Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Verga e D'Annunzio
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I. SCRITTI VERGHIANI

VITA DEI CAMPI

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VITA DEI CAMPI2

Quando il Verga scrisse la Nedda forse non credeva d'aver trovato un nuovo filone nella miniera quasi intatta del romanzo italiano. La povera raccoglitrice d'ulive rimase un'eccezione nel suo lavoro d'artista e pareva stesse a disagio fra le eleganti sue sorelle che portavano i nomi pieni di fascino d'Eva, d'Adele, di Velleda e di Nata. Che veniva a farci la varannisa colla sua vestina di fustagno lacera e insudiciata, coi suoi piedi scalzi, intrisi di mota, colla sua faccia abbronzata dal sole e travagliata dai patimenti, colla sua capigliatura arruffata e i suoi occhioni neri dalla pupilla sbalordita, che veniva a farci in mezzo a quelle figure tutte parate di seta, di velluti e di trine, tutte coperte di minio e di polvere di Cipro, profumate d'opoponax e di fieno fresco, coi guanti a trentadue bottoni e gli stivaletti di raso dal tacco enorme? In mezzo a quei cuori divorati da strane passioni, a quei nervi sconquassati dalle violente ebbrezze dei sensi, fra quelle meteore luminose e sinistre portate via dal turbine delle feste, dei teatri e delle corse, che veniva a farci lei, la infelice creatura? Era proprio un'intrusa.

Però Eva, Velleda e Nata avrebbero dovuto guardare con un occhio d'invidia la pietosa contadina siciliana che amava coll'istintiva sincerità dell'animale e manifestava il suo profondo affetto di madre ringraziando la Madonna d'essersi portata in paradiso il frutto precoce d'un amore disgraziato. Nel mondo dell'arte quella contadina valeva assai piú di loro. Rare volte s'era inteso in Italia un accento cosí schietto di vera tristezza, un'impressione cosí viva e cosí immediata della realtà, che rivelano una potenza d'artista affatto fuori dell'ordinario. Quel bozzetto acquistava sotto gli occhi le grandi proporzioni di un quadro. Le tinte sobrie ma calde davano la vigorosa sensazione del cielo infocato della Sicilia. In quel paesaggio arsiccio, selvatico, sotto l'ombra del bosco di castagne sui fianchi dell'Etna, la figura della varannisa si modellava con una meravigliosa nettezza di contorni, con un rilievo potente: e l'emozione destata nell'animo del lettore dall'opera d'arte differiva poco o nulla da un'emozione di prima mano. L'autore aveva avuto la felice malizia di nascondersi dietro la stupenda solidità delle sue figure e il lettore non vedeva che queste: l'illusione era completa.

Ma il Verga tornò subito alle scene della vita elegante che sembrava prediligere perché poteva studiarle piú da vicino. Eros e Tigre reale riportarono i lettori nell'ambiente raffinato e quasi artifiziale dell'alta società; tra sentimenti troppo riflessi per potersi dire sinceri, tra vizii che perdono il loro carattere sotto la maschera dell'eleganza e della indifferente disinvoltura, fra passioni che rimangono compresse e sfibrate dai pregiudizii dell'educazione e della invincibile forza del che si dirà? Però in quest'ambiente elevato, pieno d'ombre e di sottintesi, smussato, levigato pareva che l'artista perdesse molte delle sue belle qualità mostrate tanto vigorosamente nel bozzetto della Nedda. Le figure non arrivavano a prendere un completo rilievo; nuotavano, sfumate, entro una luce che sembrava falsa e qualche volta era davvero un po' di convenzione, come nella Tigre reale. L'arte si lasciava scorgere. Non si provava piú la impressione diretta. Già si cominciava a dubitare della reale potenza del suo talento di scrittore, a creder la Nedda uno di quei colpi di buona fortuna che capitano soltanto una volta e non provano niente per la costituzione artistica d'un ingegno. Le circostanze confermavano queste supposizioni poco benevole. Tigre reale, scritta prima dell'Eros ma pubblicata dopo, parve un passo indietro e, forse non a torto, la cosa piú fiacca del Verga, quantunque avesse due o tre scene degne dell'autore dell'Eva. Ah! le promesse di questo primo lavoro che aveva messo, di lancio, il nome dell'autore tra i piú noti fra noi, le belle promesse di questo volumetto pieno di passione e di sentimento non erano state mantenute! E quando il Verga, oppresso da lutti domestici, rinunziò per parecchi anni alle dolcezze dell'arte, molti che domandavano di qua e di : Ma il Verga? Ma che fa il Verga? pareva avessero una convinzione di sconforto sull'avvenire dello scrittore.

