Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Scurpiddu
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Ma di a un mese, tutti i bei progetti di Scurpiddu erano andati a un tratto per aria in modo inatteso.

Una sera il Soldato gli aveva detto:

- È arrivata la citazione per la testimonianza. Vedrai Catania senza spendere un soldo; sei contento, Scurpiddu?

- Io l'ho già fatta la mia testimonianza.

- Dovremo rifarla, davanti alla Corte d'Assise.

- E chi sa dov'è Catania? Io non ci vado.

- Verranno i carabinieri, e ti condurranno ammanettato.

- Malannaggia chi colpi di falce!

Scurpiddu quasi piangeva. Immaginava che avrebbe di nuovo trovato colà il Giudice istruttore. Costui aveva voluto sapere tante e tante cose, che gli aveva messo paura con gli occhiali d'oro davanti a quegli occhi sbirri (intendeva dire scrutatori).

Per ciò sul carretto che lo portava, insieme col Soldato e con altri contadini testimoni, alla stazione di Valsavoja, Scurpiddu non diceva una parola. Invece il Soldato chiacchierava per venti.

- Napoli! Milano! Genova! Torino!... Quelle sono città! A Torino, neve alta così! Freddo!... Ma sotto i portici - la navata d'una chiesa, tal quale! - si passeggia come in casa... Genova? Il porto, un bosco di antenne!... Strade a scale... Palazzi!... E la galleria di Milano? Ah!... Figuratevi quattro vie col tetto di vetro e la cupola in mezzo, più grande della cupola di Santa Maria; e di qua e di , negozi, caffè, trattorie... .Nelle sere di permesso, andavo a vedere la macchinetta che accende il gas lassù. La gente, tutti coi nasi all'aria... A un tratto uno fuoco alla macchinetta, che si mette a correre in giro; pare un topolino, di laggiù, che vada lesto lesto e si lasci dietro mille fiammelle!...

Scurpiddu spalancava gli occhi.

- Ecco il treno! - s'interruppe il Soldato.

Lontano, tra gli alberi, si vedeva un pennacchio di fumo bianchiccio che correva, spariva, ricompariva.

Il treno! Scurpiddu non aveva nessuna idea della ferrovia. E intanto che il carretto prendeva la scorciatoia verso la stazione. egli non perdeva d'occhio quel fumo che correva, correva come il vento.

- E senza cavalli!

Gli pareva impossibile. E rimase a bocca aperta, trattenendo il respiro per turbamento, all'apparire di quel mostro nero che fischiava e si avanzava, trascinandosi dietro una gran coda di carri, dagli sportelli dei quali si affacciavano tante teste!

Entrò nella vettura con riluttanza, e si tenne accosto al Soldato, tenendo un'ala della giacchetta di lui.

Il treno si agitò, si mosse, fischiò, prese la rincorsa. All'improvviso, gran buio!

Scurpiddu diè uno strillo e si aggrappò forte forte al Soldato.

- Non è niente: siamo nel tunnel, sotto terra. Non aver paura.

E come ricomparve la luce, e Scurpiddu vide dagli sportelli la corsa degli alberi e delle case di campagna che pareva si precipitassero contro il treno e fuggissero via, si sentiva sbalordito, gli sembrava di fare un sogno, o di trovarsi in un mondo nuovo. Aveva dimenticato la masseria, i tacchini, Paola, le coroncine, ogni cosa; e passato il primo sbalordimento, già si divertiva di sentirsi trasportato così, a traverso quella vasta pianura, quasi a volo. E credette proprio di star per aria, quando il treno, giunto a Catania, passò su le arcate del ponte della Marina, ed egli vide laggiù tante persone tra i viali di un giardino, e, più in il mare col porto pieno di barche e di legni.

- Quant'acqua. Madonna santa!

Si sentì diventare piccino piccino.

In quei tre giorni Scurpiddu passò di meraviglia in meraviglia. Andava dietro al Soldato come un cagnolino, chiedendo spiegazìoni, fermandosi a ogni due passi per esaminar bene ogni cosa.

- Ti piace Catania, Scurpiddu? È meglio della masseria?

- È un paradisol

Una compagnia di bersaglieri, coi cappelli piumati, che andava a passo di corsa gli rimase negli occhi tutta la giornata.

Più tardi il Soldato lo fece assistere alla partenza di un piroscafo, su cui si imbarcavano molti coscritti.

- Dove vanno?

- A Napoli, a Genova. Beati loro! Li invidio!

