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Storia d'una capinera! E prima di aprire il libro stetti un pezzettino a fantasticare sul soggetto. Che poteva mai essere? Io m'abbandono volentieri a questo genere di voluttà; fantasticare per me vuol dir pensare, è un piacere come un altro. Vi sono dei titoli che dicono chiaro e tondo tutto il contenuto di un libro e anche il metodo con cui l'autore lo ha trattato; allora leggo quasi svogliatamente. Ve ne ha degli altri che dicono molto e nulla, come questo qui: sono titoli di mio gusto. Ho lí dinanzi un gentile mistero che mi tenta e mi seduce; e prima di vedere come il suo autore ne l'abbia sciolto, vo' provarmi a scioglierlo di mio. La fantasia si lancia di carriera, il cuore si riscalda; e appena tutto un nuovo piccolo mondo apparisce bello e sorridente del mio pensiero, apro il libro e m'ingolfo di botto nella lettura. È una vera fantasmagoria. Al contatto della realtà quel leggiero e bizzarro miraggio da Fata Morgana si sbanda, si assottiglia. Figura d'un istante, paesaggio d'un minuto, tutto si confonde, si discioglie e dilegua incalzato dalla nuova impressione che viene dal libro, e quanto il contrasto, l'antitesi riesce maggiore, tanto è piú grande il piacere che la lettura produce.
Storia d'una capinera! Hoffman, Poe, Achim d'Arnim mi passarono per la mente con tutte le loro strane, immortali creature; un'atmosfera piú sottile; una luce piú pura; una natura meno consistente, meno ribelle; la vita sciolta e libera dalla necessità delle sue leggi... ma niente affatto. Avevo sotto gli occhi «una di quelle intime storie che passano tutti i giorni inosservate, storia d'un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime, e di far sentire la sua preghiera; che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto.» ed il paesaggio? La falda dell'Etna, uno dei piú deliziosi paesaggi del mondo. Lessi tutto d'un fiato.
Il sig. Giovanni Verga non è novellino nella palestra del romanzo. Questo se non sbaglio, è il suo terzo racconto. Nel 1866 ci narrò un'altra storia di amore, Una peccatrice, che molti lessero in quella raccoltina pubblicata dal Negro a Torino, col titolo di Ore di piacere. Che storia! Bruciava di passione, come il sole della sua Sicilia. Veramente la sua lingua, il suo stile erano allora assai imperfetti; ma piú la lingua che lo stile. Questo scorreva lesto, franco, schietto, sebbene avesse tutta l'aria d'una traduzione dal francese. La narrazione intanto procedeva vivacissima, rapidissima, forse anche troppo affrettata, ma tirava via con sé il lettore. Ci era insomma la vita, una gran promessa per l'avvenire.
L'amore colpevole, nato in Catania per una di quelle fatalità che non son tanto rare, era andato a nascondersi in Napoli, nella Strada Nuova, in una graziosa casetta a due piani. «Per giungere al salotto, si attraversava una piccola serra a cristalli, che occupava uno dei lati d'una terrazza assai vasta, della quale si era fatto un giardino pensile, sporgente in quella spiaggia incantata della Marinella che ha il bel golfo di Napoli per orizzonte, e in fondo Capri e Sorrento. Quella specie di stufa dove vegetavano le piú belle piante esotiche circoscriveva come in un'atmosfera separata dalla città clamorosa, il salotto e il gabinetto di studio che vi era contiguo. I rumori esterni sembravano estinguersi sulla sabbia finissima del viale, come il piú lieve alitare di vento moriva sulle grandi foglie di quelle piante immobili nelle loro masse svariate. Il salotto era addobbato con lusso; ma quel pensiero tutto originale che aveva disposto lo stanzone dei fiori prima di giungervi, e il giardino sulla terrazza, sembrava aver presieduto nei minimi dettagli alla situazione di tutti gli oggetti che lo decoravano. Le porte vetrate che si aprivano sulla terrazza erano nascoste, alla lettera, da persiane di pianticelle rampicanti; tutto ciò unito alle pitture dei vetri e alla doppia tenda di raso e di velo faceva penetrare soltanto nella sala quella mezza luce che, col lasciare indistinte le forme degli oggetti, vi crea mille nuove immagini, e ne popola la semioscurità di quei mille segni incantati, di quelle sfumature voluttuose che tanto piacciono alle signore galanti. Il passo si arrestava sui tappeti vellutati, come se temesse di destare un'eco che potesse strappare dalla deliziosa preoccupazione che faceva quell'atmosfera». Or metta il lettore entro questa cornice le due figure di Pietro e di Narcisa. – Che vita, mio Dio! che vita! mormorava ella soltanto qualche volta. – Infatti era proprio un affrettarsi a morire; era anzi peggio. Il sentimento si sforzava, si consumava violentemente in quella [parola semicancellata indecifrabile] solitudine ove non si nutriva d'altro che di se stesso. Oh, se il corpo si usasse in tal caso con uguali proporzioni del cuore! Ma, d'ordinario, il corpo sopravvive all'ultimo palpito di questo; ed è un terribile punto. Piú terribile quando la stanchezza, il disgusto, la nausea non arrivano da una volta e nella donna e nell'uomo! Par strano, ma è naturale; l'uomo, il piú forte, cade il primo in questa lotta del sentimento e del senso. La donna se cede, è per ricominciare daccapo.