Ma eccolo che rientra nella vita letteraria e trionfalmente, da pari suo.

Le otto novelle che formano questa Vita dei campi provano che la Nedda non fosse un'eccezione quasi inesplicabile, e che l'ingegno dell'autore non sia punto esaurito. Egli ricomparisce con tutta la potenza di disegno e di colorito da lui mostrato in quel fortunato bozzetto, ma con una maestria piú affinata, piú vigorosa e piú progredita nei grandi segreti dell'arte. Oramai Nedda non sarà sola. Mara, Lola, la gna Pina la lupa, la Peppa, la Saridda le terranno buona compagnia col loro corteggio di amanti e di mariti. C'è Jeli il pastore mezzo inselvatichito fra i solitarii pascoli di Tebidi; Rosso Malpelo e Ranocchio vere talpe della cava di rena rossa alla Carvana; c'è Turiddu, il bersagliere, e compare Alfio, l'omo, che non si lascia posare una mosca sul naso: c'è in ultimo quel buon diavolo di Pentolaccia che finisce cosí male, in galera, per aver perduto in un momento la sua filosofia di marito senz'occhi e senza orecchie.

Il romanziere della vita elegante è ritornato fra i campi della sua Sicilia, in quell'angolo dell'isola che sta fra il monte Lauro, le colline di Vizzini e la vasta pianura di Mineo.

Oh, come è stato bene ispirato a riprendere l'intatto filone scoperto colla Nedda!

Il suo libro (questo volume è un vero libro, benché composto di novelle diverse) ha un carattere d'originalità spiccatissimo anche per via del soggetto: ma non soltanto per questo. Le otto novelle son riuscite delle opere d'arte che non trovano nessun riscontro nella nostra sbiadita letteratura, e stanno a paro dei piú bei lavori di simil genere della Sand e dell'Auerbach. Li vincono anzi per la sincerità del sentimento, la freschezza delle tinte, la perfetta intonazione del colorito. Il Verga può dire anche lui d'aver fatto qualcosa qui ne ment pas et qui aie l'odeur du peuple.

Un'opera d'arte, novella o romanzo, è perfetta quando l'affinità e la coesione d'ogni sua parte divien cosí completa che il processo della creazione rimane un mistero; quando la sincerità della sua realtà è cosí evidente, il suo modo e la sua ragion d'essere cosí necessarie, che la mano nell'artista rimane assolutamente invisibile e l'opera d'arte prende l'aria d'un avvenimento reale, quasi si fosse fatta da sé e avesse maturato e fosse venuta fuori spontanea, senza portare traccia nelle sue forme viventi né della mente ove germogliò, né dell'occhio che la intravvide, né delle labbra che ne mormorarono le prime parole. È la teoria dell'arte moderna; il Verga l'ha espressa quasi colle stesse parole (pag. 154). Ma dalla teorica alla pratica il passo è lungo, lunghissimo. Egli che l'aveva già fatto, con molta abilità, nella Nedda, lo ripete con maggior sveltezza nella Vita dei campi.

Questi suoi contadini non sono soltanto siciliani, ma piú particolarmente di quella piccola regione che sta, come dissi, fra Monte Lauro e Mineo. Tolti di , anche nella stessa Sicilia, si troverebbero fuori posto. I loro sentimenti, le loro idee sono il necessario prodotto del clima, della conformazione del suolo, degli aspetti della natura, degli usi, delle tradizioni che costituiscono col loro insieme il carattere particolare di quell'antica regione greco-sicula. L'artista gli ha presi nella loro piena concretezza, nella loro piú minuta determinatezza, facendosi piccino con loro, sentendo e pensando a modo loro, usando il loro linguaggio semplice, schietto, e nello stesso tempo immaginoso ed efficace, fondendo apposta per essi, con felice arditezza, il bronzo della lingua letteraria entro la forma sempre fresca del loro dialetto, affrontando bravamente anche un imbroglio di sintassi, se questo riusciva a dare una piú sincera espressione ai loro concetti, o all'intonazione della scena, o al colorito del paesaggio. Ed è cosí che ha potuto ottenere davvero che l'opera sua non serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente in cui germogliò, alcuna ombra dell'occhio che la intravvide.

L'illusione è piú completa che nella Nedda perché l'arte è piú squisita. Un sentimento d'immensa tristezza si diffonde da ogni pagina e penetra il cuore e fa pensare. Ci troviamo, come quei personaggi, in diretta comunicazione colla natura. Non intendiamo piú nulla dei nostri sentimenti, delle nostre idee; ci sentiamo sopraffatti dai sentimenti rudimentali, dalla morale non meno primitiva di quella gente che guarda e giudica ogni cosa dal suo piccolo e interessato punto di vista. Quando si vive nelle chiuse della Commenda o nella valle del Jacitano, come Jeli che, fin da quando non arrivava alla pancia della Bianca, la vecchia giumenta che portava il campanaccio della mandra, andava qua e , come un cane senza padrone, l'intelligenza si risolve unicamente in un continuo rimuginío di sensazioni che non riescono ad elevarsi mai allo stato d'idee.

