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Quattro giorni dopo, Scurpiddu tornò dal pascolo senza marcia e senza banda di tacchini, Aveva gli occhi rossi dal pianto.
- Ne hai smarrito qualcuno? - gli domandò la massaia.
- No: Paola...è volata via... con le altre tàccole!...E scoppiò in singhiozzi.
La mattina era partito dalla masseria zufolando, con Paola su la spalla.
- Oggi ti farò la carrozza, - le aveva detto per via. – Una bella carrozza a quattro ruote.
Ci pensava da parecchi giorni, e aveva preparato ogni cosa.
Con le fibre delle foglie secche di fichi d'India, che sembravano finissima opera di traforo, aveva combinato la cassa, cucendola con lo spago per tenerla insieme; le ruote dovevano essere di verdi foglie carnose di fichi d'India, le due posteriori più grandi, quelle anteriori più piccole; gli assi delle ruote e il timone di canna. Vi aveva lavorato una buona mezza giornata, così intento a quel balocco, che si era quasi scordato dei tacchini e di Paola.
E Paola, intanto, si era imbrancata con le tàccole selvatiche che andavano a saccheggiare le fave novelle dietro il Monte, e non era accorsa ai ripetuti richiami del padrone che avrebbe voluto far la prova di attaccarla alla carrozza.
Era andato di qua e di là, da un punto all'altro della collina, ripetendo quel grido che quasi imitava i gracchi delle tàccole, ma inutilmente. Aveva guardato attorno tra gli ulivi, lontano tra i melogranati e i peri di Casa di Mezzo, verso il canneto, verso il gelso bianco, laggiù...
Si sentivano tubare le tortore, squittire i falchetti, fischiare merli per tutta la vallata; stormi di tàccole aliavano gracchiando, andando avanti e indietro, facendo capricciosi giri per l'aria, quasi esercizi di volo, e tornavano rapidamente verso le rocce d'onde erano partite, senza oltrepassare i seminati del Pulgaretto.
E non vedendola comparire, avea gridato allo zi' Girolamo che stava ritto, appoggiato al bastone, in mezzo ai buoi pascolanti, a sinistra della vallata.
- Oh, zi' Girolamo!... Paola!...Avete visto Paola?
- Nooo! - rispose il bovaro, prolungando la voce.
Scurpiddu, dato un calcio alla carrozza, l'avea mandata per aria sfasciata. Un triste presentimento lo agitava. Gliel'avea predetto lo zi' Girolamo.
- Un giorno o l'altro Paola andrà via, se non le mozzi le ali. Bestie selvatiche sono le tàccole. Non ti fidare!
Indovinava sempre il vecchiaccio! Scurpiddu pensava a lui con un po' di rancore, quasi il pover'uomo, con quell'avvertimento di mal augurio, gli avesse portato sfortuna.
Pure non osava credere che Paola avesse potuto fargli la partaccia di abbandonarlo! Le voleva tanto bene! L'avea cresciuta e addestrata con tanta cura! Gli teneva così buona compagnia la sera nel suo bugigattolo, quando si metteva a discorrere con lei appollaiata nel paniere infisso nel muro e che le serviva da nido! Ormai non la reputava più una tàccola, ma una persona: tanto si mostrava intelligente ed affezionata! Com'era carina - sembrava un bambino bizzoso - nei momenti che gli faceva i dispettucci di tirargli l'orecchio, un ciuffo di capelli, di strappargli di mano un oggetto, il fil di rame, per esempio, in quei giorni che egli stava occupato ad annodare coroncine e badava poco a fare il chiasso con lei! Gli teneva il broncio, si allontanava su per gli alberi attorno, accorreva con ritardo al richiamo di lui, come se volesse castigarlo... E appena si risolveva, che carezze, che vellicamenti di orecchi! E con che grazia gli si appollaiava sul braccio, piegando le gambine, talvolta mettendo la testa sotto un'ala, quasi intendesse di dirgli: - Vorrei stare qui sempre! Ci si sta così bene! - Giacché per lui Paola parlava a verso suo, sì, ma parlava, e pure intendeva le parole di lui.
