Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Verga e D'Annunzio
Lettura del testo

I. SCRITTI VERGHIANI

LA SICILIA NEI CANTI POPOLARI E NELLA NOVELLISTICA CONTEMPORANEA

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

LA SICILIA NEI CANTI POPOLARI E
NELLA NOVELLISTICA
CONTEMPORANEA7

Signore e Signori,

Scegliendo per soggetto di questa conferenza La Sicilia nei canti popolari e nella novellistica contemporanea, non ho avuto affatto l'intenzione di trattare l'argomento da erudito, da folklorista, o da critico, ma soltanto, mi si perdoni la brutta parola, da impressionista.

Quando ricevetti il gentile invito della società Dante Alighieri, ero tornato recentemente da un breve viaggio in Sicilia, e sentivo ancora vibrarmi dentro tutto quel che avevo osservato colà dopo sei anni di assenza. Questa volta, m'ero sentito un po' straniero nella terra dove son nato e dove ho passato la fanciullezza e, a intervalli, parte della giovinezza e della virilità; e appunto in quei giorni, riprendendo la vita ordinaria, tentavo rendermi conto dello strano e indefinito senso di tristezza che mi aveva oppresso laggiú, pur rivedendo luoghi carissimi, persone dilettissime, e che aveva quasi mutato in delusione la gioia anticipatamente assaporata lungo il viaggio da Roma a Messina.

Un dubbio mi agitava: – Ero cangiato io? O gli uomini e le cose della dolce provincia riveduta? – Volevo chiarirmene riflettendo; e allorché mi parve d'aver trovato la giusta soluzione di quel dubbio, credetti di aver trovato pure il soggetto capace d'interessare un colto uditorio come questo. Vorrei non essermi ingannato.

Ragionando da erudito o da folklorista intorno alla Sicilia nei canti popolari, niente, o quasi, avrei potuto dire di nuovo. Il Vigo, il Pitrè, il Salomone-Marino e gli altri benemeriti e competentissimi uomini che hanno raccolto, confrontato, illustrato, come oggi si dice, i canti popolari siciliani, hanno lasciato ben poco da spigolare nel vastissimo campo; e volendo farmi bello dei risultati dei loro studi, quand'anche avessi avuto la ingenuità di crederli quasi ignorati di qua dello stretto, avrei dovuto sorpassare i limiti imposti a una conferenza, e – quel che è piú – i limiti oltre i quali la bontà e la pazienza d'un uditorio si mutano in isbadigli e in inquietudine significativa.

Ragionando da critico intorno alla Sicilia quale si rispecchia nella novellistica contemporanea, avrei fatto probabilmente opera superflua, e certamente un po' rischiosa, non essendo io affatto sicuro dell'imparzialità del mio giudizio pel tantino che mi riguarda in quel genere di lavori letterari, dove il Verga ha segnato un'orma che difficilmente sarà scancellata.

Ragionando invece da impressionista, mi sono stimato in caso di poter dire qualcosa di sincero, di nuovo e, se non m'illudo, di attraente; né mi ha distolto dalla presa risoluzione il motto del PascalL'io è incresciosoricorsomi subito alla memoria. In questa circostanza, l'io non mi è sembrato un'intrusione di cattiva lega, e il convincimento di poter contare su la loro proverbiale cortesia mi ha dato l'ardire che m'era necessario in questo mio primo passo di conferenziere.

* * *

Per spiegare e giustificare in qualche modo la scelta, mi permettano di fare l'ipotesi non assurda, quantunque poco probabile, d'un italiano del continente che, superata la repugnanza d'un viaggio creduto difficile e pericoloso, prima di accingersi a visitare la Sicilia, voglia mettersi in condizione di bene osservare e rettamente giudicare.

Uomo coscienzioso, sentito dire che i canti popolari siano l'eco piú schietta e piú immediata dello spirito d'una regione, egli vuole interrogarli per avere un'idea non adulterata dei sentimenti, delle credenze, delle superstizioni, delle tradizioni che hanno foggiato il carattere di quelle provincie e ne sono divenuti, per cosí dire, sangue, carne, ossa e anima.