«Ei non ci pativa, perché era avvezzo a stare coi cavalli, che gli camminavano dinanzi passo passo, cercando il trifoglio, e cogli uccelli che girovagavano a stormi, attorno a lui, tutto il tempo che il sole faceva il suo viaggio lento lento, sino a che le ombre si allungavano e poi si dileguavano: egli aveva il tempo di veder le nuvole accavallarsi a poco a poco e figurar monti e vallate; conosceva come spirava il vento quando porta il temporale e di che colore sia il nugolo quando sta per nevicare. Ogni cosa aveva il suo aspetto e il suo significato, e c'era sempre che vedere e che ascoltare in tutte le ore del giorno. Cosí verso il tramonto quando il pastore si metteva a suonare collo zufolo di sambuco, la cavalla mora si accostava masticando il trifoglio svogliatamente e stava anch'essa a guardarlo, con grandi occhi pensierosi

Con questo genere di vita l'uomo animale continua a vivere ancora in mezzo ai trionfi della moderna civiltà, come tre, quattro mila anni addietro. Le sue idee sono limitatissime; i suoi sentimenti differiscono poco dal semplice istinto. Tale, e non altrimenti, l'artista ha voluto mettercelo sotto gli occhi. Quando Jeli vien condotto, legato, dinnanzi al giudice, per aver ammazzato Don Alfonso:

« – Come! diceva, non dovevo ucciderlo nemmeno?... Se mi aveva preso la Mara

Quando la Lupa ha rubato alla propria figliuola il marito che già le avea dato coll'intenzione di rubarglielo, «Maricchia piangeva notte e giorno e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia come una lupacchiotta anch'essa, quando la vedeva tornare dai campi pallida e muta ogni volta.

« – Scellerata, le diceva. Mamma scellerata!

« – Taci!

« – Ladra! Ladra!

« – Taci!

« – Andrò dal brigadiere, andrò!

« – Vacci

Son fatti cosí; e il merito dell'artista sta appunto nell'averli resi come sono, senza nessuna preoccupazionemorale, né religiosa, né sociale che potesse nuocere al suo scopo.

A me il libro la nostalgia del paese nativo, tanto vera e profonda è l'impressione che mi produce. Di mano in mano quei paesaggi tornano a distendersi, nella loro arida tristezza, sotto l'occhio dell'immaginazione; figure ben note ripopolano la fantasia coi ricordi dell'infanzia e della vita di provincia, figure malinconiche, pensose, raccolte nella loro meridionale indolenza, colla coscienza della fatalità della vita che giustifica tutto in faccia a loro. E non è soltanto un effetto potente dell'arte, ma anche del fatto, che Tebidi, la valle del Jacitano, Passanitello non son paesaggi di convenzione. La fanciullezza dell'autore è trascorsa , e Jeli gli ha forse insegnato «come si fa ad arrampicarsi sino ai nidi delle gazze, sulle cime dei noci piú alti del campanile di Licodia, o cogliere un passero a volo con una sassata o montare con un salto sul dorso nudo delle sue bestie selvaggie, acciuffando per la criniera la prima che passava al tiro, senza lasciarsi sbigottire dai nitriti di collera dei puledri e dai loro salti disperati.» Giacché i personaggi di questi racconti, la piú parte, hanno esistito realmente, e l'autore non ha fatto che degli studi dal vero. Quella Lupa io l'ho conosciuta. Tre mesi fa, tra le colline di S. Margherita, su quel di Mineo, passavo pel luogo dov'era una volta il pagliaio di lei, fra gli ulivi, presso una fila di pioppi che si rizzano gracili e stentati sul terreno umidiccio. Ella abitava per dei mesi interi, specie nel settembre e nell'ottobre, quando i fichi d'India eran maturi. Si vedeva ritta, innanzi il pagliaio, all'ombra dei rami d'un ulivo, in maniche di camicia, col fazzoletto rosso sulla testa, spiando le viottole, «pallida come se avesse sempre addosso la malaria,» in attesa di qualcuno che doveva arrivare dall'Arcura o dai Saracini o dalla Casa di mezzo, o da Sopra la Rocca. Spesso la s'incontrava alla zena, china sulla lastra di pietra accanto al ruscello, apparentemente per lavare i panni, in realtà per fermare tutti quelli che passavano e attaccar discorso. Piú spesso si vedeva andare di qua e di per la campagna «sola come un cagnaccia, con quell'andare randagio e sospetto della lupa» tale quale il Verga l'ha superbamente dipinta.

