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Dopo la Raccolta dei canti popolari siciliani, non c'è libro che dipinga la Sicilia con maggior potenza e con maggior precisione dei Malavoglia, della Vita dei campi e di queste Novelle rusticane del Verga. Ed ecco ora il Reverendo, compare Cosimo, Nanni, compare Carmine, Mazzarò, Lucia, don Marco e tutti quest'altri che vengono a tener bella compagnia a Jeli il pastore, al Rosso Malpelo, alla Lupa, all'amante di Gramigna; ed ecco quel povero asino di S. Giuseppe la cui storia interessa e stringe il cuore come se fosse la storia di una creatura umana spietatamente sballottata di miseria in miseria dal destino.
«Ma l'asino, dal peso, nella salita si inginocchiò tale e quale come l'asino di S. Giuseppe davanti al Bambino Gesú, e non volle piú alzarsi.
« – Anime sante! – borbottava la donna – portatemelo voialtre quel carico di legna!
«E i passanti tiravano l'asino per la coda e gli mordevano gli orecchi per farlo alzare.
« – Non vedete che sta per morire? disse infine un carrettiere: e cosí gli altri lo lasciarono in pace, ché l'asino aveva l'occhio di pesce morto, il muso freddo, e per la pelle gli correva un brivido...
« – Se volete venderlo con tutta la legna ve ne dò cinque tarí, disse il carrettiere, il quale aveva il carro scarico. E come la donna lo guardava cogli occhi stralunati soggiunse: – compro soltanto la legna, perché l'asino ecco che cosa vale.
«E diede una pedata sul carcame, che suonò come un tamburo sfondato.»
Quella brutale pedata ve la sentite ripercuotere sul petto.
È inutile aggiungere che queste Novelle rusticane hanno lo stesso vigore di concepimento, lo stesso splendore di colorito, la stessa profondità di osservazione che si ammirava nella Vita dei Campi: dirò soltanto che qui si rileva una nota nuova del Verga o meglio, che qui si accentua piú energicamente quell'umorismo fine, quella rappresentazione comica di certe situazioni della vita, dei quali si trova qua e là qualche accenno nei suoi lavori precedenti.
L'umorismo, parlando del Verga, non può significare qualcosa di personale, una specie d'intervenzione dell'autore fra i suoi personaggi e il lettore. Il Verga è di quei pochi scrittori moderni che hanno il coraggio e la forza (la forza soprattutto) di spingere il processo artistico dell'impersonalità fino all'estremo limite possibile.
Ne avremo fra poco un'altra splendida prova. Pare che colle Novelle rusticane lo scrittore voglia prender congedo dalla sua Sicilia. Il suo occhio di osservatore ha già tolto di mira la vita bassa della città, e un giorno o l'altro lo vedremo comparire con un volume di Novelle Milanesi che faranno un bel riscontro a questi maravigliosi quadretti della vita siciliana: il processo artistico dell'impersonalità conterà senza dubbio un trionfo di piú.
L'umorismo del Verga scaturisce dalle intime viscere della situazione fortissimamente resa: è l'osservazione acuta dello scrittore che prende corpo e vita e s'impone. Somiglia a quella gomitata di un amico che vi dice: guarda! guarda! e vi costringe a guardare mentre passavate distratto.
Leggete il Reverendo, la prima delle novelle rusticane. È una figura altamente comica nel vero senso della parola, cioè di quelle che rasentano il tragico, come le concepivano Molière, Shakespeare, Balzac. Ogni parola che dice è una rivelazione; ogni gesto che fa vi apre un abisso di questo cuore umano dove la bestia ringhia e appetisce piú che non si voglia far credere da certi moralisti da strapazzo.
Aveva detto: – Io voglio essere prete? – E i suoi poveri parenti avevano venduto la mula e il campicello per mandarlo a scuola «nella speranza che se giungevano ad avere il prete in casa ci avevano meglio della chiusa e della mula. Ma ci voleva altro per mantenerlo al seminario!» Allora il ragazzo si mette a ronzare attorno il convento dei cappuccini e si fa frate.
«La mamma, il fratello e la sorella protestavano che se entrava frate era finita per loro, e ci rimettevano i denari della scuola, perché non gli avrebbero cavato piú un baiocco. Ma lui che era forte nel sangue, si stringeva nelle spalle, e rispondeva: – Sta a vedere che uno non può seguire la vocazione a cui Dio l'ha chiamato!» Di queste risposte, di queste frasi, di questi terribili lampi umani ce n'è uno ad ogni rigo. Il reverendo aveva buttato la tonica su un fico dell'orto assai prima dell'abolizione dei conventi, e si era dato all'arbitrio cioè a far l'agricoltore in grande. Per lui, dire la messa era un correre dietro al tre tarí; egli non ne aveva bisogno. Monsignore il vescovo, nella visita pastorale, gli trova il breviario coperto di polvere e ci scrive su col dito: Deo gratias. Ma il reverendo aveva altro in testa che perdere il tempo a leggere il breviario, e se ne rideva del rimprovero di Monsignore. Se il breviario era coperto di polvere, i suoi buoi erano lucenti, le pecore lanute, e i seminati alti come un uomo.»
