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XX.
Oso appena di riandare i terribili mesi vissuti sotto l'incubo del dubbio che io avessi commesso un delitto. Non so spiegarmi come mai l'organismo umano possa reggere il tormento dell'ossessione di un orrido insistente inevitabile pensiero, senza che vi si produca una lesione al cervello, o un disordine nelle più delicate funzioni vitali.
Una mattina, su la terrazza, mentre assistevamo armati di cannocchiali alle manovre militari che si svolgevano su la collina lontana, e nella sottostante pianura, Fausta die' un piccolo grido.
- Che cosa è stato?
- Niente!
Ma i suoi occhi brillavano di allegrezza, e le sue guancie si erano improvvisamente imporporate. E, dopo breve pausa, mi sussurrava in un orecchio:
- È arrivato!
- Chi?
- Possibile? Senza che nessun sintomo lo abbia preannunziato?
- Qualcuno, sì; ma l'ho taciuto, temendo di ingannarmi.
- E ora?
- L'ho sentito agitare!... Sono certa.
- Benissimo. Nessuno dei fastidi della prima volta. Non sei contento?
- Sì.... Mi sembra però....
Ero atterrito appunto da quella quasi completa assenza di sintomi. Che giorni! Che settimane! Che mesi! E la povera vittima sorrideva! E si sarebbe detto che la Natura volesse darle il compenso d'una salute eccezionale, e anche d'una bellezza eccezionale! Mai Fausta non era stata così bene, così florida come in quegli ultimi mesi di gestazione che mi tenevano attanagliato da un'angoscia senza nome, perchè dovevo nasconderla a lei e a mia madre, fingendo un'allegria quasi più penosa dell'angoscia che voleva celare.
Ancora un mese, e avrei saputo che la speranza ci aveva ingannati! In quei giorni mi arrivava il nuovo romanzo di Bissi con la dedica affettuosissima a Fausta e a me, augurando che il bel sogno dei nostri cuori diventasse anche più bello nella realtà. Leggendo queste parole mi ero sentito salire le lacrime agli occhi. Fausta, oltre che per l'augurio, era felice di veder stampato il suo nome in testa al lavoro d'arte di un amico già consacrato dalla gloria. Diceva che quell'augurio, ripetuto a migliaia di pagine, letto da migliaia di occhi, e forse pronunziato ad alta voce da migliaia di bocche, non sarebbe rimasto augurio vano. E me lo ripeteva spesso, con espressione di birichineria bambinesca che mi faceva tremare di pietà.
- Eh? Che il bel sogno dei vostri cuori.... diventi anche più bello nella realtà!... Più bello! Capisci?
Aveva divorato il libro, segnando molte parti che le sembravano quasi scritte per me.
- Senti, - rileggeva con enfasi: - «Tentando d'intravedere l'avvenire, l'uomo spesso dimentica la bontà del presente, e si stima infelice». - Senti: «Amare è quasi niente, se non s'intende e non si apprezza in che modo e fino a che punto ci corrisponda il cuore della persona da noi amata».
Ho sotto gli occhi le pagine segnate dalla sua mano col lapis bleu; e mi par di scorgere, dalle linee diritte, vibrate o ondulanti, sui margini, il sentimento che ha prodotto il gesto e la traccia del segno; qualcosa che vive ancora là dopo tanti anni, e non potrà più sparire.
La lettera di ringraziamento che Fausta scrisse a Bissi era un capolavoro di grazia e di finezza epistolare; tra le altre cose gli diceva: «Ho gradito l'onore della sua dedica quanto il cordialissimo augurio, e significa: immensamente. Ma forse esagero un po': per l'augurio vorrei trovare una parola che vada più in là dell'immensamente; la cerchi lei per conto mio. Quando lo riavremo ospite nostro? Venga a convincersi che il suo romanzo non è soltanto un bellissimo libro, ma un vero porta - fortuna».
Povera Fausta!... Neppure un momento di dubbio mi parve che la turbasse in quegli ultimi giorni. La vedevo andare incontro al destino come una vittima coronata di fiori. Ne profondeva in ogni stanza, specialmente nel suo salottino, spargendoli fin per terra con strana soddisfazione. Diceva di voler così infiorare la via all'Atteso, al Nascituro; pensava di ridurre la culla una cesta di fiori, tra cui doveva riposare e dormire il fiore più bello e più raro, Colui che in quegli ultimi giorni la faceva soffrire come non aveva mai fatto durante la gestazione.
Mi buttai ginocchioni, davanti a la sponda del letto, baciando la sua mano esangue, quasi fredda per l'invadente gelo della morte.
- Perdonami, Fausta! Perdonami! - balbettavo convulso, senza lacrime.
Ebbe la forza di sorridere e di agitar le labbra, per parlare.
- Addio!... Muoio.... contenta!
Quasi fievole suono di voce che arrivava da lontano, dal confine dell'ignota regione dove ogni esistenza va a perdersi.... E subito un travolger di occhi, un impietrarsi delle pupille, un lieve sussulto.... e poi nient'altro!
Il doppio gran sacrificio, della madre e della creatura, era compiuto!
E non potevo piangere! Non potevo urlare! Non riuscivo a sfogarmi in nessuna maniera!
Ero impietrito dall'orrore di aver contribuito, per debolezza, a quel delitto; e il rimorso, che mi ha avvelenato tutta l'esistenza, mi fa rabbrividire anche oggi, come d'infamia recente.
