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XVI.
Eravamo andati a passare l'estate a «Villa Fausta». Leggendo in cima ai pilastri del cancello questo nome sostituito per consiglio di mia madre a quello di «Villa Maria», riflettevo che avrei dovuto farvi incidere l'altro di «Villa Amara», come l'aveva chiamata il babbo al tempo della mia malinconica fanciullezza.
E una mattina, mentre per desiderio di Fausta noi due ci inoltravamo nei boschetti in cerca dei fiori di campo, lasciai sfuggirmi di bocca:
- Chi sa che mio padre non avesse ragione di chiamar questa villa «Villa Amara»!
- Tu la farai divenir tale per tua madre e.... per me! - rispose Fausta con insolito accento di tristezza.
Mi fermai per guardarla in viso. Era impallidita, tutt'a un tratto, quasi si sentisse mancare.
Avrei dovuto scusarmi di aver profferito quelle stolte parole, darle una spiegazione qualunque che avesse potuto almeno attenuarne il significato. Invece stetti zitto, attendendo con severa aria interrogativa che ella riprendesse a parlare.
- È inutile, - disse dopo alcuni istanti di pausa, - che tu continui nella tua misera finzione; non inganni nessuno; me, molto meno degli altri. E se crederai che io me ne lagni per mio personale interesse, prenderai un grande abbaglio. Quel che mi ha fatto passare tanti terribili mesi di ansia sopportati in silenzio è, sventuratamente, arrivato. Tu non mi ami più. Forse non mi hai amato mai. Amavi in me il tuo sogno; e quando esso è svanito, io sono rimasta per te uno strumento inservibile, un ingombro. Non mi importerebbe che sia così, se non ci fosse di mezzo mia figlia. Tu la stimi tanto poco tua che io non ho saputo mai dir «nostra» parlando di lei. Ieri ti ho accennato di quella contadina che vorrei scegliere per balia. Ti sei maravigliato della mia risoluzione.... È necessaria, è urgente; sarebbe un'infamia ostinarmi più oltre ed avvelenare col mio latte guasto la povera creaturina che ha avuto la disgrazia di venire al mondo mal gradita dal suo babbo. Tu non te ne sei accorto, perchè non la guardi; ma essa, da qualche mese in qua, deperisce; ha continui dolorini.... Non voglio vedermela morire di sfinimento.... Il mio latte si è mutato in veleno.
L'ascoltavo a capo chino, con le sopracciglia corrugate, come un accusato che sente pronunziare contro di sè un'ingiusta sentenza. Ella interruppe un istante lo sgorgo della parola, quasi per rifiatare; poi, riprese lentamente:
- Senza la bambina, sarei stata più forte di te; avrei sopportato il disinganno.... Giacchè avevo il mio sogno anch'io; sogno di affetto, di dedizione, di sottomissione, di sacrifici, non meno bello, non meno elevato del tuo e che avrei saputo attuare, perchè più ragionevole, più naturale. In altre circostanze mi sarei rassegnata. Non ti avrei mai rimproverato: - Perchè non mi ami più? Che cosa ti ho fatto? - So che non si ama quando si vuole, ma quando si può.... Mi sarei rassegnata senza cercare distrazioni o compensi; e avrei atteso il tuo nuovo risveglio, lusingandomi che potesse avvenire.... Ora no! Tu sei di quegli infelici che hanno superbamente difformato la propria intelligenza, il proprio cuore, e li hanno resi inumani.... Se non sentissi una gran pietà di te, non ti avrei detto niente. Non vorrei vederti fingere, perchè capisco quanto deve costarti. A che scopo, Dario? Rispondi: a che scopo?