Vide apparire di su la cima del Monte un gran stormo di tàccole che volavano fitte e facevano una macchia nera nel cielo azzurro. Scendevano, gracchiando allegre, rapidamente, verso le rocce della vallata dov'erano i loro nidi, Scurpiddu attese che gli passassero, in alto, sul capo, per chiamare replicatamente: - Pao!...Pao!... Pao!.. - mangiandosi l'ultima sillaba del nome per imitar meglio il grido delle tàccole; e facendosi visiera della mano contro il sole, guardava ansioso, se mai avesse potuto riconoscerla. E l'aveva riconosciuta dalla catenina di rame che le straluccicava al collo Allora si era messo a gridare più forte: - Paola! Pao!...Pao!.. - Ma le altre tàccole avevano circondato Paola per condurla con loro, come una conquista gloriosa, a viver libera tra le rocce. Scurpiddu notò infatti che, un istante, Paola si era arrestata, aveva piegato il volo in giù, e che le altre tàccole, stringendosele attorno, beccandola, spingendola, l'avevano costretta a tirar via, tra un clamoroso gracchìo di vittoria.
Lo stormo era già lontano, e Scurpiddu, immobile, con gli occhi gonfi di lagrime, credeva di veder luccicare ancora la catenina di fil di rame al collo dell'ingrata che lo abbandonava...
- Paola! - gridò con voce soffocata dai singhiozzi.
Ma Paola era già sparita dietro i fichi d'India che facevano siepe su l'orlo delle rocce nella gola della Caldaietta.
- Vergogna! Piangere per una tàccola? - le disse la massaia. - Non sei più un bambino!
A letto, prima di spegnere il lume, Scurpiddu si sentiva solo senza Paola. Guardava il paniere vuoto infisso nel muro e crollava il capo.
Pure non disperava di rivederla.
- Tornerà! - pensava. - Qui stava calduccia. A una buca della roccia non saprà adattarsi certamente. Tornerà!
E la mattina, avanti di avviarsi coi tacchini al pascolo, si affacciò dal ciglio del precipizio dietro il frantoio per richiamare la fuggitiva, caso mai la scorgesse. Gli rispose soltanto l'eco, due o tre volte. Scurpiddu tornò addietro a capo chino, e sfogò la stizza coi tacchini che quella mattina non andavano diritto, o indugiavano a pascolare tra le erbe ai fianchi della strada. Guappo si buscò un bel colpo di canna, Vittorio Emanuele un calcio, Garibaldi un urto con la gamba.
E per via, Scurpiddu guardava in alto, osservando gli stormi di tàccole che passavano gracchiando allegramente. Ma Paola non era tra essi; l'avrebbe sùbito riconosciuta.
Con un groppo alla gola, dimenticava di cavar dalla tasca la colazione; non c'era più Paola che venisse a beccargli la fetta di pane nero tra le mani. Più tardi però l'appetito si fece sentire. Scurpiddu a ogni boccone, masticando lentamente, quasi il pane o le olive nere salate avessero sapore amaro, guardava attorno, lontano, lusingandosi ancora che da un momento all'altro Paola comparisse; ma l'infamaccia, - così egli diceva internamente, - non si faceva vedere!
E sarebbe stato meglio, se non si fosse fatta più vedere. Sul tardi un piccolo stormo di tàccole, sei o sette, venne a posarsi sui mandorli di Rossignolo. Una di esse si staccò dal ramo poco dopo, e si mise ad aliare sul branco dei tacchini che pascolavano. Si accostava, tornava indietro rapidamente, riveniva esitante…Era Paola, con la catenina di rame che luccicava al collo! Scurpiddu non aveva forza di chiamarla, tanto la commozione gli paralizzava la lingua, dandogli frèmiti di gioia. Due o tre volte, Paola tornò a posarsi con le altre sul ramo del mandorlo, riprese ad aliare gracchiando, pareva attendesse il richiamo; poi le compagne spiccarono il volo e la condussero via.
- Infamaccia! - singhiozzò Scurpiddu.
Da quel giorno in poi la infamaccia non si fece vedere più.