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La mattina dopo, la massaia aveva condotto Mommo nel pollaio, a lato del frantoio delle ulive, per fargli la consegna dei tacchini.
All'apparire di lei con la sporta di giunco piena di becchime, le galline le si affollarono attorno chiocciando e starnazzando. Erano uscite nel vasto cortile insieme coi tacchini: ma questi restavano in disparte, quasi non si degnassero di mescolarsi con quei miseri polli che non potevano fare la ruota come loro, e forse anche perché sapevano che quel becchime non era per loro.
- Socchiudi il cancello e conta. Sai contare?
- Tieni: questa canna ti servirà per guidarli. Li condurrai lassù, dov'è quel prato: sanno la via, vedrai. Domani verrà con te il massaio a insegnarti altri posti. Questa è la colazione: ti farò una bella sacca poi; per oggi metti il pane in una tasca e il companatico nell'altra, se avrai sete, guarda, sotto quel fico, tra le macchie di rovi, là, a dritta, c'è la fontana. E i tacchini, bada! tienli sempre raccolti, per non perderli di vista. Conta dunque.
Spinti avanti dalla massaia, i tacchini cominciarono a sfilare a uno a uno, a traverso il cancello socchiuso, con gran stupore di Mommo. Erano sessantaquattro.
- Il Signore ti benedica! Io do il becchime alle galline.
I tacchini si avviarono. Mommo sollecitava con la canna quelli che si fermavano a leccare tra l'erba ai lati della strada. Arrivati sul prato, si sbrancarono a pascolare; e Mommo, che avrebbe voluto mangiare tranquillamente la sua colazione, doveva rincorrere i maschi che si allontanavano troppo; non voleva perderli di occhio. Le femmine pipiavano dimesse. Poi quando i maschi, ben pasciuti, cominciarono ad aprire le ali e a far la ruota. allungando il bernoccolo rosso pendente sul becco, egli trasse fuori dalle tasche il pane e il formaggio e cominciò a mangiare in piedi, appoggiato alla canna, dando occhiate intorno.
Vedeva arrampicati su pei fianchi della vallata di rimpetto, i buoi e le vacche e lo zi' Girolamo seduto su un masso, immobile, quasi dormiente.
- Chi sa se è vero, - pensava Mommo, - che egli va con le Nonne?
Laggiù, nella terrazza della casa, la massaia sciorinava i panni lavati, aiutata dalla vecchia serva. Il massaio, davanti a la stalla, faceva rimettere i ferri alle mule dal maniscalco venuto apposta la mattina.
Le galline, sparse sul mucchio del concime, razzolavano al sole.
Di lassù le persone sembravano piccine piccine.
Mommo pensava alle scarpe che il massaio gli avrebbe comprato la domenica prossima, e alle camicie e al vestito promessogli dalla massaia.
Era contento di avere un bugigattolo presso il pollaio, col pagliericcio e la coperta di lana. Quel bugigattolo gli pareva già cosa sua. Egli teneva in tasca la chiave dell'uscio. Colà poteva riporre quel che voleva, senza che nessuno venisse a toccargli niente.
Era contento anche del coltellino col manico di ferro regalatogli dalla massaia per affettare il pane. Tagliava bene quel coltellino. Con esso si sarebbe fatto uno zùfolo di canna, come quello che aveva quando guardava i tacchini del notaio. Lo aveva venduto per un soldo a un ragazzo di Palagonìa. Ora ne avrebbe costruito uno migliore.
Per non stare disoccupato, mentre i tacchini, sazi di pascolare, riposavano accoccolati tra le erbe, s'era messo a inseguire farfalle, a chiappare grilli: e quando ne aveva pieno il pugno, li buttava ai tacchini che si azzuffavano per beccarseli.
I tacchini rimessisi a pascolare, andavano verso la fontana, lentamente, disposti in larghe file di otto o dieci ognuna, frugando tra l'erbe, ingoiando insetti. Così potè ricontarli bene erano sessantaquattro, tre ventine e quattro, com'egli diceva.
La fontana sotto il fico che quasi la nascondeva coi suoi rami e circondata da rovi, era piccola, limpidissima, una specie di conca riparata da una grotticella scavata nel tufo, con le pareti coperte di capelvenere. Per bere bisognava chinarsi e tuffarvi le labbra. Un merlo scappò via squittendo dalle macchie di rovi, appena Mommo vi battè su con la canna.
E volle accertarsene.