C'era tanto dolore e tanta tenerezza nella sua voce, che avrei dovuto sentirmi spietrare il cuore, e buttarmele ai piedi per chiederle perdono. Le rivolsi una dura occhiata, mordendomi le labbra. Si era appoggiata con le spalle al tronco di un albero, e il pallore del suo viso risaltava tra i riflessi verdi delle foglie, tra le piccole chiazze d'oro con cui il sole, infiltrandosi a traverso i rami, ne punteggiava i folti capelli neri, la camicietta grigia, stretta ai fianchi da larga cintura di cuoio, e la gonna di color rosso cupo che il sole sembrava avesse spruzzata qua e là di vivo sangue.... La ho davanti agli occhi, dopo tanti anni, fissata nella memoria dall'iroso dispetto che in quel momento mi rendeva più avverso a colei della cui pietà mi sentivo offeso, quasi al danno fattomi ella osasse di aggiungere ora anche lo scherno.
Ma ella insisteva:
- Rispondi, Dario: a che scopo?
- Tu e mia madre, - feci cupamente, - dovreste lasciarmi covare il mio dolore, non occuparvi di me, tollerarmi se vi riesce. Ho fatto di tutto per nascondervelo. Passerà, forse, come passa ogni cosa in questo mondo. Mi sento però mortalmente colpito.
- È mai possibile, Dario, che un uomo come te si lasci abbattere dal crollo di una fantasticheria?...
- Era l'unica ragione della mia esistenza!
- Non vuoi tu che non finga, che non mentisca?
- Vorrei pure ben altro da te: uno sforzo, uno scatto di virilità, un impeto di resistenza.
- Non sono mai stato giovane. Non sono mai stato neppure fanciullo. Il mio triste destino è cominciato a svolgersi fin dalla culla. Mia madre mi ha visto crescere con lungo stento. Mio padre, un forte, aveva quasi sdegno di me. Forse, se egli fosse vissuto ancora, mi avrebbe risparmiato di commettere lo sbaglio che contrista te e mia madre. Io avrei dovuto vegetare e morire come una di quelle gracili pianticine selvatiche che non si sa perchè nascano, che non fanno fiori, che non danno frutto, che il sole inaridisce o il vento strappa alle rocce dove han trovato quasi un rifugio....
Mi prese per una mano, attirandomi. Ebbi la durezza di svincolarmi.
- Ero venuta da te con tanta gioia, - ella continuò dolorosamente, - con tanta ferma risoluzione di sollevarmi fino alla tua altezza e riuscire di esser degna del tuo nobile affetto. Ah, se allora, avessi saputo che tu avresti preteso da me l'impossibile, quel che nessuna volontà, nessun estremo sacrificio mi avrebbe mai concesso di darti!... E tu mi porti rancore di questo, come di una colpa, volontariamente commessa, come di un vilissimo tradimento.... Non dire di no!... Ne ho pianto in segreto, per non affliggerti di più. Tua madre ed io vorremmo confortarti, consolarti, e non sappiamo come. Abbiamo quasi paura di te noi due povere donne che daremmo volentieri la nostra vita per renderti felice.
- Paura di me?
- Non sdegnarti, se non so esprimermi bene. Son tante settimane che avrei voluto dirti quel che finalmente ti ho detto oggi. Tua madre mi consigliava: - Lascialo stare! Se sapesse il male che ti fa, diverrebbe più intrattabile, non per cattiveria. - è buono, immensamente buono - ma per vedersi ridotto suo malgrado a far del male a qualcuno. - Ed io invece ho pensato: E perchè devo permettere che egli inconsapevolmente mi faccia del male? Mi sarà grato di averlo avvertito; dovrebbe essermi grato! Per questo ho disobbedito alla mamma. Ne sono punita! Dunque tra te e me non c'è più niente, niente oltre il legame civile e religioso che ti è divenuto pesante catena?
- Oh, Fausta! Me ne fai accorgere ora tu; non mi è passato per la mente neppure un istante in questi miserrimi mesi! Perchè non hai taciuto? Perchè hai voluto rendermi più infelice? Ero così sopraffatto dal mio dolore che non mi preoccupavo punto del dolore degli altri!... Quel mio sogno distrutto....
- Possiamo riprendere e sognarlo. Sarebbe così bello, così dolce! Non mi dicesti un giorno: Sarà per un'altra volta; possiamo attendere?