Li invidiava in quel punto anche Scurpiddu

Gli sembrava che il cervello, in due giorni, gli si fosse slargato, che la mente gli si fosse schiarita. Di , di di quella immensa distesa di acqua, c'erano altri paesi, altra gente. E quei nuovi militi andavano a vederli, andavano a divertirsi, pensava Scurpiddu, come avrebbe fatto anche lui se avesse potuto fare il soldato. Il piroscafo, uscito dal porto lentamente, ora filava diritto, lontano; pareva una barchetta, un punto nero appena; fra poco non si sarebbe scorto più!

Scurpiddu non sapeva persuadersi come mai tutta quell'acqua non traboccasse fuor della riva. A ogni ondata che andava a frangersi su i massi della diga, egli si tirava indietro. Si rattrappiva pure alla vista di quella barchetta che ballònzolava su l'acqua e di tratto in tratto pareva dovesse venir inghiottita dai gorghi che le si aprivano sotto.

- Vuoi andare in barca? - gli domandò il Soldato.

- No, no!

Lo disse con tal accento di terrore, che il Soldato scoppiò a ridere.

- Questa sera poi, - tornò a ripetergli, - dovrai baciare la coda al Leotro. Chi viene in Catania la prima volta e non bacia la coda al Leotro, paga la multa o va in carcere.

- Che è il Leotro?

- Quell'animale di pietra nera con quei dentoni bianchi e quella tromba, che hai visto in piazza; si chiama anche elefante.

Scuirpiddu fece una spallucciata.

- Di sera, perché non ti veda nessuno.

Ma il Soldato non parlava a bastanza serio che Scurpiddu non capisse ch'egli scherzava,

- Voglio comprarmi un sillabario, un bel libro per imparare a lèggere, - disse Scurpiddu.

E andarono da un libraio.

- Di quelli con le figure, - chiese il Soldato che voleva mostrare d'intendersene.

Uscendo dalla bottega, ecco di nuovo i bersaglieri. Tornavano da una marcia, polverosi, sudati, ma altieri, con le piume al vento, sempre a passo di corsa, dondolando un braccio tutti insieme. E la gente dietro, marciando anch'essa al suono delle trombe,

- Vieni!

Il Soldato lo prese per una mano. Era stato bersagliere, e quelle trombe lo eccitavano. Scurpiddu si mise a camminare in cadenza allegramente, eccitato pure lui. Per poco non gli sembrava di avere in testa il cappello piumato,

- Dove vanno?

- Alla caserma.

Era stanco. Mai Scurpiddu aveva fatto tanta strada a quel modo.

- Così, - pensava, - farò marciare i tacchini! E mi farò un bel cappello!

I galli della masseria però non avevano piume nere alla coda. Non voleva dir niente, Meglio anzi! Il gallo vecchio avea piume che sembravano d'oro.

Di tutto quel che aveva visto in Catania, i bersaglieri gli erano rimasti impressi più vivamente nella fantasia. E lo disse alla massaia, e lo disse a Paola. Gli pareva di esser tornato in un posto morto, con tutto quel silenzio attorno. Aveva negli orecchi il rumore delle carrozze, e negli occhi il via vai della gente, e il mare, tutta quell'acqua che veniva a frangersi alla riva.

Ora, in certe serate di vento, gli sembrava di non essere più alla masseria, tanto quel vasto stormire degli ulivi nella vallata somigliava al rumore del mare che si abbatteva su i massi della diga in Catania,

Col permesso della massaia, aveva strappato ai galli del pollaio le belle piume ritorte della coda e se le era adattate al berretto capricciosamente, alla foggia dei bersaglieri. E con esse in capo conduceva i tacchini al pascolo, facendoli marciare di corsa, e suonava lui la marcia, imitando le trombe dei bersaglieri col pugno davanti a la bocca, quasi suonasse davvero una tromba.

Non pensava più alle coroncine. Aveva reso le tre lire allo zi' Girolamo, e col po' di fil di rame rimastogli, si era fatto una bella catenella, a cui aveva legato lo zùfolo che ora portava in una tasca del panciotto. Ogni sera, lettura.

E appena si trovava col Soldato, lo interrogava:

- I bersaglieri corrono sempre così?,

- Si arràmpicano come capre. Sono i migliori soldati.

- E le manovre?

Voleva sapere tutto della vita militare; come i soldati dormivano, come mangiavano, come si divertivano, tutto!

- E il re che fa alla guerra?

- Il soldato anche lui, a cavallo, coi generali. coi colonnelli, alla pioggia e al sole, dando ordini a tutti.

Il Soldato descriveva le cose a modo suo, spesso esagerando un pochino. Si era trovato alla presa di Roma, davanti a la barricata di Porta Pia, ed era stato ferito leggermente a una gamba. Si vedeva ancora la cicatrice, ed egli la mostrava con orgoglio.

