Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Rassegnazione
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RASSEGNAZIONE

XXIII.

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XXIII.

 

Qualche cosa del nostro corpo e dell'anima nostra si espande forse attorno a noi e si attacca indelebilmente alle mura della casa che abbiamo lungamente abitata, agli oggetti di ogni sorta che ci hanno tenuto compagnia per tutta la vita e sono stati muti, inerti testimoni delle nostre gioie e dei nostri dolori.

Non so spiegarmi altrimenti le impressioni ricevute dopo solo sei mesi di assenza.

Mia madre, venuta ad incontrarmi all'arrivo, mi aveva abbracciato con straordinaria commozione.

- Sei stato malato?

Avevo tale cera da giustificare l'ansiosa domanda. Ero pallido, dimagrito, e la grande tristezza che non sapevo dissimulare aumentava la mia aria di sofferente.

- No, mamma - risposi. - Lo strapazzo del viaggio, la perdita del sonno.... Pochi giorni di riposo basteranno a rimettermi nello stato di prima.

Sorrideva, un po' incredula.

- Ero certa che ti saresti trovato qui per domani l'altro. Milano è città maliarda; fa dimenticare facilmente. Non ti rimprovero, Dario. Le mamme sono un po' egoiste; bisogna compatirle.

Con che dolcezza mi guardava e mi parlava! Sentivo rimorso di aver mentito, scrivendole che avevo pensato anche io di trovarmi presente al primo anniversario della morte di Fausta.

- Ho già disposto ogni cosa, - soggiunse. - Molti fiori, oh, molti! Li amava tanto! Durante questi sei mesi glien'ho portati io stessa ogni venerdì, giorno della sua morte. Non le mancheranno mai finchè campo....

E mi parve che intendesse di dire:

- Morta io, forse non li avrà più. Povera Fausta!

Volevo protestare; ma non ebbi animo di aggiungere una probabile menzogna a quella che le avevo scritto da Milano.

Passando da una stanza all'altra, quasi per istintiva sollecitudine di riprenderne possesso, provavo la strana sensazione di sentirmi risospingere molto addietro, agli anni più fecondi di illusioni, alle lotte contro me stesso, a quella specie di sottomissione a un ideale meno elevato, ma consolantissimo che mi aveva fatto stendere la mano a Colei che avrebbe dovuto avverare il mio nuovo sogno. E questa sensazione era così fresca, così «presente» - non trovo un'espressione più esatta - da farmi credere, come l'altra volta, che la mia vita si fosse arrestata a quel punto e che dovessi allora riprendere a procedere innanzi, quasi le delusioni non fossero arrivate, quasi il disastro non fosse avvenuto, ed io non avessi commesso l'atto disperato di tentar di ammazzarmi moralmente, non avendo forse il coraggio di ammazzarmi realmente.

Se non che notavo un particolare. Niente mi parlava di Fausta, come se ella sdegnasse di ripresentarsi alla mia mente, di far ripalpitare il mio cuore. Non la ritrovavo in nessun angolo di quella casa che pure era stata illuminata dai suoi sorrisi, che avea risonato della sua voce, delle sue gaie risate nei bei giorni dell'attesa.

Il suo salottino, che conservava qualche traccia di disordine nei libri, nei ninnoli, negli oggetti di arte, da dover dare la idea che ogni cosa fosse stata recentemente smossa dalla mano della signora del luogo, era significantemente silenzioso, di un silenzio inesprimibile, di un silenzio di orgoglio - mi pareva - e di dispetto,

I ritratti, belli, somigliantissimi, in varie pose, rimanevano muti anch'essi, come di persona ignota, di cui potevo ammirare la purezza delle linee, l'espressione degli occhi e delle labbra, senza che mi producessero la più lieve tristezza di ricordi.

Questa inaspettata aridità di cuore mi stupiva grandemente; non sapevo a che cosa attribuire l'impressione negativa di quei giorni, quantunque mia madre, immaginando di farmi piacere, mi parlasse spesso di Fausta, con voce piena di lacrime, con tenerezza profonda.

La giornata era grigia, senza sole. In quell'ora mattutina, pei viali del cimitero non si incontrava anima viva. Mia madre mi precedeva con passo affrettato. La modesta tomba di Fausta, era sparita sotto un gran cumulo di fiori; emergeva soltanto, tra le rose gialle e bianche, la breve colonnina sormontata da una piccola urna di porfido. Al cancello di ferro battuto si erano, torno torno, avviluppati rami di piante rampichine con penduli fiori di colore amaranto; otto grossi ceri già ardevano agli angoli.

Mentre mia madre, inginocchiata sul gradino sporgente dalla base pregava in gran raccoglimento, io, rimasto in piedi dietro a lei, mi sentivo invadere da un tormentoso senso di invidia per Colei che dormiva sotterra il sonno da cui nessuno si desta. Non riuscivo a immaginarmela disfatta, ridotta orrido scheletro, irriconoscibile. Ora mi si ripresentava proprio quale l'avevo veduta allora appena da me composta nella cassa mortuaria, col viso cereo, con gli occhi chiusi, e le labbra smorte, serena; e mi sembrava che avesse dovuto continuare a dormire, forse a sognare come io le avevo affettuosamente sussurrato nell'istante del distacco.

- Felice te! - pensavo. - Vorrei già poter dormirti accanto, ora che non ho più niente che mi lega alla vita!

E a poco a poco quel tormentoso senso di invidia si calmava per dar luogo a un sentimento di compassione di me stesso, che tornava a farmi zampillare nel cuore inaridito la sincera e copiosa onda di affetto di cui era stato capace negli ultimi mesi della vita di Fausta, quando l'avevo amata umanamente, senza sottintesi, senza secondi fini, per la sua bellezza, pel suo affetto, pel suo sacrifizio; e avevo tremato dall'angoscia di perderla, dal rimorso di aver affrettato sconsigliatamente la sua misera fine; e l'avevo pianta come non avevo mai pianto fino allora, dopo.