- Non spero più! Certi sogni non si risognano!
- E dovremo vivere come due estranei che si sono incontrati accidentalmente per via?
- Voglio essere più forte del mio destino. Voglio vincere la brutalità del caso. Voglio aver l'orgoglio di proclamare: Non mi son sottomesso!
- Sottomesso a chi? A tua madre? A me?
Potevo dire: C'è qualcosa di peggio di quel che tu immagini?
E per sfogare tutta l'acredine che mi sentivo nel cuore, mi misi a calpestare furiosamente le erbe e le pianticine fiorite che smaltavano il suolo. Due lunghe lacrime rigavano le guance di Fausta. Ed io godei che ella piangesse!
Tornavamo verso la villa come due sconfitti, uno dietro all'altro.
- Non contristare la mamma, facendole sapere quel che è avvenuto tra noi.
- Non dubitare, - risposi un po' scosso dall'accento supplicante di Fausta. Avrei voluto aggiungere qualche parola cortese se non affettuosa; ma mi si fermò a mezza gola.
- E i fiori? - ci domandò mia madre, venendoci incontro.
- Non ne abbiamo trovati, - si affrettò a dire Fausta.
E corse verso la culla di vimini a ruote, dove la bambina armeggiava, con le manine, all'ombra della palma dai2 grandi rami quasi spioventi.
La seggiola là accanto indicava che la nonna si era intrattenuta durante la nostra assenza a sorvegliarla, a svagarla.
- Non ha pianto, - ella disse rivolta a Fausta.
Mi accostai e feci una lieve carezza alla bambina, solleticandole il mento. Sorrise, guardandomi fisso, quasi avesse indovinato che quella mano compiva un atto insolito e avesse voluto mostrarmi che lo gradiva.
- Povera piccina! - mormorò Fausta, mentre mi allontanavo temendo che ella non sapesse contenersi. Paventavo una scena alla presenza di mia madre.
Ero irritato profondamente di sapere che ella e Fausta si erano accorte di quel che io intanto non mi curavo molto di nascondere; avrei voluto che avessero finto di non avvedersi di niente, di abbandonarmi alla mia tristezza che esse, pensavo, non potevano intendere. Il mio convincimento delle inferiorità dell'intelligenza femminile aveva ricevuto una gran conferma dal recente colloquio con mia moglie. Quel che essa avea chiamato inumana disformazione della mente e del cuore era tuttavia per me il solo atto che mi rendeva degno del nome di uomo, un'elevazione oltre il senso, oltre l'immaginazione: la riflessione ridotta vita, carattere. Non voleva dir nulla, se circostanze accidentali ne avevano attraversato la compiuta azione. Il semplice tentativo mi inorgogliva; e il vederlo miseramente abortito non m'ispirava nessuna fiducia per rinnovarlo, anche se avessi ora ignorato il divieto fatale!
Una grave tristezza era piombata sulla nostra casa, un lutto di anime, di cui gli estranei non potevano avvedersi. Credevano che con la nascita di quella bambina ci fosse arrivata tale felicità da renderci gelosi di farla conoscere agli altri, da staccarci da tutto e da tutti, per concentrarci in un egoistico godimento di intense gioie domestiche. E tra quelle mura dove l'agiatezza, l'amore, la paternità spandevano, secondo la gente, gran luce di sorrisi, regnava invece la desolazione, della quale non sapevo riconoscermi, in parte, autore; vi si aggiravano, come ombre desolate, due caricature umane: Fausta, la bellezza intelligente, la giovinezza amorosa; mia madre, la sacrificata per tutta la vita,che non si era lamentata mai della sua sorte, e che aveva indarno sperato di veder consolati almeno gli ultimi suoi anni dalla felicità di un figlio costatole tante lacrime e tante cure.
E il sapermi anche invidiato a torto rendeva più vivo, più intenso il mio rancore contro le brutali forze della Natura, davanti a cui la sovranità del pensiero umano rimaneva impotente.