- Se avessi ripreso la ferma, sarei andato anche in Africa. E ora forse non sarei qui, ma tra i morti, laggiù. sono selvaggi, neri come la pece...Sono bestie feroci; non hanno paura della morte. Questo dispiaceva a Scurpiddu: che alla guerra si dovesse morire,

- A chi tocca, tocca! - diceva il Soldato, - Tanto si muore dappertutto. Tuo padre è morto cascando da un albero. Meglio alla guerra. Una palla ti fredda, e tu non t'accorgi di niente!

E si fa guerra ogni giorno?

- Ogni mill'anni!... C'è soldati che non hanno mai visto il fuoco. Ce n'è che sono stati dieci volte alla guerra e non hanno mai avuto una scalfittura. A chi tocca, tocca!

Scurpiddu si rasserenava, quasi avesse dovuto partir domani per la guerra. A chi tocca, tocca! Dovea toccare proprio a lui?

Giacché l'idea di andar Soldato gli ribolliva nella fantasia dal giorno che aveva visto i bersaglieri. Voleva vedere un po' di mondo, come tant'altri, - e a spese del resoggiungeva. Per lui, come per tutti i contadini, il re era il governo.

I quattrini delle tasse non se li prende il re? E se li prende per mantenere i soldati, per fare quel che gli pare e piace. Chi arresta la gente? Il re, Chi mette in carcere i ladri e gli assassini? Il re. Il re fa pure impiccare. Il padrone è lui; lo aveva detto tante volte il massaio.

- Com'è il re? - domandava Scurpiddu al Soldato.

- Un uomo come te e me, con tanto di baffi e certi occhi che pare ti vogliano mangiare.

- Chi l'ha fatto il re?

- C'è nato. Noi nasciamo contadini; e quelli nascono re. Sorte!

- Ma... lui chi lo chiama per fare il soldato?

- Comanda, non fa il soldato. Il figlio del re è quasi ragazzo, e intanto è generale. Sorte! Ma pure un soldato semplice può diventare generale; prima caporale, poi sergente, poi luogotenente, poi capitano, poi maggiore, poi colonnello... .

- Ora che non ho ne padremadre, io sarò nella leva, è vero?

- Ti scarteranno, se non cresci. Sei un ranocchio.

Glielo diceva per ischerzo, Scurpiddu veniva su diritto come un fuso, mingherlino sì, ma forte e ben fatto. E si sforzava di prendere aria militare con quel berretto piumato che voleva essere un cappello alla bersagliera.

Era però sempre un ragazzo dalla fantasia facile ad accendersi, mutabile. L'idea di entrare nella milizia ora lo spingeva alla lettura. Si immaginava, dai discorsi del Soldato, che, sapendo lèggere, lo avrebbero fatto subito caporale. E non voleva perder tempo.

Un giorno Don Pietro, prima di dire la messa, gli domandò:

- È vero che hai già appreso a lèggere? Sentiamo.

Scurpiddu cavò sùbito fuori il sillabario, che portava sempre in tasca ed era ridotto molto male. Leggeva cantilenando, strascicando un po' le sillabe e le parole, strapazzando un po' gli accenti. E di tratto in tratto si fermava per alzare la testa e fissare Don Pietro negli occhi.

- Bravo! Avanti! Bene!

E Scurpiddu riprendeva a lèggere, lieto dell'approvazione del prete.

- Queste qui sono le figure, - s'interruppe all'ultimo. – Ecco il leone, ecco il bue, - Nuova-legge dello zi' Girolamo, tal quale - C'è pure...

E sfogliava il libro lestamente.

- C'è pure il Guappo, guardate, quando fa la ruota! Lo chiamano tacchino. È vero Soldato, che tacchino vuol dire nuzzu?

Don Pietro sorrise.

- Ma non si lègge cantando - gli disse; - si canta l'ufficio. Devi lèggere piano, come parli,

Scurpiddu si sentì offeso.

- I soldati lèggono così; mi ha insegnato lui, - rispose, additando alteramente il maestro.

Ormai il sillabario egli lo sapeva tutto a memoria. E sotto gli ulivi di Piano del Galluzzo o all'ombra del gelso bianco, lo ripeteva ad alta voce, senza più guardare il libro.

C'era, fra gli altri, un raccontino intitolato: La mamma è morta! che lo commoveva fortemente. Si trattava d'una bambina che chiedeva l'elemosina e rispondeva così a un signore che le domandava: Dov'è la tua mamma?

Anche lui aveva chiesto l'elemosina, anni fa: e la sua mamma pure era morta!

