Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Scurpiddu
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Più di tutti gli voleva bene la massaia, un po' perché le rammentava il figlio perduto - si era sentita rimescolare quella sera, quando il marito, mostrandogli Mommo, le aveva detto: - Ecco una anima del Purgatorio che il figliuolo ci manda di lassù! - un po' anche perché Scurpiddu era sempre pronto a qualunque servizio, instancabile e allegro e buffone come uno scimmiotto.

Gli si comandava di fare una cosa, e invece di rispondere di sì, spiccava un salto mortale, una capriola o imitava il gallo, chicchirichì! O abbaiava come un cagnolo, o nitriva come un cavallo, o tubava come un piccione, o chiocciava come una gallina che fa l'uovo, e scappava per eseguire l'ordine ricevuto.

Certe sere, nel frantoio, mentre gli uomini si preparavano per la cena, egli andava a nascondersi in un serbatoio di ulive, e si metteva a miagolare. Da prima tutti credevano che miagolasse proprio un gatto; ma poi guardavano attorno, e non scorgendo il ragazzo, esclamavano.

- È Scurpiddu!

E il Soldato andava a snidarlo, a furia di scapaccioni, per chiasso.

Altre volte si udivano fuori gli abbai di due-tre cani. Qualcuno degli uomini si affacciava dal portone per vedere chi arrivava a quell'ora, e non vedendo cani e nessuno, richiudeva il portone ridendo:

- È quel boia di Scurpiddu!

E Scurpiddu compariva poco dopo, lieto della burla fatta.

Un giorno, tornando a casa coi tacchini, aveva portato sotto un braccio tre lunghi steli di cipolle fioriti.

- Che ne vuoi fare? - gli aveva domandato la massaia.

- Niente. Mi servono.

E quella sera, mentre gli uomini mangiavano la minestra, egli era sgusciato fuori zitto zitto.

Si udiva un muggito lungo, lamentoso, dalla parte dell'agghiaccio dei buoi.

- Che sarà? - esclamò il massaio. - Va vedere.

Il Soldato uscì fuori, s'inoltrò sulla strada che menava all'agghiaccio, e da lontano chiamò:

- Zi' Girolamo!

- Ohi! - quegli rispose.

- Che vuol dire questo muggito?

- Che ne so io? Viene di costì.

Infatti il muggito lungo, lamentoso, partiva dai fichi d'India dietro il frantoio, dal lato opposto dell'agghiaccio.

Il Soldato si accostò con cautela ai fichi d'India, e al lume di luna scorse Scurpiddu che soffiava dentro uno stelo di cipolla come in una tromba e ne traeva quel suono che imitava così bene il muggito d'un bove, da ingannare.

- Ah, sei tu!

E se Scurpiddu non scappava, avrebbe ricevuto quattro bei scappellotti.

Il Soldato tornò maravigliato, alla masseria:

- È quel discolo di Scurpiddu!

La cosa parve così strana, che il massaio volle vedergliela ripetere , davanti a tutti. E accadde che lo zi' Girolamo, intricato anche lui, si mosse dal suo corbello e cominciò a chiamare:

- Ohi! Ohi! Che è stato?

Il Soldato, riconosciuta la voce, si affacciò su la soglia e gli gridò:

- Venite! C'è un bove smarrito.

E lo zi' Girolamo era tornato indietro scornato, minacciando Scurpiddu con la mano, dopo che si accorse della burla.

Le sere di pioggia, nel novembre, attorno al fuoco acceso per asciugarsi i vestiti, gli uomini lo invitavano:

- Scurpiddu, fa' la rissa del cane col gatto.

Non se lo faceva dire due volte. E non imitava soltanto i ringhi, gli abbai, i miagolamenti e gli sbuffi dei due animali, ma le loro mosse, e così abilmente che pareva di vederli.

- Bravo, Scurpiddu!

E battevano le mani.

- Soltanto la lettura stenti ad apprendere! - gli rimproverava il Soldato.

Infatti faceva fatica, quantunque ci mettesse molta buona volontà. Ma forse la colpa era un po' del maestro che non ne sapeva molto neppur lui, e non era destro nell'insegnare quel pochino che sapeva.

E poi Scurpiddu, era ragazzo, si distraeva facilmente. Quando aveva sillabato un quarto d'ora da solo, cominciava a sbadigliare. Certe sillabe non c'era verso gli entrassero nel cervello, o vi entravano a rovescio. E più egli stava attento, per non sbagliare quando arrivava a quel punto, e peggio sbagliava. Nella masseria c'era il Soldato che gli gridava subito:

- Bestia!

Ma lassù, su la collina dell'Arcura o sotto gli ulivi del Piano del Galluzzo, egli rimaneva sempre incerto se avesse sbagliato o no; chiudeva subito il sillabario, e si metteva a sonare con lo zùfolo la ninna-nanna del Natale, dolce e malinconica melodia.

E durava a suonare per ore ed ore, interrompendosi soltanto per dar la voce a qualche tacchino che si allontanava troppo dagli altri.

- Dove vai, Notaraccio!

E con una sassata lo faceva tornare addietro.