Ora il pagliaio è distrutto, e quell'angolo di collina deserto. Io provavo un gran senso di tristezza nel guardar quella rovina. Ma non era il ricordo della vera Lupa che mi faceva evocare con tanta emozione la sua pallida figura dagli occhi neri come il carbone, dalle labbra fresche e rosee che vi mangiavano, no; era la Lupa dell'arte, la Lupa creata dal Verga che sopraffaceva quella della realtà e me la metteva sotto gli occhi piú viva della viva quand'era viva. Tanto è vero che l'arte non sarà mai la fotografia!

La Lupa si potrebbe dire un semplice fatto diverso. In quelle otto pagine non c'è un particolare che non sia vero, intendo dire che non sia accaduto realmente cosí. L'autore non ha inventato nulla; ha trovato, ha indovinato la forma, che è quanto dire: ha fatto tutto. La Lupa è forse la piú bella cosa che il Verga abbia mai scritta; senza forse, è la miglior novella di questa Vita dei campi. La forma è scultorea, d'una semplicità meravigliosa. Qua e sembra una traduzione di qualche leggenda popolare, con quel ritorno d'imagini e di parole del quale l'autore s'è stupendamente servito. La figura della Lupa si stacca sull'orizzonte del paesaggio fosca, indimenticabile, come quando andava incontro al genero che le veniva addosso per ammazzarla. «La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arrestò d'un sol passo, non chinò gli occhi; seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi e mangiandoselo cogli occhi neri

Dopo la Lupa vien Jeli il pastore. È una cosa affatto diversa. Che tristezza in quella campagna! E come vi si muore! E che notte quella in cui lo stellato che doveva esser venduto la mattina dopo alla fiera di San Giovanni, cadde nel burrone e si ruppe la schiena! Povera bestia! «Metteva fuori un rantolo che pareva un cristiano. Jeli si mise a tremare come una foglia quando vide il fattore andare a staccare lo scoppio dal basto della mula. – Levati di pane-perso! gli urlò il fattore, che non so chi mi tenga dallo stenderti per terra accanto a quel pulledro che valeva piú assai di te, con tutto il battesimo porco che ti diede quel prete ladro!... E il rumore fiacco che fece dentro le carni vive il colpo tirato a bruciapelo parve a Jeli di sentirselo dentro di sé!» – Quel viaggio di notte di tutta la mandria dei cavalli e la morte dello stellato son delle pagine assai belle, commoventi in grado supremo.

Vien terzo Rosso Malpelo il cavatore di rena. Ah, nella cava traditora non si vive tranquilli! La cava tende insidie ad ogni minuto. Ma oltre ad essa c'è anche l'uomo, il compagno che non lascia in pace il compagno, per poco che capisca di poter fare a fidanza con esso. Quel ragazzaccio di Malpelo ne toccava da tutti. «Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra e facevano un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo e gli tiravano dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata.» La cava ha inghiottito suo padre, mastro Misciu, inghiottirà anche lui, che non ha avuto altro affetto al mondo all'infuori che per Ranocchio, il ragazzo storpio. Egli lo maltrattava alla sua volta, ma gli voleva bene, da Malpelo, da ragazzo reso cattivo dalle soperchierie ricevute. Quando il povero storpio comincia a sputar sangue « – È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire in tal modo, è meglio che tu crepi,» gli dice brutalmente Malpelo; ma quella brutalità è piena di commiserazione. Oh, nella cava non si apprendono le frasi dolci e le belle maniere!

Malpelo ha un'aria di leggenda popolare, ha quella stessa impronta d'originalità di Jeli il pastore e della Lupa. La forma si è, anche qui, perfettamente compenetrata col soggetto: anche qui c'è quell'assimilazione della fresca essenza del dialetto, per cui alla lingua letteraria è stato possibile il rendere cosí fedelmente il colorito locale da lottare coll'evidenza della realtà. E quando dico forma, non intendo soltanto la frase, lo stile, ma qualche cosa di piú elevato: la concezione, tutto l'organismo dell'opera d'arte, che funziona colla pienezza della vita, libero e indipendente dalla personalità che lo creò. È di questa forma che s'intende quando s'ha la fortuna di parlare d'un artista come il Verga.





2 Da Studi sulla letteratura contemporanea, 2a serie, Catania 1882. pagg. 117 sgg. Nel volume lo scritto è unito al successivo col titolo generale di Giovanni Verga. In realtà l'uno è del 1880, l'altro del 1881.



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