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XIX.
Non era stato possibile neppure a mia madre di persuadere Fausta della necessità di un consulto. Il suo pudore si ribellava, indignato; si ribellava anche il suo cuore. Più volte le aveva risposto:
- Ma perchè Dario non vuole accettare il sacrifizio della mia vita?... Sarebbe così bello, mamma!
La sua ostinazione mi irritava. E avrei dovuto essere invece profondamente commosso, orgoglioso, pur respingendo la triste offerta. Ero convinto della sincerità del suo atto, quantunque essa avesse tentato di farmi credere che sacrifizio non sarebbe occorso e che l'avvenire avrebbe smentito le cattive previsioni del dottore.
Questi però, nuovamente consultato da me, era stato più esplicito dell'altra, volta.
- La chirurgia non fonda la sua diagnosi su intuizioni, come la medicina, ma su fatti che si possono ripetutamente osservare.
E aveva parlato a lungo, con qualcosa di compassionante, di ironico nella voce, dopo che io gli avevo risposto:
- È orrendo che la Natura o l'accidente vietino a una donna di esser madre!
- Perchè? È consolante anzi che agli uomini la Natura abbia concesso una cosa da lei interdetta agli animali: il piacere.
- Ah! - risposi col mio hegelismo. - L'istinto è in noi già divenuto ragione; essa deve farne le veci.
- Lasci andare - continuò - cotesti sofismi da metafisici, che la scienza positiva non può ammettere. Il piacere è una gran bella realtà, e il genere umano non sarà mai disposto a rinunziarvi. Gli antichi sapienti ne hanno fatto una Dea; alcune religioni hanno popolato i templi dei loro idoli di sacerdotesse dell'amore. La vita è così piena di tristezze di ogni sorta, che sarebbe follia, delitto il privarla di una gioia che dà il pieno oblìo, non importa se per rapidi istanti. Non assumiamoci il superbo còmpito di correggere la Natura; siamo piuttosto grati ad essa di non aver creata la donna unicamente per la generazione. E per un falso concetto metafisico, lei, a cui la sorte ha dato in dono una delle più belle, fresche e sontuose coppe di amore, vorrebbe astenersi di accostarvi le labbra?
- Le profanazioni mi ripugnano, - risposi con accento severo.
- Lei è vittima del cristianesimo e della metafisica, o, per dire più esattamente, delle loro esagerazioni, che hanno mortificato per tanti secoli l'intelligenza umana e continueranno a mortificarla, fino a che la scienza positiva non avrà fatto rifiorire la schietta coscienza della vita. Vede? Oggi la Natura si vendica. Noi le impediamo il libero svolgimento, ed essa, per ripicco, torna a rimbestialire l'uomo. Il piacere non deve essere vizio, non deve essere eccesso, ma igiene dell'organismo sano. Religione e metafisica non pensano a questo; vi porrà rimedio la scienza, tardi, nell'avvenire, quando potrà. E non è fantasticamente superbo, è anticipazione della realtà ciò che le dico. Un uomo come lei avrebbe dovuto fare queste riflessioni prima che un povero chirurgo mio pari sentisse il bisogno di suggerirgliele per suo conforto e per consolazione della sua buona signora. Stia tranquillo; non oprerà niente di male, d'indegno, di brutto seguendo i consigli che le darò; le parla la Scienza per bocca mia.
- Grazie! - lo interruppi, rizzandomi dalla seggiola e prendendo commiato. - Su questo punto non potremo intenderci mai!
Quella pretesa scienza positiva mi faceva schifo. Immensamente più accettabile mi sembrava il generoso sacrifizio propostomi da Fausta: - Prendi la mia vita! Ti voglio tanto bene!
- E chi sa che non sia il grido sincero, inconsapevole dell'istinto, - pensavo, - che vede ben più in là delle fallaci previsioni della scienza!
Neppur oggi, dopo tanti anni, so dire se sia stata questa lusinga o l'irrompente rigoglio della virilità che mi travolsero e mi spinsero mio malgrado. So certamente che vi contribuì sopratutto la invincibile repugnanza di ridurre mia moglie a coppa di piacere, come si era espresso il dottore. Mi sarebbe parso di diventare, tutt'a un tratto, peggio delle bestie accettando i suoi consigli. Egli aveva parlato da uomo pratico, secondo la sua convinzione, ripetendo a me le stesse cose ridette a tanti altri con la medesima indifferenza con cui prescriveva una cura profilattica, o un'operazione di chirurgia a coloro che andavano a consultarlo.
