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La massaia quella sera aveva detto:
- La tacchina non si è smarrita; è stata presa.
Sospettava della moglie del mezzadro di Poggio Don Croce là accosto, che aveva bisogno di una chioccia, e giorni addietro era venuta a chiedergliela: - Avreste, per caso, una tacchina chioccia, massaia?
Giusto, mancava una delle rosse che accennava a divenir chioccia.
E il giorno dopo, mentre le sue bestiole, ben pasciute, si erano accoccolate al sole quasi sonnecchianti, aveva fatto una corsa fino alla mezzadria di Poggio Don Croce. Davanti a la porta della casa, una ragazzina, figlia del mezzadro, buttava dei fichi d'India a un maialetto, e pareva si divertisse a vederglieli mangiare grufolando; glieli buttava a uno a uno.
- Dammi la tacchina! - le disse brusco brusco.
- Quale tacchina? - rispose la ragazza rizzando la testa spettinata, e cacciando indietro le ciocche dei capelli che le scendevano su gli occhi.
- Quella che vi siete presa ieri.
- Sei pazzo?
- Sì, se l'è presa la tua mamma che la voleva per chioccia; l'ha detto la massaia. Dammi la tacchina!
- Va a farti benedire! Sei pazzo?
- Dammi la tacchina! - replicò Scurpiddu con aria minacciosa.
E alla chiamata, comparve su la soglia la mezzadra.
- Dice che gli abbiamo preso una tacchina, per chioccia.
La mezzadra cominciò a sbraitare:
- Se l'è sognato la tua massaia? Verrò a dirglielo sul muso. Per chi ci scambia? E tu bada che i tacchini non passino il limite, e non facciano danno alla vigna, se no accoppo te e le tue bestie; te lo avverto, giacché sei qui.
- Lasciatemi vedere: l'avete in casa; - insisteva Scurpiddu, niente intimidito dalle parole e dai gesti della mezzadra.
Aveva fatto tre passi avanti, ma quella donna gli diè uno spintone che lo fece ruzzolare per terra.
Scurpiddu si rizzò infuriato e prese una zolla per lanciargliela.
Lesta, la mezzadra gli corse addosso e gli rattenne il braccio:
- Vàttene! Vàttene! Se no, ti concio per le feste!
Lo prese per le spalle, gli fece fare un giro e lo respinse.
- Ora vado io dalla tua massaia. Mi sentirà!
Vedendola prendere la viottola, Scurpiddu tornò mogio mogio tra i tacchini; e di là seguì con gli occhi la mezzadra che andava di furia, brontolando. Poco dopo s'udivano le strida del diverbio tra la massaia e lei davanti la masseria.
Scurpiddu credeva di aver fatto una bella cosa, andando a chiedere la tacchina; e per dispetto di quella strega che voleva picchiarlo, accortosi che Don Pietro e Capobanda erano entrati nella vigna, non li rincorse per farli tornare addietro. Cavò dalla tasca lo zùfolo e si mise a suonare allegramente, Tiù! Tiù! Esclamando di tratto in tratto. - Bravo, Don Pietro! Bravo, Capobanda! - vedendo che i tacchini strappavano le foglie e le cime più verdi alle viti. Tiù! Tiù!
Anche Paola svolazzava per la vigna a beccare qualche racìmolo, e andava e veniva, quasi lo interrogasse coi gracchi: Faccio bene?
Poi, vedendo che Don Pietro e Capobanda, si inoltravano troppo, Scurpiddu tirò loro due sassolini. richiamandoli con la voce. E quando ebbe tutto il branco davanti a sé: Marcia!
Era allegro. Gli pareva di non aver più responsabilità dello smarrimento della tacchina, poiché se l'erano presa quei di Poggio Don Croce, Il massaio penserebbe lui a farsela rendere: anche coi carabinieri, aggiungeva. Li aveva visti poco prima scendere per la strada del Monte. Cercavano gli amici. Ma non li avevano trovati. Ecco, li rivedeva laggiù, sotto Poggio d'Ortensio, uno a fianco all'altro, con le braccia che andavano e venivano come due pendoli e i fucili a tracolla dietro le spalle. Poveretti! Facevano tanta via, quasi ogni giorno, e non si fermavano mai.
Intanto disponeva in fila i tacchini.
Paola, che ormai amava molto di farsi portare in carrozza, era andata a posarsi sul dorso di Capobanda, e gli beccava delicatamente la pelle grinzosa e bitorzoluta della testa. Il tacchino la lasciava fare.