Il sig. Verga raccontò con calore, con raro affetto, questa crisi narrata migliaia di volte, e che si può tornar sempre a narrare, tanto varia è nei suoi particolari e tanto attraente. L'Adolphe di Beniamin Constant sarà ripetuto all'infinito. In fondo la Peccatrice del sig. Verga non è una sorella di Eleonora? Ma nel romanzetto italiano il dramma è piú complicato. Poi, benché la situazione verso la fine si riduca identica, l'impressione n'è diversa. Nell'Adolphe vi è una crudele e straordinaria potenza d'analisi che ricerca i piú oscuri, i piú impenetrabili, i piú ignorati angoli del cuore, e gli illumina di una luce fredda, sinistra, spietata. La sua lettura fa male: fece male anche a Byron! Nella Peccatrice la situazione principale anzi unica dell'Adolphe è una fase toccata bene, ma di volo, tanto per arrivare alla catastrofe. E qui, badiamo. Questo mettere a riscontro di un famoso capolavoro lo scritto quasi sconosciuto di un giovane non paia irriverente pel Constant: ad un confronto fatto sul serio, la modestia dello scrittore catanese sarebbe la prima ad offendersi. Io ho accennato questo tratto di somiglianza per dire precisamente ciò che in quel racconto si faceva piú desiderare, l'analisi. Tutto quel moto, tutta quella vita, tutta quella passione erano troppo condensati nelle 235 paginette in trentaduesimo del volumetto della Peccatrice, e vi stavano come a disagio. Bisogna intanto confessarlo, un tentativo d'analisi vi appariva, e il piú difficile, quello che non si spiega nella narrazione soggettiva dello scrittore, ma s'incarna nel personaggio, si muove, si agita e diventa dialogo, azione: però riusciva insufficiente. La situazione non veniva ricercata fino in fondo, svoltata, per modo di dire, e rivoltata da tutti i lati nei suoi caratteri piú rilevanti. Vi si scorgevano tinte vive, ma un po' crude; poche mezze tinte, poche sfumature, niente velature, e forse non era giusto pretenderlo in un lavoro cosí giovanile. L'arte del narratore è arte difficile. Certi segreti di concezione, di svolgimento, di osservazione minuta e non minuziosa, di disposizione di parti, di preparazione di effetti non si apprendono a un tratto – Balzac per sciogliersi, com'egli diceva, la mano scrisse una ventina di romanzi messi fuori tutti anonimi prima di presentarsi al pubblico con un lavoro da lui stimato di recare in fronte il suo nome (precauzione di un uomo di genio che mette in pensiero!). Ora, che meraviglia se questi segreti dell'arte non apparivano tutti posseduti dall'autore della Peccatrice? Ma la narrazione, cosí qual'era, diceva bene il suo segreto: quel racconto prometteva.
La Storia di una capinera comincia a mantenere. E in primo la lingua ha già acquistato molto; lo stile moltissimo: hanno ormai sapore italiano. Tutto il racconto poi è improntato d'una semplicità schietta e gentile che fa il suo effetto senza far le viste di volerlo; e non è poco, mi pare. Vi è antitesi colla Peccatrice e in tutto e per tutto. Lí la passione scoppiava furibonda, irresistibile, percorreva intera il suo cammino con foga tremenda, e perdeva la sua forza nel violento abuso di se stessa. Qui nasce inavvertita, lenta, esitante, a volte si nasconde come per pigliar in segreto nutrimento e vigore: poi riapparisce trionfante. Ma il trionfo è breve. Le manca il contrapposto esteriore: non vive, si consuma. Infatti non è la nausea, la stanchezza, la sazietà ciò che qui produce la catastrofe: è la pienezza, è la forza che non può esercitarsi sul di fuori, e si scioglie, si disorganizza da se stessa con cieco furore.
