IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
-7-
Ora erano due ad aspettarlo davanti al cancello di legno del pollaio: la sua mamma e la massaia.
La mamma, vedendolo turbare di mano in mano che i tacchini passavano uno a uno pel cancello socchiuso, gli domandò:
- Che hai?
- Sessantatre! - finì di contare la massaia.
- Ne manca uno.
Doveva dirglielo o non doveva dirglielo, dopo che il massaio gli aveva raccomandato di non fiatar della cosa con nessuno?
Esitò un momento, poi rispose.
- Perché manca? Che ne hai fatto?
- Io? Niente. Lui lo sa.
Alla sua mamma però, appena furono soli, raccontò tutto.
- Zitto! Non parlarne con nessuno! - gli raccomandò anche lei.
- Chi sono quegli amici? - voleva sapere Scurpiddu.
- Gente che può far del male: a te no, perché sei ragazzo.
Ma Scurpiddu si tranquillò soltanto più tardi quando massaio Turi venne a dirgli:
- Domani condurrai i tacchini tra le ginestre, dietro il casotto delle api. E bada di non accostarti troppo al casotto, né ti venga la tentazione di stuzzicarle. Ti farebbero gonfiare come un otre a furia di punture! Hai inteso?
Quantunque fosse stato contento che gli amici avessero preso Notaio, pure sotto la coperta, al buio, non poteva chiudere occhio pensando al povero tacchino. A quell'ora gli avevano già segato il collo, lo avevano spennato, anzi se lo erano già bello e mangiato fino all'ultimo pezzettino.
- Mah! - soggiungeva, - Questo è il destino dei tacchini! Un giorno o l'altro, Massaio, Don Pietro, Soldato e anche Scurpiddu saranno venduti per essere ammazzati e mangiati. Prima o dopo, non vuol dire nulla.
E così il sonno gli era svanito.
Egli tornava a pensare allo zi' Girolamo e alle sue Nonne. Bisognava aspettare che la luce crescesse per avventurarsi alla scoperta ideata; al buio, no, avrebbe avuto troppo paura. Fra dieci, dodici notti, ci si vedrebbe come di giorno nell'agghiaccio. E quasi egli fosse sul punto di scendere dal lettuccio e uscire all'aria aperta, si raggrinziva, faceva il movimento di posare un piede dopo l'altro, cautamente, e tratteneva il fiato e stringeva le labbra tra i denti, spalancando gli occhi nell'oscurità del bugigattolo, proprio come doveva tra dieci o dodici notti, quando ci sarebbe la luna piena. Ora vedeva soltanto dei bagliori, delle fiammelle per lo sforzo di guardare nel buio, e chiuse gli occhi.
Gli venivano in mente le api che facevano il miele nel casotto sotto gli ulivi, tra le pianticine di timo e di nepitella. Lo facevano apposta perché il massaio poi lo prendesse, col facciale di fil di rame e i guantoni per difendersi dalle punture? Chi le aveva addestrate a fare così? Anche i buoi aravano il terreno e il massaio mieteva poi il grano per conto suo; ai buoi però dava la paglia. Alle api, niente. E dalla mattina alla sera esse andavano di qua e di là, a succhiare il miele dalle erbe e dai fiori e metterlo dentro i favi: e oltre al miele, fabbricavano pure la cera. Dopo spremuto il miele, la massaia metteva i favi nella caldaia e rimestava, rimestava, fino a che non si erano sciolti. L'altra volta, egli si era divertito a tuffar le mani prima nella cera ancor liquida e poi subito nell'acqua fredda, e ne aveva cavato la forma delle mani, mani gialle gialle che parevano mani di morto.
Come le mani della sua povera mamma malata, che andava di male in peggio con le febbri e la tosse! Ora egli sapeva tutto: la sua mamma aveva preso un altro marito laggiù, lontano, in quel paese di cui egli non rammentava il nome, sotto le montagne piene di neve: marito cattivo, che l'aveva bastonata, che le aveva fatto soffrire la fame peggio che non al tempo della mal'annata. La massaia le diceva:
- Comare Nina, a primavera sarete guarita! La Madonna vi farà la grazia!
Perché la mamma rispondeva sempre scrollando la testa? Quando egli la sentiva tossire, e pareva dovesse spezzarsele una vena del petto, soffriva quanto lei; gli veniva meno il respiro.
Avrebbe voluto essere più grande, per smettere di fare il nuzzaru e allogarsi a garzone e prendere il salario. Avrebbe affittato una casetta per la sua mamma in Mineo, e ogni quindici giorni, alla vicenda, sarebbe andato a passare una giornata in libertà con lei, senza far niente; e a Pasqua, a Natale sarebbe andato a far le feste con lei; e pel Carnovale pure, e per la festa di Santa Agrippina pure. Avrebbe fatto i viaggi pel grano del padrone e pel mosto, con le mule parate di nappe, di nastri a più colori e di sonagli alle cavezze, come ora il Soldato che voleva bene alle mule quasi fossero sue, e non doveva toccargliele nessuno. Le strigliava lui, le conduceva al beveratorio lui, metteva loro i basti lui e stringeva le cigne appuntando un ginocchio su i fianchi delle bestie che con lui stavano tranquille e non tiravano calci, mentre con gli altri facevano le cattive, specie la Learda che aveva anche il vizio di mordere: al Soldato intanto leccava le mani quasi intendesse di baciargliele.
