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Ernesto cominciava già a rassicurarsi; erano passate tre settimane, tre terribili settimane, e nessuno s'era accorto della mancanza del cucchiaio d'argento da lui rotto.
Egli lo avea riposto in fondo a una cassetta dell'armadio di camera sua, involtato in mezzo giornale; e durante quei giorni non aveva osato di aprirla neppure una volta, per paura di essere sorpreso in quell'atto dalla mamma, a cui non piaceva che si frugasse nei mobili.
Era pentito di averlo nascosto; ma nel turbamento della disgrazia, dopo che s'era messo in testa di piegare il cucchiaio quasi fosse stato di legno flessibile, la paura di essere sgridato e castigato gli aveva sùbito suggerito quell'espediente. Ora rifletteva che sarebbe stato meglio lasciarlo là, sul tavolino, dove l'aveva trovato quel giorno che gli era venuta la brutta tentazione di mettersi a giocare con esso.
Chi gliel'avea visto rompere? Nessuno. Se avessero sospettato di lui — sospettavano sempre di lui quando si trattava di qualche rottura! — egli avrebbe potuto francamente negare e fare, se occorreva, un giuramento pur d'evitare una punizione. Da qualche tempo in qua, babbo, mamma, zia ce l'avevano, tutti, con lui. Pareva destino ch'egli dovesse rompere qualunque oggetto gli capitasse alle mani.
— O che poteva farci? —
Si scusava così della sua sbadataggine, invece di pensare a stare attento e di sforzarsi a maneggiare le cose con le debite precauzioni.
Quel cucchiaio rotto e nascosto gli aveva fatto passare cattive giornate e peggiori nottate. Lo sognava. Gli pareva che si agitasse e tintinnisse di fondo alla cassetta per farsi sentire, e avvertire la mamma: — Mi ha spezzato Ernesto e mi ha riposto qui! — E si svegliava di soprassalto, sbarrando gli occhi, tendendo l'orecchio nel silenzio della notte, quasi il cucchiaio avesse potuto davvero agitarsi e tintinnire in fondo alla cassetta.
Ma nessuno lo cercava, nessuno ne parlava; neppure Betta, la nuova servotta arrivata dalla campagna un mese addietro, e che con l'argenteria era meticolosa assai, e la rassegnava e la contava e la ricontava, dopo che l'aveva lavata e ripulita e asciugata, prima di riconsegnarla alla padrona.
Ed egli fantasticava, più e più rassicurandosi:
— Un giorno prenderò quel cucchiaio e confesserò la mia colpa; ma dirò anche: Vedete? Nessuno si è accorto che mancava un cucchiaio. Siete sbadati anche voialtri!
Così forse non lo avrebbero castigato.
Ma una mattina sentì la mamma che diceva a Betta
— Cerca bene in cucina; manca un cucchiaio. —
Cacciò fuori la lingua per significare: Ci siamo! e corse in camera sua, a fine di sfuggire a un'interrogazione. Il cuore gli batteva forte; non avrebbe saputo mentire, preso così alla sprovvista. In camera, aperse un libro, finse di leggere e intanto preparava mentalmente le risposte da dare.
Infatti poco dopo capitò la mamma.
— Ernesto, hai preso tu un cucchiaio di argento?
— Io? Per che scopo?
La mamma, sapendo con chi avesse da fare, aveva soggiunto quella domanda a bruciapelo. Ernesto, con voce indignata, protestò:
— Ma io non so di cucchiaio, nè di forchetta! —
Sopraggiunse la zia.
— Ah! Lo ha preso lui?
— Dice di no, — rispose la signora. E soggiunse: — È strano; in casa nostra non è mai mancato niente.
— Betta, piange in cucina — rispose la zia.
— Chi l'accusa? — disse la signora. — Questo mi fa sospettare. —
Ernesto, con gli occhi sul libro, vedeva ballare le lettere e non poteva leggere una sola parola.
