e spiritualista, secondo le occasioni, per modo di dire. Queste due qualifiche si equivalgono... Ma non mi faccia divagare. Dicevo dunque: divertiamoci pure coi nostri balocchi scientifici; non arriveremo mai a fare per l'umanità quel che la natura ha fatto per gli uccelli.

- Anzi, anzi! - lo interruppe nuovamente l'avvocato Veraldi. - Ci ha dato l'intelligenza, l'ingegno per crearci da noi qualcosa di meglio delle ali.

- I palloni dirigibili? Gli aeroplani? Balocchi! Balocchi! Nient'altro. Le ali non costano niente agli uccelli... Io rimpiango i milioni - non faccio conti esagerati - che costano e costeranno gli aeroplani. Pochi, pochissimi, potranno darsi il gusto di «aeroplanarsi», direbbe lei, baronessa, che - ricorda?... No, fui io che proposi «spallonarsi» invece del suo «scarrozzarsi in pallone». La paternità di queste due bruttissime parole è, pur troppo, mia... Ah! C'è la guerra, l'offesa, la difesa ai confini! Benissimo; ammettiamolo pure; ci saranno però, se non ci sono già, cannoni che faranno fare dei capitomboli agli aeroplani con tutto il loro carico di bombe e di materie esplodenti... Ma io non volevo discutere di questo, io volevo semplicemente raccontare...

- Ci siamo!

- Ci siamo, signor canonico, perché non ci riuniamo qui per annoiarci con inutili ragionamenti che non caverebbero un ragno da un buco... Le dirò soltanto: se fossi papa, invece di scomunicare certi poveri diavoli, autori di libri che nessuno leggerebbe se non fossero proibiti, sicuro, se fossi papa e avessi fede nell'efficacia del mio potere spirituale...

- Lasci stare il papa, dottore!

- Non lo tocco; lo rispetto; è il piú elevato personaggio della terra... Voglio dire che, se fossi papa, scomunicherei tutti gli inventori di ordigni di distruzione e coloro che se ne servono... Disgraziatamente... Ma permettetemi di raccontarvi la geniale trovata del marchese di Santa Pia che qualcuno di voi deve aver conosciuto o, per lo meno, sentito nominare. No? lo dimentico facilmente di esser troppo vecchio. Eppure questo ricordo mi richiama appena a trent'anni fa.

Il marchese di Santa Pia passava per mezzo matto perché non faceva mai quel che fanno e possono fare tutti o quasi tutti. Bell'uomo, alto, robusto, con una salute di ferro, con molti quattrini che gli permettevano di cavarsi qualunque capriccio - e non ne abusava, bisogna aggiungerlo in sua lode - si era ultimamente dato a un allevamento strano. Diceva: «L'uomo ha già addomesticato il cavallo, il bue, il cane, il gatto; perché non dovrebbe tentar di addomesticare il re dei volatili, l'aquila

- Era proprio matto quel suo marchese! Si vede!

- Avvocato mio, passano per matti tutti coloro che tentano un'ardita invenzione a cui nessuno ha pensato prima di essi.

- Tanto è vero che non è riuscito...

- È riuscito; se non che...

- Il diavolo ci ha messo la coda!...

- Non il diavolo, precisamente, a cui non poteva importare nulla del buon successo di quell'impresa. Egli ha ben altro da fare - è vero, signor Canonico? - per portarsi all'inferno tante belle signore...

- È riuscito? E non se n'è saputo nulla? - insisté l'avvocato Varaldi.

- Si è saputo quel che si poteva sapere; la tragica morte del povero marchese, ma incompletamente. Santa Pia, l'antico dominio dei marchesi Contaris, non è neppure un villaggio ma un piccolo aggregato di case attorno al castello feudale in parte crollato. L'ultimo marchese ne aveva fatto restaurare un'ala e andava a passarvi parecchi mesi dell'anno accanito cacciatore solitario, tra le balze delle montagne che circondano il castello nascondendolo alla vista dei viaggiatori affacciati agli sportelli del treno nella lontana pianura, attratti dall'orrido del paesaggio. Io ero allora ospite del medico condotto di un paesetto vicino, mio antico compagno di università. Cosí mi accadde un giorno di incontrare il marchese di Santa Pia in completo arnese di cacciatore montanaro... Eravamo armati di fucile anche noi, il mio collega ed io, cacciatori da ridere...