Alla sua indifferenza scientifica si mescolava, quel giorno, un senso di gaiezza da satiro, che traspariva dallo scintillìo degli occhi, piccoli e arguti, e dal sorriso delle labbra grosse, sensuali, su cui egli passava spesso la punta della lingua, quasi volesse assaporar meglio la voluttà delle parole lentamente pronunziate. E questo avea concorso a rendermi più odiosi i suoi consigli.
Fausta mi attendeva con mia madre in un angolo del giardinetto che circondava la nostra casa. Il sole di quel pomeriggio di autunno inondava di splendore quasi roseo la bianca vestaglia di lana, guarnita di mostre azzurre, che ella indossava. Il bruno della carnagione risultava attenuato dai riflessi della stoffa e della parete della casa investita dal sole.
Arrivato davanti al cancello mi ero fermato alcuni istanti a guardare. Un mucchio di rose gialle, rosse avvampanti, candidissime, era deposto sul tavolinetto di ferro accanto a cui sedeva mia madre, mentre Fausta, in piedi, intenta a comporre diversi mucchietti, assortiva con cura i colori, le forme, la grandezza. Al lieve stridìo del cancello, ella si volse e con impeto di gioia mi lanciò addosso molte delle rose già scelte.
- Non le meriti, - disse ridendo. - Come sei maldestro!
Avevo tentato di afferrarne al volo qualcuna e non ero riuscito. Mi chinai a raccoglierle tutte, e gliele riportai sul tavolino.
- Perchè mi guardi così? - domandò Fausta.
Infatti la guardavo con una specie di stupore e di ineffabile compiacenza, quasi la rivedessi dopo lungo intervallo e la trovassi trasformata. Mai la sua delicata bellezza mi era apparsa tanto attraente dopo il tristissimo avvenimento che aveva portato la desolazione nella nostra casa. In quel momento mi sentivo liberato da ogni rimpianto, da ogni seduzione di alti ideali; mi sentivo uomo e innamorato, senza nessuna ombra di sospetto che tutto ciò potesse nascondere un'atroce insidia della sorte.
- Perchè mi guardi così? - replicò Fausta.
- Osservavo certi effetti di luce, - risposi imbarazzato.
- Ah! - ella fece, un po' delusa.
E si rimise a scegliere le rose, a distribuirle in mucchietti di varia grandezza. Io seguivo il rapido movimento delle sue mani che sconvolgevano il grosso mucchio, affondando le dita tra il verde delle foglie, distrigando i gambi, rizzando ogni rosa per giudicare a qual mucchietto avrebbe dovuto destinarla; e mi pareva di scorgervi tremiti, e vibrazioni che non provenivano soltanto dalla gentile occupazione alla quale ella era intenta.
- E non comunichi a Dario la bella notizia ricevuta da Roma? - disse a Fausta mia madre.
Alzai il capo con vivissima curiosità, fissando Fausta negli occhi.
- Roberto si è fidanzato. Sposerà in ottobre.
- Davvero? - esclamai. - Questa sua risoluzione mi stupisce. Ha detto sempre di voler conservare la sua libertà. Credevo che si preparasse alle lotte della vita politica.
- Il matrimonio glielo impedisce forse?
- No, mamma, non glielo impedisce. Ma per certi ufficii esso, più che un peso, è un ostacolo. Io credo che l'artista e l'uomo politico dovrebbero imitare il missionario: votarsi al celibato.
- Gli artisti e gli uomini politici non cessano di essere uomini come tutti gli altri, - intervenne Fausta.
- Non sono come tutti gli altri, o almeno non dovrebbero esser tali. La loro funzione sociale è più nobile e più elevata: ha scopi assai diversi che non quella delle persone ordinarie.
- Non fanno da artisti o da uomini politici anche quando mangiano e dormono!
- Mangiano e dormono pure le bestie. L'uomo è uomo soltanto quando pensa e agisce secondo che pensa, Ora tra l'artista, l'uomo politico, e il matrimonio, c'è assoluta incompatibilità. Vuol dire, che si può essere uomo mezzo e mezzo. A me però non piace. O Cesare o niente, diceva il Valentino; e aveva ragione.
- Sposa una bella e ricca signorina.
- Lo pensavo; Roberto è uomo pratico.
- Intende giustamente la vita; non si smarrisce tra le nuvole.
- Guarda! - le dissi, additando il cielo verso ponente.
Le nuvole invadevano lo spazio, leggere, rosee, scure, bianchiccie e orlate di oro, spinte in su da un soffio di vento che pareva si divertisse a farle mutare di aspetto. Si allungavano in isolotti nello smeraldo del cielo, si trasformavano in figure di mostri, cavalcati da esseri strani, che la corsa disfaceva; si elevavano in torri, in scalinate, in collinette che si confondevano insieme, annullandosi lentamente, assumendo da lì a poco altri aspetti bizzarri.