Avrei dovuto resistere a ogni lusinga, a ogni illusione io che mi reputavo il più forte, il più savio, e non prestar mano a un suicidio qual è stato il sacrifizio di Fausta: - Prenditi la mia vita! - Giacchè (ora lo comprendo) ella ha voluto morire pel dolore, per la disperazione di non poter essere più la donna capace di darmi la gioia per cui l'avevo sposata; ed è andata incontro alla morte sorridendo, fingendo di esser convinta che le tristi previsioni sarebbero state smentite, felice di aver travolto me in un inganno senza il quale non avrebbe potuto attuare il suo reciso proposito di sparire.... Forse, povera creatura, ha avuto dei momenti di illusione, di speranza anche lei; o si è risoluta a scegliere quel mezzo, non sentendosi il coraggio di uccidersi diversamente; lottando col sentimento religioso che le faceva apparire il suicidio come il più imperdonabile dei peccati, transigendo con la sua coscienza e acchetandone la voce col ripetersi nelle esitanze: - Chi sa? Chi sa?
La maggior colpa però è mia; e consiste nel superbo intento di voler mettere la ragione nelle piccole irragionevolezze della Natura; consiste nell'invincibile repugnanza di profanare la donna riducendola soltanto vile strumento di piacere. Ma questo dignitoso sentimento è ora l'unica forza che mi permette di ricordare Fausta con continuo atto di adorazione. Io non ho inflitto alla sua bellezza, alla sua giovinezza, alla sua purezza, quel che giudico anche oggi la suprema mortificazione, il supremo oltraggio che si possa fare mai infliggere a una moglie. E per questo benedico all'inganno di lei. Ella è rimasta santa, immacolata; ella mi ha permesso, a costo della sua vita, di aver l'orgoglio di sentire che la unità della mia intelligenza e dei miei atti non è stata violata un solo istante.
Mia madre era inconsolabile:
- Perchè non ho avuto fiducia nelle parole del dottore? Ho contribuito stoltamente io pure a spingerla, cara figlia, verso la morte!
E vedendomi quasi ebete pel dolore, spaventata da quella falsa calma che mi inaridiva gli occhi, che non mi consentiva neppure il lieve conforto dei singhiozzi, mi passava le mani sulla testa e sul viso, accarezzandomi come un bambino, e ripetendomi, quasi per incoraggiarmi, per determinarmi:
E il pianto venne, straziante, abbondante, con singhiozzi che pareva volessero soffocarmi. Ma quando fu il momento di comporla nella cassa che doveva custodirla per l'eternità, tornai improvvisamente tranquillo, quasi inconsapevole di quel che operavo. Mia madre l'aveva fatta rivestire col bianco abito nuziale. Il viso di Fausta aveva assunto un'espressione di placido sonno. Cereo, un po' più affilato dell'ordinario, conservava, ciò non ostante, tutta la delicatezza dei lineamenti, con qualcosa di severo che ella soleva prendere in rare occasioni quando il suo cuore si indignava per le ingiustizie della sorte e della prepotenza degli uomini.
Io la sollevai, insinuando le braccia sotto il corpo rigido e appesantito; la collocai con precauzione, quasi temessi di destarla da benefico sonno, dentro la cassa, aggiustando le pieghe della veste, sospingendo un po' il guanciale perchè la testa vi si adagiasse comodamente, e - lo ricordo bene - mi chinai a parlarle sommesso vicino alle labbra:
- Dormi, cara! Sogna, cara! Sogna!
E non mi parve assurdo che io le dicessi così.
Mia, madre aveva fatto recare una cesta di rose, e cominciò a spargergliele addosso a piene mani.... Ne versai a piene mani anch'io, lasciando libero soltanto il viso.... E ripetei sommessamente:
- Dormi, cara! Sogna, cara! Sogna!
Soltanto al ritorno dal cimitero io ebbi coscienza del gran vuoto che la morte di Fausta aveva fatto nel mio cuore e nella mia casa. Mi sembrava quasi impossibile che la presenza di quell'esile corpo avesse potuto occupare tanto posto, e animare ogni cosa col suo sorriso, col suono della sua voce. Mi sembrava quasi impossibile che tutti gli oggetti del suo salottino, della nostra camera fossero rimasti dov'ella li aveva collocati con squisito senso di arte; che niente del mio dolore si rivelasse nelle linee delle loro forme, nello scintillìo dei loro colori. Il pianoforte era aperto come lo aveva lasciato lei il giorno fatale, e sul leggìo stava la «Cavalcata delle Walchirie», quasi le ultime pagine attendassero ancora le mani che dovevano riprendere ad eseguirla.
E tutto è rimasto così com'ella lo aveva lasciato; e tutto, ancora per qualche tempo dopo la mia morte, sarà religiosamente conservato così. Poi.... Anche nel mio cuore, nei miei ricordi non avverrà altrimenti. Fausta, diventerà una dolce visione lontana, verso la quale gli occhi del mio spirito si rivolgeranno, di tanto in tanto, in certi momenti di sfiducia, di tristezza. La vita ci sopraffà; scancella o appiana tracce che abbiamo creduto incancellabili, profonde; altri dolori, altre gioie si sovrappongono a quelli che ci sono stati più cari, e il gran mondo fluisce, fluisce, e finalmente porta via pure noi, versandoci nel cuore l'oblìo.