Uomo intinto di letteratura, sentito parlare di novelle siciliane scritte da siciliani, cioè da persone che dovrebbero naturalmente conoscere meglio di qualunque altro i luoghi descritti e i personaggi messi in azione, ha comprato tutti quei volumi, anche i meno noti – quello del Linares per esempio – e i notissimi del Verga, del De Roberto, del Navarro della Miraglia, del Varvaro e di qualche altro, e gli ha attentamente letti, prendendo appunti, segnando pagine, coordinando all'ultimo le diverse impressioni ricercate non per semplice diletto ma per scopo quasi scientifico.

Di politica, di questioni economiche non si è voluto – e lodiamolopunto occupare, perché le questioni economiche e la politica gli sono parse uguali dappertutto. Cosí equipaggiato ed armato, egli ha preso un biglietto di ferrovia o di piroscafo, ed è partito.

Ha voluto vedere ogni cosa: e i monumenti greco-siculi, arabi, normanni; e le grandi città, che hanno poco da invidiare alle consorelle del continente; e i paesetti sparsi a larghe distanze per le pianure, per le colline, per le montagne e quasi segregati dalla vita contemporanea. Ha voluto osservare ogni cosa: la famiglia, gli usi, i costumi, le feste religiose; si è mescolato con la folla, ha interrogato qua e persone d'ogni classe: aristocratici, borghesi – o galantuomini come diciamo laggiúoperai e contadini, con l'intento di trovare dappertutto, e nelle cose e negli uomini, i riscontri, la conferma di quel che con tanta cura aveva letto e studiato. Di quando in quando, gli è parso di scorgere qualche lacuna o qualche contraddizione, ma non ne ha fatto gran caso; ha incolpato le circostanze, le occasioni mancate per la fretta; ha incolpato anche la propria insufficienza per la poca abitudine a quel genere di osservazioni speciali. E siccome noi non possiamo fargli il torto di supporlo un malcontento per natura, uno scettico per convinzione, un pessimista per progetto, dobbiamo credere ch'egli ritorni incantato del bel cielo, del magnifico e svariatissimo paesaggio isolano, ed entusiasta un pochino anche degli uomini, che ha trovati, su per giú, tali quali li aveva già intraveduti nei canti popolari e nei racconti dei novellieri; tali quali era giusto dovesse trovarli, se quei canti non erano una falsa eco del cuore del popolo siciliano, se quelle novelle tanto lodate non erano specchi o concavi o convessi da storcere le linee, da alterare le proporzioni.

Facciamo ora, non un'ipotesi, ma una riflessione. Si figurino il caso opposto; immaginino un siciliano che per ragioni del suo mestiere – fa il letterato non avendo saputo far altro di meglio – ha potuto studiare i canti popolari non nelle raccolte del Vigo, del Pitrè, del Salomone-Marino, ma in mezzo al popolo, contribuendo a raccoglierli quando il raccoglierli era atto quasi pericoloso di patriottismo; un siciliano che dall'epoca del primo sviluppo della sua ragione, cioè dal '48 fino a oggi ha osservato, studiato, scrutato i propri compaesani, e che per dilettantismo, se non per vero istinto d'arte, ha tentato di riprodurli con piena sincerità, se non con sufficienti mezzi artistici e con perdonabili resultati; un siciliano che, avendo passato con brevi e lunghi soggiorni metà della sua vita nelle piú colte città del continente, ha avuto agio di spassionarsi, di perdere quasi interamente gli influssi di quel che chiamasi campanilismo; e che per ciò non è soltanto in condizione di veder bene e di poter fare confronti tra la Sicilia e il continente, ma anche (pur troppo!) tra la Sicilia di quasi mezzo secolo fa e la Sicilia di due lustri addietro, tra questa e la Sicilia odierna; un siciliano finalmente che ricorda benissimo il passato e che, per lunga assenza dall'isola, non avendo potuto seguire con lo sguardo la formazione del presente, se lo è veduto dinanzi tutt'a un tratto bell'e formato; e pensino se le impressioni di costui possono essere uguali a quelle dell'ipotetico italiano del continente, supposto ben preparato al viaggio in Sicilia con lo studio delle fonti piú sincere e piú autentiche: i canti popolari e la novellistica contemporanea.

Questi ha veduto forse male? No, certamente; ma non ha veduto tutto; è stato ingannato da apparenze capaci d'illudere l'occhio piú esperto nella frettolosa corsa di poche settimane; e il suo giudizio è risultato benevolmente falso, senza colpa di lui, s'intende, per insufficienza di documenti.