- Guarda! - soggiunsi. - Smarrirsi lassù, in mezzo a quel visibile sogno di vapori acquei, dev'essere una gran bella sensazione! Ma il cielo della Intelligenza ha nuvole anche più meravigliose, ed è sensazione infinitamente più bella lo smarrirsi tra esse.
- Io rassomiglio a mio fratello; preferisco la realtà.
- Fantasticare ha, talvolta, il suo vantaggio, - concluse mia madre. - Non bisogna però abusarne.
In quel punto le nuvole del mio fantasticamento assumevano la forma di una bruna creatura, bianco - vestita che mi prendeva per mano e mi portava via con sè, sorridente, felice, col capo abbandonato indietro, con gli occhi socchiusi, le labbra atteggiate a un sorriso di beatitudine intensa.... E non sapevo distinguere se questa visione era accidentale aspetto delle nuvole additate poco prima a Fausta, e che si sarebbe subito alterato e difformato, o se gentile realtà, intraveduta quasi in sogno dal cuore!
Tutto questo era durato pochi istanti. La mia abitudine di riflettere prendeva subito il sopravvento; e osservando Fausta, che, terminato il lavoro di scegliere e di assortire le rose, si era allontanata silenziosamente, protestavo, nell'intimo, contro l'enormità del sacrifizio della sua vita, che io, nell'indignazione contro i consigli del dottore, mi ero sentito quasi disposto ad accettare.
A che scopo avrei immolato quella giovinezza, giacchè (non potevo più dubitarne) l'immolazione era sicura? La vita di una donna, sì, aveva per fine supremo la maternità; ma a quante le condizioni fisiche, le circostanze sociali non impedivano di raggiungerlo?
Agli altri era stato facile sciogliere questo problema della vita coniugale; a me ispiravano orrore tutte e due le soluzioni che mi si presentavano davanti come possibili. Non si muta compiutamente il complesso di sentimenti e di idee che ha formato il nostro carattere, la nostra personalità; allora credevo così. Mi ero rassegnato al mio destino; pensavo soltanto, come a lontanissimo passato, alla orgogliosa illusione sostituita all'altra mancata illusione di riuscire un grande artista. Mi sarei contentato ormai di vivere da umile borghese, tra mia madre, mia moglie e i miei figli.... Ed ecco la crudeltà del caso che sopraggiungeva a interdirmi anche questa ultima, umilissima soddisfazione!
Ero rimasto seduto accanto al tavolino di ferro ingombro di fiori dal lato opposto a quello di mia madre che aveva ripreso a leggere un fascicolo di non ricordo più quale rivista illustrata. Vedevo Fausta laggiù, presso il muro di cinta coperto di piante rampichine; e il bianco della sua vestaglia risaltava sul verde dei fitti rami, come qualcosa di vaporoso che si moveva lentamente. Le sue braccia si alzavano a staccare una foglia inaridita, ad aggiustare un ciuffo di fronde troppo denso, e mi pareva compissero una strana opera d'invocazione e di preghiera nei momenti che indugiavano in alto. La seguivo, intento, conturbato dal suo silenzioso allontanamento. Le mie parole accennanti alle nuvole avevan dovuto ferirla, e si era mossa lentamente lungo il breve viale, avea girato attorno a una aiuola, ed ora seguiva la linea retta del muro di cinta, fermandosi, tornando indietro di qualche passo, riprendendo a procedere con l'atteggiamento rigido di una sonnambula.
E di nuovo, mi sentivo invadere da quello stupore, da quella ineffabile compiacenza che avevo provato trovando Fausta nel giardinetto con quel mucchio di rose davanti. Scattai da sedere e mi avviai verso di lei, quasi accorressi a un suo appello. Al rumore dei miei passi su l'arena del viale, ella si voltò con un incerto sorriso su le labbra, e una timida interrogazione nello sguardo.
- Che cosa vuoi dirmi? - domandò Fausta.
- Voglio dirti, - risposi, e mi tremava la voce, - che sarebbe una grande infamia della Natura se le tristi previsioni del dottore dovessero avverarsi!
- Ah! - esclamò subito. - Credevo che non mi amassi più!
Sussultava di gioia, mormorando il mio nome, sollevando fieramente la fronte in atto di sfida al destino; e in quell'istante mi sentii forte anch'io contro di esso, e quasi mi parve di aver vinto!