Quando il papa mandò la scomunica per quelli che acquistavano i beni delle corporazioni religiose abolite, il Reverendo «sentí montarsi la mosca al naso e borbottò: – Che c'entra il papa nella roba mia? Questa non ci ha a far nulla col temporale. – E seguitò a dir la santa messa meglio di prima.»
Il comico che rasenta il tragico è magistralmente concentrato nella chiusa, in quel ragionamento di persona soddisfatta che vorrebbe ora godersi tranquillamente il suo posto al sole guadagnato colle sue ladre fatiche come dicono i contadini laggiú. E l'umore è sparso via via, in tante piccole scene, che la onnipotenza della forma fonde insieme e rende organiche: eccone una.
Quando c'era un podere da vendere o un lotto di terre comunali da affittare all'asta, «gli stessi pezzi grossi del paese, se si arrischiavano a disputarglielo, lo facevano coi salamelecchi e offrendogli una presa di tabacco. Una volta, col barone stesso, durarono una mezza giornata a tira e molla. Il barone faceva l'amabile, e il Reverendo, seduto in faccia a lui, col tabarro raccolto fra le gambe, ad ogni offerta d'aumento, gli presentava la tabacchiera di argento, sospirando – Che volete farci, signor barone? Qui è caduto l'asino, e tocca a noi tirarlo su. – Finché si pappò l'aggiudicazione, e il barone tirò su la presa, verde dalla bile.»
Ho detto l'onnipotenza della forma, perché quella che produce i miracoli, qui come in ogni vera opera d'arte, è assolutamente la forma. E per forma non intendo soltanto la lingua, lo stile, ma tutto il complesso di mezzi artistici e di facoltà creative che serve a infondere in un'opera d'arte il soffio divino della vita. Quelli che credono la forma qualcosa di accidentale, di capriccioso, di puramente individuale, un semplice affare di moda, scambiano certi accessori coll'essenziale; e non possono perciò persuadersi che ci siano nella storia e serie di forme, e un processo di forme, e un continuo divenire di forme che poi si esaurisce e si arresta, quando tutte le forme possibili di un dato genere letterario sono esaurite, come è accaduto pel poema e per la tragedia.
Quegli altri che fanno della forma una questione di lingua e di grammatica, la dimezzano, la rimpiccioliscono. Certamente la forma è la lingua, la grammatica, ma è anche qualche cosa di piú; come la pittura è ugualmente il disegno e il colore, ma anche qualche cosa di piú.
Il lettore che incontratosi nelle seguenti righe del Verga: Questa, ogni volta che tornava a contarla, gli venivano i lucciconi allo zio Giovanni, che non pareva vero, su quella faccia di sbirro; il lettore che, incontratosi in queste righe del Verga, può fermarsi a riflettere che non c'è affatto la grammatica, è un uomo disgraziato a cui la natura ha voluto negare ogni piú piccolo senso d'arte. La lingua, la grammatica, il bello stile per loro stessi non valgono nulla. Sono mezzi piú o meno efficaci, secondo la mano che li adopera; tant'è vero che i grandi scrittori, quando è capitata l'occasione, si son tutti infischiati delle regole ed hanno avuto il gran coraggio di sgrammaticare. Infatti non ha il diritto di sgrammaticare chi vuole.
Al cospetto di un'opera d'arte, di quelle che sono veramente tali, la sola questione possibile, anzi giusta mi par questa: i mezzi, adoperati dallo scrittore, la lingua, lo stile, il disegno, il colorito si compenetrano talmente con essa che, mutati o alterati in qualche punto, non ne muterebbero e non ne altererebbero la fisonomia, da ridurla l'opposto di un'opera d'arte?
Riscrivete il periodo quasi sgrammaticato citato piú su, riscrivetelo con tutte le regole della sintassi: se ne otterrete quell'effetto di naturalezza, di efficacia, di vita che la quasi sgrammaticatura gli dà, io m'indurrò a credere che le novelle del Verga potrebbero essere scritte altrimenti. E che il Verga, ove la sua coscienza d'artista non glie l'impedisce, potrebbe scriverle altrimenti, lo dimostra l'ultima novella di questo volume, dove lo stile si eleva all'unisono del soggetto e par lo stile d'un altro.
Certamente lo stile del Verga non è un cliché da togliersi in prestito. È qualcosa di cosí intimamente suo, che bisogna lasciarlo adoperare a lui solo.
Ma se tutti noi si tentasse di fare quello che ha fatto lui, cioè di formare uno stile che ricavi dalla nostra personalità la sua viva efficacia, arriveremmo piú facilmente – avendo ingegno di artisti – ad essere, alla nostra volta, potenti ed originali del pari.