— Si troverà.... — borbottò, affettando indifferenza.
Ma quell'indifferenza non capacitava la zia.
— Cercalo tu! — gli disse con intonazione un po' ironica.
— O che si mangia un cucchiaio? Che ne avrei dovuto fare? Se lo avessi preso io, sarei tornato a riporlo.
— Torna a riporlo, — insistette la zia con lo stesso tono di prima.
Ernesto si sentì montare le fiamme al viso, si vide scoperto e dette in uno scoppio di pianto.
—Ecco! Ce l'avete tutti con me! —
Mamma e zia lo lasciarono in pace.
Quella mattina la casa fu sossopra; con la signora non si scherzava, nè la zia canzonava, trattandosi d'argenteria.
Il babbo se la prendeva con le donne che non volevano sentir parlare di posate di metallo bianco o argentate, quasi in tutte le famiglie, anche ricchissime, non si usassero queste pei giorni ordinari. Anche lui sospettava di Betta, che piangeva in cucina.
Ernesto, incaponito e indurito, aveva avuto la sfacciataggine di presentarsi in salotto, dove babbo, mamma e zia deliberavano il licenziamento della servotta.
— Potrei farla arrestare, — diceva il babbo. — Ma, per non aver seccature con la questura nè con la giustizia, preferisco mandarla via. Peccato ! Pareva una persona onesta. —
Betta, con gli occhi rossi e col viso ancora bagnato di lagrime, venne a dire:
— Non lo trovo.
— Basta, — disse il signor Bindi. — Io trovo, invece, che sarà meglio che tu ti cerchi un altro padrone.
— Mi credono una ladra? — piagnucolò la poverina atterrita.
— No, figliuola cara; ma io, quando mi accadono questi casi, faccio così. —
Betta cominciò a strapparsi i capelli, a graffiarsi la faccia:
— Ah, mamma mia! Ah, mamma mia! —
Ernesto stava lì, con le mani in tasca, arcigno, col cuore più indurito che mai.
Se avesse parlato ora, il castigo sarebbe stato più forte, pensava.
Ma Betta non voleva andarsene; gridava, piangeva, pareva presa da furore contro sè stessa; e i suoi padroni, si guardavano in viso, scossi, turbati.
— È inutile che tu urli, — disse il signor Bindi; — se non si trova il cucchiaio.... —
E guardò in faccia al figliuolo, quasi per distrarsi dalla vista di quella meschina, che non sentiva e urlava e piangeva e si strappava i capelli. Vedendolo pallido pallido, si alzò dalla seggiola, lo afferrò per un braccio, e scotendolo con violenza gli gridò:
— Va' a prendere il cucchiaio!
— Sùbito! — gli ordinò il babbo, che ormai era certo di avere indovinato.
— Sùbito! — ripetè il signor Bindi.
— L' ho rotto! — balbettò Ernesto che non ne poteva più.
E i singhiozzi gl'impedirono di proseguire.
La zia lo prese per mano, e con voce insinuante gli disse:
— Via, conducimi; non sarai castigato. —
La condusse davanti la cassetta dell'armadio.
— È lì!.... L'ho rotto.... per caso — singhiozzava.
— Bugiardo! — lo rimproverò la mamma, quando lui e la zia tornarono in salotto col cucchiaio in due pezzi.
— Domanda perdono a quella poverina, in ginocchio! — gli disse il babbo severamente.
Betta, abbracciandolo e baciandolo, cercava di difenderlo, d'impedire l'atto umiliante, e pregava il padrone
— Un'altra volta non lo farà più! —
Il signor Bindi fu inesorabile. Ed Ernesto, in ginocchio, davanti alla servotta, dovette dirle:
Ma da quel giorno in poi, quando gli capitava — e, pareva proprio destino, gli capitava spesso — di spezzare un oggetto, cercava sùbito del babbo, o della mamma o della zia e, senza che glielo domandassero, confessava spontaneamente
— Ho spezzato questo! —