Si graffiò le mani per rimuovere i tralci spinosi, ma scoprì il nido con le uova.
- Prenderò poi la covata, - disse sorridendo.
E accortosi che i tacchini erano sbucati su la strada li rincorse e li rimenò indietro nel prato.
I quattordici tacchini del notaio egli li aveva battezzati tutti con nomi diversi. Uno, il più grasso, lo aveva chiamato Notaio; un altro, Cionco, perché gli mancavano due branche a una zampa e ciampicava; il terzo, Fra Giuseppe, dal colore delle penne somigliante a quello della tonaca del frate cappuccino che veniva in campagna, per la cerca del grano e delle ulive. A una delle tacchine aveva messo nome Signa Rosa (sora Rosa), come si chiamava la serva del notaio, e perché era grigia come lei. Poi, c'erano la Rossa, la Monacella, la z'a Miseria, magra e malaticcia, e Senza-coda, ridotta tale dai figli del notaio che si erano divertiti a strappargliela.
Quanti mai nomi ci volevano qui! Tre ventine e quattro! Intanto uno dei tacchini poteva benissimo chiamarlo pure Notaio; era grosso e pettoruto proprio come il notaio. A quell'altro avrebbe rimesso il nome di Fra Giuseppe. Rosse c'erano più di sei tra le tacchine. Come fare? Quella più grassa, però, l'avrebbe nominata Massaia. Al resto penserebbe poi.
E, sul tardi, nell'avviare il branco verso la masseria, già adoprava quei nomi.
- Sciò, Notaio! Va diritto, Fra Giuseppe! Lesta, Massaia!
Con la canna dietro il collo e le braccia accavalcate ad essa, visto che i tacchini andavano difilato, Mommo si era messo a zufolare.
La massaia, che lo aveva scorto dalla terrazza, lo aspettava davanti al cancello del cortile per ricontare i tacchini. Di tratto in tratto, afferrava una tacchina, la tastava per accertarsi che la mattina dopo avrebbe fatto l'uovo, e le impediva di entrare con gli altri.
- Queste le faremo salire sui corbelli con la paglia appesi al muro. Domani prenderai le uova.
E le tacchine, già avvezze, appena ella spalancò l'uscio socchiuso, si avviarono verso l'uscio del pollaio, e con una volatina saltarono sui corbelli e si accovacciarono. Allora la massaia fece entrare gli altri tacchini, che andarono ad appollaiarsi sulle travi di agave conficcate agli angoli, uno accanto all'altro.
- Paiono tanti canonici al coro! - disse Mommo ridendo.
- Domattina, spazzerai il cortile. Quella è la granata. La spazzatura la butterai sul mucchio del concime, là.
- Sissignora.
Mommo intanto guardava un fascio di canne addossate a un angolo.
- Posso prenderne una? - domandò.
- Prendila.
Scelse la più grossa, la spezzò a metà. E buttò via la parte superiore.
- Mi faccio uno zùfolo.
- Prima va' dal massaio, - rispose la padrona. - Quant'è che non ti pettini?
Massaio Turi, seduto sullo scalino del portone del frantoio teneva sul braccio un grembiule di traliccio della serva e in mano una gran forbice.
- Vieni qua, tu che sembri un gufo con quei capellacci!
Se lo mise tra le ginocchia, gli avvolse attorno alle spalle e al petto il largo grembiule, e gli cacciò le forbici tra i capelli.
Mommo, a ogni forbiciata, aggrinzava gli occhi, ritirava il collo tra le spalle, scoteva la testa per evitare il solletico dei peli che gli cascavano su la faccia.
- Cheto! - lo sgridava il massaio.
Mommo però non poteva star fermo, sentendo su la cute il freddo della lama delle forbici che gli rasavano i capelli fino alla radice.
- Cheto!
E il massaio con una mano gli teneva la testa, e con l'altra menava attorno le forbici, quasi tosasse una pecora.
- Così non hai bisogno di pettine! - esclamò all'ultimo, soffiandogli su la faccia per mandar via i peli cadùtivi.
Mommo si passò le mani sul cucuzzolo mondo, e si trasse indietro senza dir nulla, guardando compassionevolmente i mucchietti di capelli sparsi per terra.
Tutt'a un tratto, preso da strana allegria, fece due capriole, poggiando le mani a terra e levando agilmente le gambe in aria.
Gli sembrava di essere diventato un altro, tosato a quel modo.