Il sig. Verga questa volta ha finemente analizzato, ha pienamente reso il suo concetto, l'impressione è viva e sincera. Povera Maria! Il colera che invade Catania la fa uscire dal convento e la spinge a Monte Ilice, sulle falde dell'Etna, insieme alla sua famiglia. Suo padre le aveva dato una matrigna che non può amarla perché ha già due figli e agogna per la sua Giuditta la dote materna di lei. Maria è stata a tal fine chiusa da ragazzina in un convento, destinata a vivervi e a morirvi. Tutto le parla ogni giorno di questa sua fatale situazione ed ella non osa pensare a ribellarvisi: si sa debole e china il capo silenziosa. Fino a pochi giorni fa ella, per dir vero, non sapeva nulla di questa sua debolezza, di questo destino che ora le incombe triste e grave sul cuore: ignorava ed era felice. Tutto il suo mondo era rimasto circoscritto entro la cinta del monastero; non aveva avuto agio di far confronti, o, se li faceva, erano con un concetto strano, falsato per pia malizia ed assai vago e cattivo del vero mondo. Ma, benedetto colèra! Ella è ora alla campagna e può godere liberamente dell'aria, della luce, del cielo, degli alberi, dei monti, delle valli, del mare. I confronti vengono involontari; è la natura che li fa: la povera Maria a volte non li accetta senza un profondo rimorso. Poi, oltre alla natura, vi è la famiglia. Quante grandi sensazioni! Quanti sentimenti inattesi! Maria deliba un'esistenza tutta nuova, e si affretta a godersela. Le preme di recarsi nella solitudine ché l'attende un tesoro di ricordi da bastarle per anni e anni fino al dí della morte. E scrive alla sua Marianna, un'amica di convento, le scrive ogni cosa, giacché communicar agli altri le nostre impressioni è come un provarle di nuovo, un rigustarsele con voluttà spirituale che la prima volta mancava. Sono lettere ingenue, proprio femminili, dove il sentimento e lo stile prendono una gentilezza, una trasparenza ammirabili, e che tra noi, a petto del retoricume d'alta e di bassa lega che ha gran corso, acquistano un pregio piú grande. Oh come sente la giovane educanda batter il core allo spettacolo della natura! I paesaggi le vengono spessi e variati sulla punta della penna.
«Il sole tramontava da un lato, mentre la luna sorgeva dall'altro: alle due estremità due crepuscoli diversi: le nevi dell'Etna che sembravano fuoco; qualche nuvoletta trasparente che viaggiava per l'azzurro del firmamento come un fiocco di neve; un profumo di tutte le vigorose vegetazioni della natura: un silenzio solenne. Laggiú il mare s'inargentava dei primi raggi della luna; quel gruppetto di fabbricati che dev'essere Catania, la grande città; la vasta pianura in fondo limitata da quella catena di monti azzurri e solcata da quella striscia lucida, serpeggiante che è il Simeto; e poi, grado a grado salendo verso di noi, tutti quei giardini, quelle vigne, quei villaggi che ci mandano da lontano il suono dell'avemaria; la vetta superba dell'Etna che si slancia verso il cielo e le sue vallate che già sono tutte neve, e le sue nevi che risplendono degli ultimi raggi del sole, e i suoi boschi che fremono, che mormorano, che s'agitano...».