«Noi ci conosciamo soltanto di vista - egli disse al mio amico. - Le confesso che non mi dispiace. Coi medici, è meglio starne lontani. Brave persone!... Mah!...»

Rideva cosí sinceramente, che le sue parole non offendevano. Lo incontrai altre due volte; e siccome ero solo, ebbi il piacere di essere invitato al castello.

«Non invito pure il medico condotto, per una mia superstizione».

Stavo per confessargli: sono medico anche io; ma la curiosità mi suggerí la ipocrita scusa che mi trovavo colà da villeggiante, da ospite, e non esercitavo. Se fossi stato sincero, probabilmente, non avrei vistosaputo niente della maraviglia che il marchese di Santa Pia voleva far conoscere soltanto ad opera compiuta. Tanto è vero che il valore morale di certe nostre azioni è molto relativo.

«Lei ha una faccia che ispira fiducia, - mi disse. - Farà due cose: manterrà, finché occorra, il segreto; mi darà il suo schietto giudizio intorno al mio gran tentativo».

Promisi; e fui introdotto nel - non so come chiamarlo... Si dice: pollaio? Perché non si potrebbe dire: aquilaio? - nel vastissimo locale, specie di immensa gabbia, con da un lato finestre provviste di forti inferriate, e parecchi scompartimenti ridotti a nidi per l'allevamento delle aquile, dall'altro.

Indicandomi la vecchia aquila, con a un piede la grossa catena fissata a un anello piantato nel suolo, mi disse:

«È il mio trofeo di cacciatore. La colpii a un'ala sei anni addietro. Per farla vivere, dovei amputargliela. La curai, la guarii e - lo crederà? - mi ha dimostrato la sua gratitudine, addomesticandosi a poco a poco. Oggi posso accostarmele, accarezzarla; siamo buoni amici. Ma da principio... Il mignolo di questa mano mi fu stroncato da essa con un colpo di becco, quando era ferita e non voleva esser fatta prigioniera. Stette due settimane senza prender ciboacqua, terribilmente immobile, minacciosa, con atteggiamento proprio reale. Sembrava che volesse lasciarsi morire. Ora so che le aquile possono sopportare anche piú lunghe astinenze».

Ho dimenticato di dire - soggiunse il dottore - che il luogo dove si trovava quell'aquila era uno stanzino che precedeva il vastissimo locale di cui ho parlato. Entrando colà, ebbi la straordinaria sorpresa di veder alzarsi a volo tre aquile che però non parevano spaventate dalla nostra presenza. Si libravano in alto, rasentando il soffitto, quasi senza battere le grandi ali aperte, e, di tratto in tratto, mandavano fuori un grido acuto, una specie di lamento che faceva strana impressione. A un fischio del marchese, si affrettarono ad accorrere e a posarsi ai suoi piedi, con le teste ritte e i fulvi occhi vivacissimi rivolti verso di lui, interroganti, pareva, e in attesa di ordini.

«Sono state tolte dal nido - specie di grossolano corbello intessuto tra i rami di una quercia, in cima a quella montagna - e la indicò. - Erano implumi. Le ho imbeccate per parecchi mesi; non si saziavano mai. Appena mi vedevano entrare, tendevano il collo, col becco aperto; riconoscevano che ero - dirò cosí - il loro balio. Messe le penne, mi venivano dietro come tre cagnolini... E sono cresciute domestiche. Ho fatto una prova. Ne condussi una all'aperto, libera... Volò in alto, lontano; credei che non sarebbe tornata più... E tornò subito, al richiamo del mio fischio. Ripetei la prova con le altre due... Allora mi convinsi che la mia idea di render pratico l'allevamento delle aquile non era un'assurdità».

«Che vuol farne?» domandai.

«Voglio farne... i nostri cavalli aerei, i nostri aeroplani viventi. Non sorrida, non spalanchi gli occhi cosí...! Tra le aquile, la specie detta reale è la piú forte. Credo che con l'esercizio si potrà rendere piú robusta ancora e piú svelta. Abbiamo fatto questo miracolo con la razza cavallina. Pare che tentino di farlo con gli struzzi, in Australia. Io sono a buon punto. Guardi».

