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II.
Nel salotto, tutto pieno di fiori, i fanciulli che avevano presentato cómpiti e recitato poesie di occasione in onore della nonna, erano raccolti davanti la poltrona dov'ella sedeva, zitti zitti, ansiosi di vederle mantenere la promessa. Si davano gomitatine, si facevano cenni, rivolgevano occhiate interrogative ai loro genitori, che si divertivano di quegli atti e di quel mistero.
Tutt'a un tratto la nonna si alzò da sedere e con voce commossa disse:
— Aspettate qui; vado a prendere il mio regalo. —
E uscì dal salotto, tirandosi dietro l'uscio.
Nessuno fiatò in quei pochi minuti di aspettazione, nessuno si mosse. E quando ricomparve su l'uscio la nonna con le lagrime che le rigavano la faccia, tenendo una lettera in una mano e tirandosi dietro con l'altra una bambina vestita di nero, pallidina, magrina, con lunghi capelli biondi spioventi su le spalle e i grandi occhi cilestri pieni di stupore, la maggior sorpresa e la maggior meraviglia non furono quelle dei bambini.
La nonna si avanzò verso il figlio, e gli porse la lettera, balbettando:
— Leggi, Roberto; leggi ad alta voce. —
E mentre quegli leggeva, ella baciava la bambina e le inondava la faccia di lacrime.
Nè l'avvocato nè sua moglie, nè la figlia nè il genero dissero parola quando la lettura fu finita. I bambini, naturalmente, non capivano niente, non avendo mai sentito parlare di colei che si era firmata: la tua infelice figlia Lucia.
— Ho fatto bene? — domandò la nonna.
— Tutto quello che tu fai è ben fatto — confermarono gli altri.
C'era un che di glaciale in quelle risposte, ma poteva benissimo attribuirsi alla sorpresa. E infatti la nonna non ci badò punto, e spingendo la bambina fra i nipotini, disse:
— È vostra cuginetta; abbracciatela, baciatela e vogliatele bene. —
I bambini, un po' delusi, non fecero sùbito gran festa alla nuova arrivata. Ma appena la nonna disse loro: — Andate in giardino a fare il chiasso, — e Matilde prese pel braccio la cuginetta, mentre Gabriele la prendeva per una mano, il ghiaccio fu presto rotto. Poco dopo, infatti, la nonna li guardava dalla finestra e mandava loro dei baci, intenerita alla vista di quell'orfanella vestita di nero, che si sforzava di mostrarsi lieta e di fare il chiasso come non aveva mai fatto in casa sua, dove non aveva mai visto altro che miseria e tristezza, e dove era cresciuta, fino a pochi giorni addietro, simile a una pianticina nata in un posto umido e freddo, non visitato mai da un raggio di sole.
Matilde, che aveva tredici anni ed era sveltissima d'intelligenza, aveva capito meglio di tutti gli altri bambini la dolorosa storia della lettera udita leggere dallo zio; ma le rimanevano oscuri molti particolari, e tornata a casa, la sera, volle interrogare la mamma.
— La zia Luisa era tua sorella?
— Sì.
— Perchè non ne ragionavi mai?
— Perchè la nonna non voleva che se ne ragionasse.
— Che cosa aveva fatto di male, da farsi scacciare di casa?
— Ma io col consenso della mamma e del babbo, e lei con grave dispiacere di essi.
— Perchè?
— Perchè colui era povero in canna.
— L'esser povero è disgrazia non colpa. Era forse cattivo?
— Sì.
— Rubava?
— Oh, come sei sciocca! Troppe cose vuoi sapere.
— Ada mi ha detto che il suo babbo le voleva tanto bene.
— I figli non devono mai dir male dei propri genitori. E poi, che vuoi che ne sappia una bambina? Va' a letto. —
Matilde però rimase poco persuasa e niente convinta delle ragioni della mamma. Cominciò a fantasticare intorno ai gravi motivi che dovevano avere spinto i nonni a scacciar di casa una loro figlia e non parlarne e non permetterne che se ne parlasse mai mai; e non sapendo immaginarne neppur uno, e non riuscendo a spiegarsi perchè ora la nonna si era messa in casa la nipotina orfanella e le voleva bene e voleva che i cugini le volessero bene, concluse che certe volte i grandi forse non sanno nemmen loro quel che fanno, peggio dei piccini. Lei intanto avrebbe voluto bene alla cuginetta non solamente perchè così voleva la nonna, ma anche perchè le piaceva, perchè le pareva buona e perchè era tanto disgraziata, senza nè babbo nè mamma. Come era stato cattivo Gabriele! Le aveva subito appiccicato il nomignolo alla poverina: La signorina Capelli-di-stoppa! E gli altri avevano riso! Fortuna che la poverina non aveva udito. Lei, non l'avrebbe chiamata neppur cuginetta, ma Ada, sempre Ada, per dimostrarle che le voleva bene.