È un paesaggio non solamente veduto bene, ma, quel che piú importa, sentito. E la natura sola, immensa, inanimata non colpisce nella giovinetta unicamente l'immaginazione: il cuore comincia a destarsi. «La sera quando dalla finestra ascolto lo stormire di tutte quelle fronde e fra quelle ombre che assumono forme fantastiche veggo un raggio di luna agitarsi tra i rami come uno spettro bianco, e ascolto quell'usignolo che gorgheggia lontano, mi si popola la mente di tante fantasie, di tanti sogni, di tanta dolcezza, che, se non avessi paura, aspetterei il giorno dalla finestra». Né è sempre la natura sola, immensa, inanimata quella che fa impressione su di lei. «Dall'altra parte della spianata ci è una bella capannuccia col tetto di paglia e di giunchi ove abita la famiglia del castaldo. Se vedessi la bella capanna, com'è piccina ma pulita! Come tutto vi è in ordine e ben tenuto! La culla del bimbo, il pagliericcio, il deschetto! Per quella capannuccia sí che cambierei il mio stanzino. Mi pare che cotesta famigliola, riunita in due pezzi di terreno, debba amarsi di piú ed esser maggiormente felice; mi pare che tutte quelle affezioni, circonscritte fra quelle strette pareti, debbano esser piú intime, piú complete; che il cuore commosso e quasi sbalordito dal cotidiano spettacolo di cotesto orizzonte che è cosí grande, debba trovare un gaudio, un conforto nel ripiegarsi in se stesso, nel rinchiudersi tra le sue affezioni, nel circoscriversi in un piccolo spazio, fra i pochi oggetti che formano la parte piú intima di se stesso e che debba sentirsi piú completo trovandosi piú vicino ad essi». Ecco il cuore è già desto! Quando ritornerà in convento... Ma è proprio una sciocchezza accennar anticipatamente al lettore qual doloroso dramma succederà nel cuore della sventurata Suor Maria: è meglio ch'egli riceva l'impressione diretta, immediata e soprattutto completa dell'insieme del libro, un paio d'ore di bella lettura.
Quello di che io so maggior grado al sig. Verga è l'aver evitato il piú grande scoglio del suo soggetto. Con un sentimento men vivo dell'arte, era facile ridurre il racconto ad una volgare diatriba contro le monache e i conventi, bel tema di moda. Egli invece ha circoscritto il suo libro entro gli stretti confini di un'opera d'arte, e secondo me ha fatto benissimo. L'effetto, non ricercato col lanternino, non tirato su con gli argani per la parolona e la declamazione retorica progettata da prima, scaturisce spontaneo, sobrio, tanto piú efficace quanto meno ha l'aria di mirarvi. Il sig. Verga in questo ha praticato uno scrupolo squisito. Non si è lasciato scappare una sola frase, un menomo accenno. Ma poi, a che prò? La sua storia semplice, commovente non aveva bisogno di lustro. Lo scrittore infatti si è abbandonato al suo tema col cuore aperto: ha fatto anzi ogni sforzo per celare lo studio, l'arte (e non ce n'è mica voluta poca), e talvolta forse per paura di sembrare men franco e meno naturale, non ha osato qua condensar meglio, là dare al concetto un rilievo piú spiccato; qua ravvivare alcune tinte, grigie ed uniformi, lí abbassare il tono alquanto stridente col resto. E questo è piú notevole verso la fine. Alla verisimiglianza del racconto nuoce nelle ultime pagine la forma epistolare da lui adottata: la quale, se è naturale finché l'animo di chi scrive è tranquillo e poi si agita, si commove e freme finalmente in tempesta, esce dal vero quando già il turbine del cuore invade anche l'intelletto e vi offusca la ragione. La infelice suor Maria non invia altro in quei terribili istanti che parole interrotte, slegate, in rapporto con le idee rapide e scombuiate erranti a caso per la sua mente; ed esse suppongono una tale agitazione, un tale esaltamento nervoso che non avrebbero affatto consentito lo scrivere.
Ma se quell'inciampo non è stato vinto, quello piú grave di eccedere nell'analisi psicologica mi par superato. L'azione del racconto è tutta intima, nel cuore, e quindi d'una grande difficoltà ad esser resa con intonazione conveniente. Il movimento intanto vi è côlto bene, il processo diligentemente ed acutamente osservato; non vi è punto in cui si provi l'impressione che quella che scrive non sia una donna, una monaca di Sicilia. L'autore è sparito, è rimasto l'artista.