- E sessantuno!- finì di contare la massaia.
Scurpiddu, che questa volta non se l'aspettava affatto, esclamò:
- Bella Madre Santissima!... ..Come può essere?
- Ma che fai? Dove le conduci queste bestie? - gli domandò la massaia un po' stizzita,
Scurpiddu non sapeva che rispondere. Gli era balenato in mente il sospetto che quei di Poggio Don Croce avessero voluto vendicarsi sùbito. Ma come? Ma quando? Era stato con tanto di occhi aperti. Nella vigna, tra le ginestre, tra gli ulivi non si era vista anima viva in tutta la giornata; e lui non si era mosso da sedere su un masso per far meglio la guardia. In quei pochi minuti che era andato a leticare con la mezzadra?
- Hai fatto male, - lo sgridò la massaia. - E un'altra volta, quando nella masseria vien detta una cosa, fingi di non aver sentito, o tùrati le orecchie per non sentire.
- C'è qualcuno che gli vuol male a questo povero orfanello! - piagnucolò la mamma di Scurpiddu per difenderlo.
- No, si distrae con Paola, con lo zùfolo, chi sa con che altro! Ma, da domani in poi, Paola resterà alla masseria, a cercar le pulci ai cani. Almeno servirà a qualche cosa!
Scurpiddu si era sentito trafiggere il cuore. Seduto su un mucchio di sassi, coi gomiti su le ginocchia e la testa tra le mani, singhiozzava di rabbia, senza poter piangere.
In quel momento si avvicinava massaio Turi:
- Manca un'altra tacchina, - gli disse la moglie.
Massaio Turi stette un po' a riflettere, e domandò a Scurpiddu:
- Non hai sentito nessun grido?
- Niente!
- C'è una volpe nei dintorni. L'ha scoperta Calcapaglia, a cui ha preso tre galline. Deve aver la tana nella vallata sotto la roccia; le fanno già la posta, lui e suo genero. E hanno visto anche i volpacchiotti. Se trovano la tana, ve li affumicano dentro. Ma le volpi sono maliziose. Intanto, giacché ora c'è l'erba fresca nel prato vicino alla fontana, muterai pascolo. La volpe non verrà fin là, specie di giorno!
- Ecco!- esclamò Scurpiddu che si sentiva giustificato.
Ma il giorno dopo, lassù, senza Paola, gli sembrava di essere dimezzato. La massaia avea chiuso la tàccola in una stanza nel momento che Scurpiddu conduceva via i tacchini.
E Scurpiddu era partito con un po' di broncio, perché la coscienza gli diceva di non meritare quel castigo.
Lassù, le tàccole passavano a stormi, si allontanavano, sparivano dietro le colline. Altri stormi seguivano. Scurpiddu li guardava, li guardava pensando tristamente alla prigioniera.
Pensava anche alla mamma che quella mattina non aveva potuto levarsi dal letto. Dormiva in una stanza che serviva anche da riposto per i cereali. Il letto era vicino alla finestra; e negli angoli stavano ammonticchiati qua ceci, là fave secche, là cicerchia. Si saliva su per una scaletta che aveva il primo gradino così accosto al tondo della macìna delle ulive, dentro lo stanzone del frantoio, che quando la mula con gli occhi bendati faceva girare la màcina, era assai incomodo salire e scendere; mancava lo spazio, ogni volta che la mula rasentava lo scalino. Colà però la persona malata poteva riposare tranquilla. Di tanto in tanto, la massaia andava a visitarla, a portarle una tazza di brodo, a domandarle se avea bisogno di niente, a farle coraggio.
- Vi raccomando quella creatura, massaia!
Quasi la povera donna si vedesse proprio in punto di morte.
Scurpiddu la vedeva la mattina, appena alzàtosi da letto; e la sera, fino a che la povera donna non si sentiva chiudere le pupille dalla debolezza e dal sonno.
- Va' a dormire; devi svegliarti per tempo, figlio mio!
E quella mattina, nel prato, Scurpiddu brontolava:
- La mamma a letto… e Paola carcerata!
Rimaneva a lungo con gli occhi fissi alla masseria. Poi, al passaggio di ogni stormo di tàccole che calava dalle alture del Monte, gracchiando forte e celeramente remigando con le ali, gridava ad esse per sfogo:
- Paola è carcerata!... Paola!