Per eccesso di documenti, al contrario, l'altro è rimasto cosí imbarazzato da doversi domandare: – Sono cangiato io? O le cose e gli uomini della mia provincia?

Intendo dunque esporre, o Signori, il processo còlto nell'attodebbo soltanto riandarlo con la memoria – quel processo di ricordi antichi e recenti, di osservazioni, di studi, di impressioni, per mezzo del quale ho potuto spiegarmi la profonda tristezza che mi aveva oppresso laggiú, e il dubbio, non meno triste e tormentatore, sopraggiuntomi dopo.

Ho detto processo; ma non per questo debbono immaginare una specie di ragionamento ordinato, filato, quantunque composto di ricordi e di impressioni diverse. Niente affatto. Se qualche coerenza o qualche rapporto apparirà fra essi, sono coerenze e rapporti accidentali, e li scorgeranno soltanto perché io dovrò sopprimere tutto quel che non si riferisce direttamente al soggetto del mio discorso.

* * *

Ed ecco, quasi su la soglia della mia provincia, Acireale; ed ecco la figura alta, bruna, scabrosa di Lionardo Vigo – il primo raccoglitore dei canti popolari siciliani, nato e morto colàevocata viva e parlante dall'immaginazione commossa, come lo aveva veduto l'ultima volta: dall'andatura altiera, dalla voce rauca, dalle labbra carnose e che, parlando, sembrava dessero una stretta alle parole per improntarle del proprio marchio, allo stesso modo che fa il bilanciere coi tondi di metallo da ridurre monete.

E non soltanto la figura, ma una serie di scene caratteristiche. Prima, la lettura d'un manoscritto di suoi ricordi intorno alla rivoluzione siciliana del '48, lettura interrotta dall'impertinente sorriso sfuggito a quattro giovani studenti e a me, mentre egli ci declama i suoi larghi periodi dove la nazione siciliana, il re di Sicilia, il parlamento siciliano rimbombavano sonoramente, eco di altri tempi per noi già sognanti un regno d'Italia, un re d'Italia, un parlamento italiano.

Egli aveva subito capito, e i suoi occhi cerulei si erano intorbidati, e la fronte e le sopracciglia s'erano corrugate, e le mani avevano buttato per terra il manoscritto e si eran levate in alto maledicenti, mentre le labbra illividite ci lanciavano in faccia il grido: – Matricidi! – che ci rendeva attoniti e mortificati.

Poi una conversazione, poco dopo tornato da una seduta dell'Accademia siciliana – non sono ben sicuro del titolo – da lui risuscitata per lo studio del dialetto isolano. Lo rivedevo in berretto da notte, col collo avvolto da una fascia di lana per la tosse che lo travagliava, con la scatola del rapè in una mano e il fazzoletto a quadrati rossi e azzurri nell'altra, acceso dai ricordi della memorabile seduta. E mi pareva proprio di sentirlo parlare tra uno schianto di tosse e l'altro, piú roco del solito: – Figurati! Il Di Giovanni, con parola elegante e immensa dottrina, sviscera per un'ora, da pari suo, il tema della discussione, e sembra che non lasci piú niente da aggiungere; ma si alza il Pitrè, prende il tema da un altro lato, e lo illumina di esempi, di riscontri, di osservazioni argute, rafforzando la tesi sostenuta dal Di Giovanni. Terzo (non rammento chi, ma egli lo nominò) quando il soggetto pareva già esaurito, lo capovolge, lo sminuzza, lo rimpasta; torrente di erudizione, miracolo di critica storica, ci sbalordisce, ci entusiasma; la tesi del Di Giovanni trionfa! Scatta allora quel demonio del Traina che aveva fatto stupire i torinesi nei comizi popolari, scatta e butta giú, quasi con un manrovescio, ogni cosa. Erudizione, esempi, critica storica, volan per aria come poveri cenci dispersi da un turbine. E allora, non piú battaglia ordinata, ma lotta corpo a corpo, confusione. Replica del Di Giovanni; replica del Pitrè; nuovo uragano del Traina... Parliamo tutti a una volta, non c'intendiamo piú. – Ai voti! Ai voti! – Peggio. Il Pitrè si astiene, il Di Giovanni, nel trambusto, vota contro la propria proposta, credendo di votar in favore... Oh! Oh!