Qualcuno forse sorriderà vedendomi trattenere cosí a lungo intorno ad una piccola pubblicazione: infatti, è contro l'uso. Già, piccolo o grande, il lavoro letterario italiano riman quasi inosservato. I periodici che particolarmente se ne occupano son poco diffusi e giovano poco. Per il resto è [...] se un pietoso giornale politico degna di quando in quando buttar giú righe di annuncio bibliografico che colla sua magrezza fa già dispetto. E la conseguenza quale è? I giovani non veggono incoraggiati i loro tentativi né dalla stampa né dai lettori, e sparpagliano quindi le loro forze, non le educano ad uno scopo. Oggi la poesia, domani il teatro, doman l'altro il romanzo, tanto per tentar di scuoter quell'indifferenza che tarpa ogni entusiasmo, ogni fiducia giovanile; e tutti questi generi toccati sbadatamente, senza preparazione, pur di trovare una nota che fermasse, non fosse altro, la curiosità di quella gente.
Il fenomeno da che proviene? Da cagioni diverse. Per dirne una, noi, in generale, mi pare c'intendiamo d'arte assai poco. La prima cosa che facciamo quando abbiamo davanti un'opera d'arte è il domandarle piú che essa non prometta, piú che non potrebbe mantenere. Naturalmente il pensiero, la riflessione, via, l'insegnamento c'è di suo diritto in ogni opera d'arte; ma quale ci può essere, né sempre di un verso: bisogna sapernelo cavare. Oggi che affettiamo di esser savii, positivisti (quasi per paura di esser positivi) il guaio si è fatto maggiore. Ecco l'unica opera d'arte che omai sia possibile, che sia affatto moderna: lirica, dramma, storia, psicologia ad una volta; vero punto di formazione, di transizione in cui l'imaginazione, il sentimento e la riflessione possono per poco confondersi insieme e parere ed essere una cosa sola: ecco, dico, il romanzo contemporaneo, la novella in tutte le loro forme, dalla narrazione propriamente detta alla autobiografia... ecco una schiera di giovani volenterosi che tentano, che provano, che non di rado riescono: ebbene? Noi siamo curiosi, domandiamo loro di primo acchito dei capolavori e in due, tre volumi; non ci contenteremo di meno. E, naturalmente, i lavori non vengono. La via per cui si giunge al capolavoro (quando vi si giunge) è di solito ardua, scabrosa, d'un tirocinio lungo, penoso; e se il povero diavolo che ha addosso la febbre sacra e suda e lavora e non sente un bravo, un bene, una parola di elogio e di consiglio qualunque mano mano che fa un buon tratto e piú si accosta alla meta, novantanove fra cento si perde d'animo e lascia in asso ogni cosa. L'uomo è fatto cosí; non si rimpasta. Fossimo almeno tanto ricchi da poter sfoggiare in noncuranza.
Non intendo con questo che la critica debba occuparsi minuziosamente di ogni piú piccolo e stentato poeticino: allora andrebbe agli eccessi. Se essa non ha naso da scoprire anche sotto l'involucro una buona qualità, una facoltà poco attiva ma poderosa, vuol dire che manca del suo pregio principale ed è critica di nome. Spesso chi meno si conosce è lo stesso autore. Quando la critica viene alla scoperta dello scrittore nell'autore, e lo mette a nudo, e lo analizza e lo fa valere innanzi agli occhi di lui medesimo, rende un gran servizio all'individuo e al pubblico. Quella forza che si riconosce procede piú animosa, piú diretta: si esercita, si svolge con coscienza e si matura piú presto. Il pubblico poi non guadagna meno. Una critica fatta a questo modo sarebbe scuola che non pone i giudizii belli e manipolati, ma dà il verso di farseli da sé, che è infinitamente meglio. Giacché criticare oggi non significa misurare ad una stregua convenuta di avanzo per astratta concezione, ma tutto penetrare, ma tutto intendere, dirò anche tutto amare, perché secondo il proverbio chi piú intende piú ama. E nessuno vorrebbe affermare che per questo genere di critica manchi l'occasione fra noi.
Quando pubblico e scrittori saranno abituati a riguardare un'opera d'arte principalmente anzi unicamente come opera d'arte, le cose cambieranno aspetto. In ogni vera opera d'arte, ripeto, la lezione, la moralità c'è di suo diritto, e c'è tanto piú grande quanto meno l'autore abbia avuto l'espressa intenzione di mettervela. Talora accade anzi ch'essa non risulti preciso quella che l'autore voleva, ma tutt'altro; non di rado l'opposto. E la ragione di questo vien facilissimo a trovare. Una vera opera d'arte è la vita côlta nei suoi caratteri piú rilevanti; e vita vuol dire prima d'ogni altra cosa un movimento reale dello spirito, quindi storia fermata nell'opera d'arte proprio sul punto di farsi. Cosí l'Iliade e l'Odissea non sono soltanto due immortali capolavori poetici, ma anche due immortali documenti di storia; cosí la Comédie humaine sarà consultata in avvenire con maggior profitto di qualunque altra opera storica piú propriamente detta.