Staccò dal muro un arnese di cuoio, una specie di briglia, e l'adattò alla testa di una delle tre aquile, che pareva orgogliosa di esser preferita. Infatti aperse le ali, per dar comodo al marchese di cavalcarla, e prese il volo, lentamente da prima, andando su e giú pel vasto locale, obbediente alle redini, accelerando la corsa all'incitamento del fischio del cavaliere, abbassandosi e innalzandosi... Io guardavo a bocca aperta, quasi non credendo ai miei occhi. «È maravigliosoesclamai.

«Dovrebbe provare anche lei. Si faccia coraggio».

«Sono sempre stato un meschino cavalcante... Si figuri

«Non le pare che il problema sia risoluto

«Solamente...» obbiettai.

«Dica pure...».

«Solamente non so fino a quanto si possa calcolare su l'obbedienza del re degli uccelli».

«Si può calcolare assai meno su l'obbedienza degli ordigni di un dirigibile, di un aeroplano. L'aquila poi ha su di essi un gran pregio: non teme il vento piú impetuoso. Tra un anno mi propongo di fare esperimenti pubblici. Voglio essere assolutamente sicuro. E poi, non ci sarà mai una macchina che potrà sollevarsi cosí alto, fino a due mila metri. Non parlo della spesa. L'aquila non costa niente, appena il suo mantenimento. Le par poco? Tra cinquant'anni...»

Non potevo dire che il marchese di Santa Pia fosse un sognatore. La realtà che mi stava sotto gli occhi superava infatti le arditezze del sogno. Aveva inventato anche una specie di leggero sellino da fissarsi al petto dell'animale, all'attacco delle ali. Una solida tigna avrebbe mantenuto saldo il cavaliere sul sellino, per evitare che fosse preso dalla vertigine dell'altezza e dello spazio. Aveva pensato a tutto, fuorché alla orrenda possibilità... -

Il dottor Maggioli si fermò un istante, quasi volesse godersi l'ansiosa aspettazione suscitata negli ascoltatori.

- Dopo un anno - riprese - di continuo allenamento - mi pare che si dica cosí - egli era sicuro del fatto suo. Esercitava le tre addomesticate all'aria aperta, tra le gole delle montagne che circondano il vecchio castello. I suoi contadini lo vedevano, con terrore, partire sul dorso di un'aquila, perdersi tra le nuvole, radere le aspre cime rocciose, scendere, risalire, e tornare dalla aerea passeggiata, col viso raggiante di sodisfazione; forse lo credevano un mago. E un giorno essi furono impotenti spettatori dell'incredibile combattimento, della spaventosa tragedia che avveniva nello spazio. Videro apparire due punti neri su l'azzurro limpidissimo, che rapidamente s'ingrandirono, accostandosi all'aquila cavalcata dal marchese, e cominciarono a rotearle attorno. Erano due aquile che agitavano le ampie ali minacciosamente. Il marchese dové capire il pericolo, e spinse la sua alla discesa. Allora quelle si decisero all'assalto, chi sa? forse con l'intenzione di liberare la compagna asservita, forse sospinte da aspro bisogno di preda. La lotta durò pochi momenti. Colpito alla testa dai furibondi rostri delle assalitrici, il marchese fu visto abbandonarsi sul dorso della sua aquila che tentava di resistere colpendo alla sua volta col becco, quantunque il suo collo fosse impacciato dalle redini strette dal pugno del suo cavaliere. Muti di orrore, i contadini videro che una delle due aquile, afferrate col rostro le redini, trascinava in alto, dietro a sé, quella che piú non opponeva resistenza, mentre l'altra con gli artigli sollevava il peso del corpo del marchese, agevolando il volo di tutte e tre verso la cima piú alta della montagna. Sparirono dentro un'insenatura della roccia... E questa volta fu atteso invano il ritorno del marchese. Otto giorni dopo ne trovarono lo scheletro buttato via fuori dalla grotta dove le due aquile avevano il nido. La carcassa e gli arnesi della addomesticata, giacenti poco discosto dallo scheletro, fecero capire che anch'essa era stata uccisa e divorata. Nessuno, dopo la disgrazia del marchese, si ricordò delle tre aquile, di quella con un'ala, e delle altre due addomesticate. Un lontano parente del marchese, che ne raccolse l'eredità, arrivato al castello dopo un mese, le trovò morte di fame -.

 

 

 


Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License