E la tosse gli aveva troncato in gola l'epica descrizione.

L'Accademia aveva discusso se la parola ciuri, fiore, dovesse scriversi all'antica xiuri, con l'x e l'i, o sciuri con l'esse e 1'i, o ciuri con la ci e 1'i!

E, ricordando, frenavo di nuovo le risa, come allora avevo fatto per giusta riverenza verso il brav'uomo.

* * *

Ma già, intanto che il treno, lasciato indietro Acireale, volava sbuffante e fumante verso la mia città nativa, il ricordo del Vigo e dei canti popolari mi spingeva a ripensare i bei giorni passati a raccoglierli nelle campagne di Mineo, nel delizioso paesaggio di S. Margherita, fra gli ulivi, per le vallate e su pei colli, dove ogni sasso ha storie e leggende ora tetre, ora gentili, ora fantastiche, che pare d'udir mormorate dal vento nelle gole rocciose della Lamia, tra le siepi di fichi d'India, lungo le viottole arrampicantisi per le contrade di Rossignolo e dell'Arcura.

Che festa, al tempo della raccolta delle ulive! I bacchiatori, armati di lunghe pertiche, montati su gli alberi, cantavano a voce spiegata canzoni – come chiamiamo laggiú quel che i toscani chiamano rispettocantavano canzoni, quasi scandendole coi colpi battuti fra i rami per far cascare le ulive; e le coglitrici, chine attorno ai tronchi, rispondevano a coro, fra il gracchiare delle mulacchie, lo zufolare dei merli, il tubare delle tortore, da vicino, da lontano, sotto il bel cielo siciliano che in autunno è piú incantevole che non nell'aprile e nel maggio. E la sera, al lume fumoso della lampada a olio, nel vasto strettoio, a veglia, scommesse tra le ragazze e i giovanotti, chi avrebbe saputo dire, di séguito, tante canzoni da riempire un moggio con le fave che dovevano servire a numerarle: canzoni di amore, di desiderio, di speranza, di dichiarazioni, di serenata, di promessa, di saluti, di separazione, di lontananza, di sventure, di morte, di carceri e carcerati, di santi, di madonne, di moralità, di satire, di scherzi,... d'ogni genere. E tutte quelle figure di brune contadinotte, dagli occhi nerissimi scintillanti dalla gioia della vinta scommessa; mi turbinavano dinanzi, insieme con altre figure di vecchiette che sapevano a memoria canti piú assai di loro e li dicevano meglio; quella, per esempio, d'una vecchina alta, ossuta, abbrustolita dal sole, risecchita dagli anni, dalle fatiche e dagli stenti, che mi aveva dettato la leggenda di S. Caterina, santa che esiste soltanto nei canti popolari siciliani perché non corrisponde a nessuna delle sante Caterine del martirologio.

E la leggenda mi risuonava all'orecchio, non mai dimenticata, col suo triste ed efficace ritornello:

E mentri Gesu la scala acchianava
Tutta di sangu la scala lavava.
...............................................
E mentri Gesu 'n seggia s'assittava
Tutta di sangu la seggia lavava.

Gesú, volendo convertire quella cortigiana, aveva preso forma di bel giovane e s'era messo a passeggiare sotto le finestre della peccatrice. Affacciatasi, colei lo aveva invitato a salire in casa sua; montando la scala, Gesú la inondava di sangue.

– Che hai bel giovane? Sei ferito? Siedi a tavola, ristòrati.

E Gesú, sedendosi a tavola, inondava di sangue la seggiola, e diceva:

– Il mio sangue scorre per salvarti.

Ma la cortigiana:

Lasciamo stare questo discorso; vieni di , nella mia camera.

E mentre ella si spoglia, voltatasi a riguardare il bel giovane, vede invece, alla parete accanto al letto, Gesú crocifisso, sanguinante:

Vitti lu crucifissu. Stramuriu

Vederlo, tramortire, pentirsi e chiamare un confessore era tutt'uno. La peccatrice moriva lo stesso giorno.

A li tri uri, la crunfissioni,
A li quattr'uri l'estrema unzioni,
A li sei uri 'n celo l'acchianau!