- Sciò, Fra Giuseppe! Sciò!

E brandendo la canna, lo rincorreva.

Aveva trovato altri nomi per le sue bestiole: Massaio, Soldato, zi' Girolamo, za' Tegonia, Don Pietro, Correntina, Scanza-fatica. A un tacchino giovane avea appiccato fin il proprio nomignolo di Scurpiddu, ed era il tacchino che gli dava più da fare, sempre avanti a tutti, sempre sbandato e sempre in rissa con gli altri. Da principio, quando alla masseria ignoravano quel battesimo, sentendolo esclamare: - Scurpiddu infamaccio! - non capivano perché si sgridasse da sé.

- L'hai con te stesso, Scurpiddu? - gli domandava il Soldato.

Si distraeva pure con fare la guerra, come egli diceva, ai tacchini.

Il prepotente era Scurpiddu che l'aveva con Notaio e Soldato, chi sa perché. Stirava le ali fino a terra, apriva a ventaglio la coda e pettoruto, col bernoccolo e i bargiglioni gonfi, rossi e violacei, si scagliava addosso all'avversario. Allora Scurpiddu li incitava con la voce e coi gesti, li aizzava, gridando:

- Guerra! Guerra!

Spesso erano quattro a una volta che entravano in lizza. Scurpiddu faceva far largo agli altri e batteva le mani, saltava di qua e di :

- Guerra! Guerra!

E pareva che i combattenti lo capissero. Si accanivano, inferocivano. Notaio afferrava col becco il bernoccolo di Scurpiddu e glielo tirava, glielo tirava, quasi volesse strapparglielo. Scurpiddu tramortiva un po', ma riprendeva subito la lotta; e quando aveva afferrato il bernoccolo di Notaio non voleva rilasciarlo più, fino a che l'avversario non si dava per vinto.

Mommo interveniva; picchiava con la canna addosso ai combattenti, dava pugni e calci per dividerli, se no si ammazzavano; e poi si metteva a suonare una marcia strana, inventata da lui, e che, secondo la sua intenzione, celebrava la vittoria.

- Peccato, - egli pensava, - che lassù non ci era nessuno a godere quello spettacolo!

C'erano soltanto le tàccole che passavano a stormi, gracchiando, e i falchetti che squittivano, librandosi su le ali prima di piombare come un sasso su qualche animaletto, scoperto dall'alto tra l'erba. La vallata sembrava presa da torpore sotto la vampa del sole. Si udiva, lontano, il campanaccio dei buoi dello zi' Girolamo, ma non si vedeva anima viva per le colline attorno. Laggiù laggiù, un branco di capre si arrampicava tra le rocce, brucando. E Scurpiddu tornava a cavar fuori dalla tasca il sillabario e ricominciava a compitare.

Spesso si fermava, meravigliato che quei segni potessero parlare. Come facevano per dire: Pa-ne, Pon-te, Can-na? Eppure dicevano così!

Ora ci prendeva gusto a quella specie di giuoco, svoltava pagina, si arrestava davanti alle difficoltà, si ingegnava di vincerle, e guardava all'ultimo le pagine con righe tutte unite che gli parevano un imbroglio inestricabile e che il Soldato però leggeva facilmente. Un giorno o l'altro le avrebbe lette anche lui. E tentava. E se riusciva a compitar bene qualche parola, la segnava per domandare poi al Soldato:

- È vero che qui dice così?

- Bravo, Scurpiddu!

Ora che il massaio gli aveva regalato una tàccola piccina, appena coperta di piume, Scurpiddu aveva un altro motivo di distrazione. La portava con nella sacca a tracolla e la imbeccava e l'addestrava a venirgli dietro come un cagnolino.

- Paola! Paola!

E la tàccola gli salterellava appresso, gracchiando. La metteva sul dorso di Notaio o di Don Pietro ed essi dovevano portarla attorno mentre pascolavano. Paola spesso saltava giù, annoiata di star ferma. Ma egli la prendeva per le ali e la rimetteva al posto.

- Qui devi stare in carrozza.

La tàccola aveva finito con avvezzarsi, e stava, signora in carrozza, passando da un tacchino all'altro, ora che aveva messo le ali.

Scurpiddu l'addestrava anche a volargli addosso ad ogni richiamo. Paola faceva due o tre giri in alto e poi andava a posarglisi su la spalla o sul braccio. Scurpiddu l'accarezzava, le lisciava le penne lucide e nere, le dava a imbeccare un grillo, un baco, e tornava alla masseria con Paola appollaiata su la testa, sonando allegramente con lo zùfolo la ninna-nanna di Natale, interrompendosi per chiamare: - Paola! Paola! - lieto che Paola gli rispondesse con un gracchio quasi per dirgli: Sono qui. - E sùbito gli tirava col becco i capelli che gli scappavano fuori del berretto su la fronte.

La sera, egli la metteva a dormire in un paniere appeso al muro del suo bugigattolo; le avea formato con un po' di fieno una specie di nido.

E mentre egli si ficcava sotto la coperta di lana, le diceva:

- Paola, buona notte!

Paola rispondeva con un roco chioccolio e s'addormentava.

 

 


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