E sognò viaggi con le mule tutta la nottata. Le cattive bestie andavano proprio pei viottoli più scoscesi, sul ciglio delle rocce, col pericolo di trascinarlo nel precipizio insieme con loro; e la sua mamma urlava, piangente, dalla parte opposta: - Mommo! Mommo! - così forte che il grido sognato lo svegliò.
Stava per spuntare il sole, e Paola gracchiava dal suo nido, scotendo le ali, vedendo la luce che penetrava dalle fessure dell'uscio, e udendo lo schiamazzo delle galline e il glù-glù-glù dei tacchini nell'atrio del pollaio, là fuori. Non gli era accaduto mai di non trovarsi in piedi all'alba davanti il cancello. E rammentando il sogno, pensava:
Infatti gli ubbidivano assai meglio che non le mule al Soldato. Li disponeva in fila, li faceva marciare al suono dello zùfolo; una fila di maschi avanti, poi le femmine in più file, e un'altra fila di maschi dietro. Gli era venuto in testa di addestrare Scurpiddu a fare il capobanda, diceva, cioè a marciare solo in capo a tutti, come guida, e c'era riuscito. Bastava che egli gridasse: Marcia! e agitasse in alto la canna, perché Scurpiddu prendesse il suo posto di Capobanda, come il Capobanda di Palagonìa davanti ai suoi suonatori, con quel pancione rotondo che pareva una gran cassa. Per ciò ora non lo chiamava più Scurpiddu ma Capobanda. E se voleva far suonare come una banda i tacchini, ci voleva poco. Imitava lui il loro grido glù-glù-glù, ed i maschi subito gli rispondevano in coro, e le femmine li accompagnavano col loro dimesso pigolìo. Paola li seguiva con brevi volatine da una albero all'altro, gracchiando.
- Ecco la banda di Scurpiddu! - esclamava il Soldato, sentendo da lontano quel coro di glù-glù-glù, nel quale si distingueva appena la voce del nuzzaru, che sapeva imitare il grido dei tacchini a meraviglia.
Ma cinque o sei ore dopo, l'allegria di Scurpiddu, appena arrivato davanti al cancello del pollaio, glorioso e trionfante dietro la sua banda che gluglugliava, si mutò subito in pianto.
- Ne manca uno! - disse la massaia.
E ricontò i maschi per vedere se mancava un tacchino o una tacchina. Mancava una tacchina.
- Si sarà smarrita tra le ginestre, perché piangi, sciocco?
Scurpiddu rifece a corsa la strada, singhiozzando, guardando di qua e di là, sotto gli ulivi, scotendo le macchie con la canna per snidare la tacchina, caso mai si fosse accovacciata tra i cespugli, vedendosi sola. Dov'era andata a nascondersi? Frugò a una a una le macchie di timo e di nipitella attorno al casotto delle api; a una a una le piante di ginestra dove i tacchini erano stati a pascolare. Niente! Non si erano sbandati neppure un momento quel giorno. Il posto era pieno di grilli e di bruchi; i tacchini non avevano dovuto stentare per riempirsi il gozzo; e infatti si erano stesi al sole, pigramente, dopo aver pascolato un pezzetto. Egli non li aveva mai perduti di occhio... Eppure la tacchina mancava!
Dalla masseria, il Soldato gli gridava di tratto in tratto vedendolo tardare:
- Nooo!- rispondeva Scurpiddu, mettendo le mani ai lati della bocca perché la voce suonasse più forte.
- Lascia andare! Lascia andare! La troverai domani.
E la voce del Soldato, nella calma della sera già inoltrata, rimbombava per le colline ed echeggiava nelle rocce dirimpetto alla masseria.
Scurpiddu tornava indietro, seguitando a sbattere con la canna ogni macchia, ogni cespuglio.
- Sciò! Sciò! Maledetta nuzza! Sciò! Sciò!
Dalle macchie, dai cespugli era scappato via qualche topo campagnuolo, qualche uccellino spaurito.
Due o tre volte, al chiarore incerto della sera, egli aveva scambiato un cespuglio, o un grosso sasso, per la maledetta tacchina, e gli era corso addosso con la canna. Niente! E avvicinandosi alla masseria, si grattava il capo, riprendeva a singhiozzare, atterrito all'idea che il massaio dovesse mandarlo via, come aveva fatto il notaio. Avrebbe mandato via anche la mamma insieme con lui!
Invece la massaia lo confortò:
- Ora il massaio mi manda via! - singhiozzava Scurpiddu.
- Che farnetichi, sciocco? Va' piuttosto a mangiare la minestra che si fredda.