Se ne rammentava come di un avvenimento assai lontano, e che non gli aveva lasciato profonda traccia nell'animo. Certe volte - tutt'a un tratto - gli passava davanti agli occhi la rapida visione della sua infanzia, della straducola che sbucava nel piano di S. Maria, dei bambini cenciosi e seminudi o nudi affatto che facevano il chiasso, al sole, insieme con lui, insudiciandosi con la creta, con la polvere, mentre le loro mamme filavano in crocchio chiacchierando e cantando. E allora egli rideva la sua, giovane, bruna, coi neri capelli tirati in su che luccicavano al sole, lasciando libera la fronte: e gli risuonavano nell'orecchio le lunghe risate che ella faceva, e le belle canzoni che cantava con vocina limpida e intonata; una mamma, ahimè, molto diversa da quella riveduta parecchi anni dopo, invecchiata avanti il tempo, irriconoscibile, e che se n'era andata via per sempre quasi all'insaputa di lui!

Visioni d'un istante, che gli facevano battere rapidamente le palpebre e tremare un po' il cuore.

Poi il presente lo riafferrava, lo distraeva, coi tacchini che si azzuffavano, con Paola che si prendeva troppa libertà di vagare lontano dal pascolo, di confondersi su per gli ulivi e su pei mandorli con le tàccole selvatiche, di fare un po' la sorda quand'egli la richiamava; e anche con tutte le fantasticaggini che gli ribollivano nella mente ora che egli si sapeva possessore di una somma assai grossa per lui: quaranta lire. Otto carte da cinque, nuove nuove, ricavate dalla vendita dei suoi tacchini! Se le avesse avute nella tasca, le avrebbe contate e ricontate; ma gliele teneva in serbo la massaia, perché lui non le smarrisse. Le contava però e le ricontava mentalmente. Con l'anno nuovo, il massaio gli avrebbe dato anche il salario: quattro piastre all'anno... .quarant'otto tarì... .quasi ventiquattro lire, oltre il mantenimento! Con esse avrebbe potuto farsi un vestito e un paio di scarpe. E poi, tra altri due anni, otto piastre... tre once e sei tarì... ..novanta lire all'anno, come il Soldato, come gli altri garzoni di masseria... se non lo prendevano nella leva.

Perché avrebbero dovuto rifiutarlo?

Oltre il sillabario, sapeva anche quasi tutto a memoria un altro libro che gli aveva prestato il Soldato, l'Istruzione per le armi di fanteria. Ne capiva poco, ma non voleva dir niente.

- Dovresti piuttosto imparare la dottrina cristiana, - gli disse un giorno Don Pietro. - Ti porterò il libriccino io, domenica ventura. Tu cresci come un turco. Dovrai confessarti, far la prima comunione; non sei neppur cresimato! Che ti giova sapere quante parti ha un fucile?

- Per quando sarò soldato.

- Bel mestiere! Mestiere di ammazzar la gente e di farsi ammazzare.

Scurpiddu guardò il Soldato; toccava a lui rispondere.

- E San Sebastiano? E San Martino? Non erano forse soldati? - quegli disse.

- Ma erano anche santi. Tu, per esempio, non sei uno stinco di santo, tu! E ti chiamano il Soldato. Dico: bel mestiere! Per chi non vi è costretto dalla legge. Se fossimo cristiani davvero, ci sarebbe bisogno di soldati? Ognuno farebbe il proprio dovere, ognuno sarebbe contento dello stato in cui Dio l'ha fatto nascere, e si vivrebbe tutti in santa pace, Ma siamo peggio dei pagani. Il mio è mio, e il tuo è mio; ecco perché si fanno le guerre! E con le guerre vengono poi tutti gli altri guai! Castigo di Dio! E andremo di male in peggio, figliuolo, se non si muta strada!

- Il mondo è stato sempre così, caro Don Pietro!- intervenne massaio Turi, con la faccia bonaria sorridente. - Ha le gambe storte, come i cani, e nessuno può raddrizzargliele.

- No, no. Il Signore perché ci ha dato dunque la ragione? Perché è venuto Gesù Cristo a predicare il Vangelo? Le gambe dobbiamo raddrizzarcele da noi, facendo il nostro dovere, sforzandoci di essere uomini, non bruti.

Scurpiddu stava a sentire. Gli sembrava che il Soldato però non avesse saputo rispondere bene a Don Pietro, e che si fosse lasciato imbrogliare da lui. Si rammentava di aver sentito parlare di soldati del Papa. Il Soldato era stato ferito alla gamba da loro, alla presa di Roma. O allora?... Non era cristiano neppure il Papa? E non si potè trattenere dal dirlo.

- Il Papa un tempo era re, - rispose Don Pietro un po' imbrogliato, - e doveva avere soldati. Ora Domineddio ha voluto che non sia più re, ed è meglio... forse. Noi dobbiamo badare ai fatti nostri. E tu bada ai tacchini, sciocco; e non dar retta al Soldato che è più ignorante di te.

Scurpiddu, zitto zitto, si rimise in tasca il sillabario

 


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