E per tutta la notte si era arrabattata, in sogno, a difendere Ada dalle cattiverie di Gabriele e degli altri, che le tiravano le trecce e la facevano arrabbiare e piangere chiamandola Capelli-di-stoppa, che le toglievano di mano i giocattoli e non volevano che facesse il chiasso con loro. Vedendo che, da sè sola, non riusciva a proteggere Ada, s'era messa a urlare chiamando: Nonna! nonna! singhiozzando dal dispetto, e si era svegliata, contentissima di accorgersi che tutte quelle brutte cose fossero state un sogno e niente altro.
La nonna, un po' stanca del tramenìo di quella giornata, prima di andare a letto, aveva preso Ada per una mano e l'aveva condotta in salotto, dov'erano esposti i fiori e i regali ricevuti per l'onomastico:
— Questa mattina — le disse — come avevo promesso, ti ho fatto il regalo di sette cuginetti; ora, giacchè ti chiami Adelaide pure tu....
— Mi chiamo Ada — la interruppe la bambina.
— No, sei stata battezzata col mio stesso nome: ma io ti chiamerò Ada, non dubitare, come ti chiamava la tua mamma.,..
— Mi piace pure il tuo nome, nonna, — si affrettò a dire la bambina, che non voleva farle dispiacere.
— Adelaide è nome troppo lungo, da vecchia; e sta bene a me. Tu sei piccina e Ada è nome piccino al pari di te.... Intanto, come ti dicevo, giacchè ti chiami Adelaide tu pure, regalo a te tutti questi regali, che ti potranno servire quando sarai grande. Li conserverai in camera tua, in un cassetto, anche per ricordo del primo onomastico della nonna a cui tu hai preso parte. Non saranno molti, bambina mia, gli onomastici ai quali dovrai assistere. Sono vecchia e da un pezzo preparata e pronta ad andarmene quando il Signore mi vorrà; ma ora che tu sei qui, vorrei andarmene quanto più tardi si può, quando tu, poverina, non avrai più bisogno di me! Prendi tutto, sì, anche questo, e anche quello; tutto!...
E aiutando la bambina esitante, tratteneva a stento le lacrime. Le pareva che ora ogni pensiero, ogni atto di lei dovessero servire ad espiare e a riparare le durezza con cui ella aveva trattato la figlia, madre di quella creaturina. E sorrideva, tra la commozione, con un che di malizia, vedendo la bambina con le mani e le braccia impacciate da tante cose, scatolini, ventagli, portamonete, porta-fazzoletti. Pensava che forse, anzi senza forse, la figlia e la nuora, il figlio e il genero non le avrebbero regalato quegli oggetti d'oro chiusi negli scatolini, se non avessero saputo che ella conserverebbe tutti i regali ricevuti da anni, e che nel suo testamento avrebbe stabilito che ogni cosa fosse restituita a chi la aveva data, secondo le indicazioni scrittevi di sua mano. Per ciò sorrideva, con un che di malizia; pensava che nè la figlia, nè il figlio nè il genero, nè la nuora sarebbero stati contenti di vedere i regali di quel giorno in mano di Ada. Ma avevano da scontare qualcosa anche loro per la sorella; erano stati crudeli anche loro contro di essa! E poichè non si poteva più dare nessuna sodisfazione alla povera morta, doveva riparare il proprio e l'altrui torto nella persona dell'orfanella.
— Sei contenta, Ada, di aver questi regali? sei contenta? — le domandava, accompagnandola nella cameretta, quella stessa dove aveva dormito la sua mamma da bambina.
— E non dir niente a nessuno; neppure ai cuginetti — le avvertì. — Ripónili nell'ultimo cassetto, in fondo, così. Hai sonno, carina? —
Non era sonno, ma sbalordimento che durava da parecchi giorni. Si era trovata, tutt'a un tratto, sbalestrata da una situazione all'altra, da un paese all'altro, senza la mamma con cui era vissuta fino allora, tra persone delle quali la mamma le aveva spesso parlato, ma che non aveva mai viste: e la sua povera testina si era confusa, e il suo povero cuoricino turbato. Le pareva proprio di sognare a occhi aperti. Dalla meschina cameretta, dove la sua cara mamma era morta, si trovava trasportata, come per incanto, in quella cameretta pulita, ben arredata, di cui la mamma le aveva parlato tante volte. Da quel villaggio svizzero, così triste, così freddo d'inverno, si vedeva trasportata in Roma, sotto quel cielo così bello, e con quel sole così caldo, che le pareva la vivificasse. Dalla miseria e dalla solitudine si vedeva nell'agiatezza, tra bambini suoi pari, ai quali ella già voleva bene e che, pensava, le avrebbero voluto bene perchè avrebbe fatto ogni sforzo per meritarselo.... Come non doveva sembrarle un sogno tutto questo? E ricordava spesso le fiabe narratele dalla mamma durante le lunghe giornate, quando voleva tenerla tranquilla per terminare un lavoro, che doveva darle da vivere o meglio da sfamarsi; ricordava le fate in sembianze di vecchine, che poi si rivelavano giovani e belle, tutte raggianti; e in certi momenti si aspettava di veder la nonna trasformarsi nello stesso modo. E la guardava, la guardava sbalordita, ansiosa, di assistere a tal miracolo, battendo le palpebre con quel movimento che alla nonna era sembrato sintomo di sonno.