E così Colei, che nei giorni scorsi mi era parsa assente da ogni angolo della casa, rientrava trionfatrice nella riposta intimità dell'anima mia; consolatrice anche, suaditrice di andarle incontro con la stessa ferma volontà con la quale ella aveva affrontato il terribile enimma da cui dipendeva per lei la vita e la morte.

Mia madre mi rivolse un'occhiata supplicante, allorchè, rientrati in casa, le dissi:

- Lasciami qualche ora solo con lei!

Sentendomi parlare di Fausta come di persona ancora viva, ella esitò un istante, temendo forse per la mia ragione; la indifferenza dei giorni scorsi doveva esserle parsa uno sforzo per ingannarla intorno al vero stato dell'animo mio. La rassicurai con una stretta di mano; ed entrato nel salottino, chiusi l'uscio dietro a me.

Spalancai la finestra. Il sole, diradato il fitto velo di nuvole che lo aveva nascosto nella mattinata, penetrava nella stanza infondendo un palpito di vita su tutti gli oggetti sparsi attorno che la sapiente mano di Fausta aveva disposti sui tavolinetti, su le mensoline, alle pareti, con squisito senso di armonia. Fin i fiori, già inariditi nei vasi senz'acqua, sembravano rinverdire i brevi rami e rianimare il colorito delle foglie risecchite e ingiallite.

Non ostante la diffusa luce, io guardavo attorno come chi entrato in un luogo mezzo buio strizza gli occhi per scorgere gli oggetti che vi si trovano, e li vede a poco a poco quasi venir fuori dalla penombra per virtù di tenue propria luminosità. Non mi bastavano la forma, il colore degli oggetti; volevo che essi mi rivelassero qualcosa delle mani che li avevano toccati, e disposti qua e : il profumo, la essenza vitale che avean dovuto rimanere attaccati ad essi nei ripetuti contatti.

E, quasi come una realtà, Fausta si aggirava pel salotto, ripetendo nella mia memoria gesti, atteggiamenti, mosse che ora mi rappresentavano tanti lieti e tristi momenti della nostra vita di sposi; si aggirava pel salotto, muta però, perchè io non riuscivo a produrmi, ricordando, l'illusione di udirne la voce, allo stesso modo che mi riproducevo un movimento delle mani, un passo, un sorriso, un balenar di occhi, un cruccio che le aveva velato improvvisamente la dolce serenità del viso, un'espressione di dolore che le aveva contratto le labbra.

Avrei voluto che mi fosse avvenuta una compiuta allucinazione; i soli ricordi non mi appagavano. E se, anche per un istante, avessi potuto vedermela comparire davanti, le avrei gridato: - Portami via, portami via con te! O dammi la forza di venir volontariamente a raggiungerti!

Era stata sublime. Se non era arrivata precisamente alla decisione di voler morire, aveva dato prova di eroico coraggio affrontando l'incognita del pericolo preavvisato dal dottore. Aveva dovuto dubitare qualche volta, e certamente esclamare: - Che importa? In ogni caso, meglio così! - Era stata sublime!

Io, invece, avevo commesso la vigliaccheria di rinnegare ogni mio ideale, la profanazione di stringere tra le braccia quasi consacrate dal suo bellissimo corpo, di baciare con le labbra che erano state ribaciate dalle sue, vilissimi corpi e impure labbra insozzati dell'imbrattamento di altri contatti non meno vili ed impuri. Mi sentivo soffocare dalla nausea di esser potuto giungere a tanto. La grande idealità che aveva rallegrato e confortato la mia giovinezza, che mi aveva preservato da ogni bassa azione ed era stata il mio unico grandissimo orgoglio, mi rigurgitava nuovamente nell'intelletto e nel cuore, operava nel mio spirito un misterioso purificamento, adempiva la redenzione iniziata poche ore addietro dall'influsso di Fausta davanti alla sua tomba infiorata.

Oh! Se lei non veniva a portarmi via, ora mi sentivo degno di andarle incontro nell'indefinita serenità dell'Ignoto, che in questo momento la fantasia mi animava, contro ogni mia convinzione, di persistenti forme di vita.

- Dario! - chiamò mia madre, picchiando leggermente all'uscio e aprendolo a mezzo.

Mi riscossi e le feci cenno di entrare.

- Senti: - disse dopo di aver guardato tristamente attorno. - Io credo che noi dobbiamo pensare ai nostri morti senza dolore e senza rimpianto. Se è vero, che essi ci stiano attorno, vivano, invisibili, la stessa vita di una volta o almeno ritornino di tanto in tanto per aiutarci e ispirarci qualche buona azione - ho questa fede, da donna mezza ignorante, e non la cambierei con la opposta certezza di voialtri sapienti - se ciò è vero, noi non dovremmo affliggerli con lo spettacolo di un dolore inconsolabile, che non giova ad essi a noi. Senti, Dario: tu mi dai una gran pena restando così chiuso con me; mi sento come esclusa dal tuo cuore.

- Oh, mamma! - esclamai.

- Poco fa, - ella proseguì, - hai avuto il coraggio di dirmi: - Lasciami solo con lei! - Perchè? Non le ho voluto bene anche io? Non l'ho pianta anche io? Parliamone insieme, Dario. Onoriamone la memoria con una bell'opera di carità. Ho fatto qualche cosa a tua insaputa, e non soltanto per conto mio. Prendi ora tu una generosa iniziativa.

- Ho pensato appunto a questo! - risposi, mascherando con un sorriso il tetro significato delle mie parole.

 

 

 


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