Mettiamo, per esempio, che l'autore della Storia di una capinera abbia realmente pensato a darci una lezione col suo libro. Quale? Forse che la vita monastica riesce a snaturare nella religiosa i piú soavi sentimenti del cuor della donna, e quando trova una costituzione, un carattere ribelle a tal snaturamento attenta alla ragione e sovente distrugge la vita? Sia: è l'insegnamento immediato; una verità morale la piú facile, la piú ovvia ad essere afferrata, ma, secondo me, né la migliore né la piú importante del libro. Quella povera Maria, perché studiata sinceramente dal vero, non è soltanto la ragazza sacrificata sull'altare dall'ingordigia dei parenti, una Monaca di Monza-Susanna Simonin qualunque (la Religieuse di Diderot); ma innanzi tutto è la ragazza della borghesia siciliana della prima metà di questo secolo XIX, è un carattere, un tipo. Quale differenza fra le tre figure! Mettiamo la Monaca da banda, troppo lontana dalle nostre idee, dai nostri sentimenti da poter servire ad un confronto. Quello che piú ferisce la mente, ricorrendo dalla Storia di una capinera alla Religieuse di Diderot, è una verità che ha tutto l'aspetto d'un paradosso. Maria-Susanna Simonin par piú moderna della nostra Maria, benché la prima sia già venuta al mondo un secolo innanzi. Anche senza l'ingegno di Diderot, che è grandissimo, questa differenza sostanziale sarebbe apparsa (come ben si vede) nell'intonazione dei due lavori. L'uno è uno scritto nervoso, tutto fatti, tutto movimento, che non rifugge da nessuna crudezza di colorito, e narra con imperterrita franchezza e le triste scene della famiglia, e gli amori del convento di Longchamps, e le lubriche tentazioni della superiora di Arpajan. Il realismo vi è spinto alla sua estrema arditezza, e l'arte vi attinge una potenza di effetto impossibile a sfuggire. Si sa che Diderot col suo amico Grimm trassero in inganno con questo romanzo il bravo marchese di Croismore. Quell'ottimo cuore credette che il manoscritto gli fosse stato inviato davvero da Suor Susanna, e pianse a calde lacrime e mandò dei quattrini in soccorso della creduta infelice. Grimm poi e Diderot se la scialarono allegramente alla barba del marchese.
Il racconto italiano è l'opposto. Fatti pochi, poca nervosità, movimento esteriore assai meno: tutto si concentra in un affetto. Dalla prima all'ultima pagina una calma gentile. Il sig. Verga che sa, come oggi si dice, far anche del realismo, ha qui evitato ogni tocco risentito; né per progetto io credo, ma perché il tema non lo voleva. Or donde nasce mai questa notevole differenza? Nasce da che Suor Maria e Suor Susanna rappresentano quasi due civiltà: soltanto l'ordine cronologico è per caso invertito. Se vuolsi restaurare idealmente la storia, la giovinetta siciliana va ritenuta come la donna moderna di piú di un secolo fa; riproduzione artificiale, forzata, che le condizioni politiche e sociali potevano far durare fino a ieri in Sicilia, oggi rapidamente e quasi completamente sparita. C'è quindi da ringraziare il Sig. Verga di averci cosí felicemente ritratta cotesta figura incerta, morbida, senza lineamenti spiccati; e bisogna tenergli conto di tale mancanza di rilievo e di solidità di carattere proveniente dal soggetto quando alla lettura si farà in alcuni punti del suo romanzo desiderare un'elevatezza di mente e di cuore che la sua pietosa eroina non poteva permettere senza diventar proprio falsa.
A parer mio questo è l'insegnamento piú importante che la Storia di una capinera ci porga. Io l'ho accennato appena. Il tema è fecondo di osservazioni e di confronti; e il lettore, quando volesse, potrebbe farli con piú agio e piú ingegno di me. Intanto, domando, se un'opera d'arte non desse altro che la sola materia di simili osservazioni e confronti, crede forse il lettore ch'essa darebbe assai poco?