Gesú la portava in cielo con sé.

E mentre io scrivevo commosso dalla bellezza artistica del canto, la vecchia che dettava piangeva commossa da profondo sentimento religioso.

* * *

Al ricordo dei canti, era naturale mi risuonassero nell'orecchio le cantilene. Cosí mi si riproduceva la sensazione avuta in campagna anni ed anni addietro, quando avevo potuto assaporare la squisita bellezza d'una di esse, tanto che ora, riparlandone, mi sembra di riassaporarla di nuovo.

Sotto il cielo limpidissimo ma senza luna, nel vasto silenzio notturno appena appena agitato dal basso stormire degli ulivi, una voce bene intonata cantava (da lontano, accostandosi lentamente) la lamentosa cantilena preferita dai contadini siciliani pei loro canti d'amore. Non pensino alla canzone di Cavalleria rusticana del Mascagni, imitazione artistica non spregevole certamente, ma ibrida fusione di due accenti, se si può dire, il siciliano e il toscano; avrebbero un'idea inadeguata.

Quella cantilena, l'altra, sospirava, pregava, accarezzava, piangeva, lamentosa e straziante, e si disperdeva laggiú laggiú per la vallata, a ogni alternarsi di verso, cosí monotona e insistente, lentissimamente cullata dall'aria tranquilla, da far credere che tutte le cose tacenti nel buio della campagna stessero a beversela con voluttuosa dolcezza, e che colei, a cui essa veniva indirizzata, dovesse sentirsene penetrare tutta e commuovere lassú, sul colle di Mineo, dove forse anche lei in quel momento pensava a colui che le parlava da lontano cantando. E la voce si accostava, diveniva piú chiara, faceva capire le sinuosità del terreno con la maggiore o minore intensità del suono che mi mandava all'orecchio, monotona, insistente, lentissimamente cullata dall'aria. E a me, che ascoltavo intensissimo, già non sembrava piú la voce d'un povero contadino innamorato, ma quella di altre generazioni, di altri tempi; e che non si lamentasse soltanto di amore, ma di altre pene, di altri dolori, eco di speranze, di desiderii indefiniti, qualcosa che mi destava nelle profondità dell'organismo sensazioni ereditate per lunga trafila di esseri, i quali avevano amato, pensato, sperato, sognato, pianto a quel modo... Quando? Non avrei saputo dirlo, ma ero certo di non ingannarmi. E dopo che la voce tacque, la triste melodia continuò a gemere dentro di me, monotona, insistente, lentissimamente cullantesi; e oggi, dopo tant'anni, ricordando, torno a risentirla precisa, monotona, insistente, lentissima; e mi si fa buio nel cuore, come in quella notte in campagna.

* * *

Il treno non correva piú, montava affannato su pei colli di Militello nuovi al fischio della locomotiva; ed io, fantasticando se mai ora avessi potuto imbattermi in qualche bel canto popolare sfuggito alla caccia dei raccoglitori, vedevo presentarmisi dinanzi la figura del povero poeta contadino, Vincenzo Ledda, con la faccia gialla e lo stomaco gonfio per la malaria, buono, sorridente negli occhi, sorridente nella parola mite e gentile; e mi tornavano in mente alcuni versi di lui che parlano di sé con immaginosa efficacia:

Iu puvireddu a la strania ittatu,
Cunsidirati chi peni patutu!
Misu ppi ferra ruttu, assituatu,
Nissunu amicu mi duna un salutu,
Li me fratuzzi l'arbuli hanno statu,
Ed in ppi soru il ciuriddi avutu;
Ccu l'erbi di la terra m' cibatu,
Sulu la terra m'havi sustinutu:

cioè: Considerate che pene ho sofferto io, poverino, ridotto quasi straniero, buttato come ferro inservibile, senza un amico che mi dèsse un saluto! Ho avuto gli alberi per fratelli, e per sorelle i fiori. Le erbe dei campi sono state il mio cibo; la terra è stata il solo mio sostegno.

Quel povero contadino non sapeva niente del cantico di S. Francesco di Assisi, eppure aveva trovato nel suo cuore lo stesso accento del santo. Ora non avrei riveduto il dolce poeta, morto da una diecina di anni, ma ne salutavo la memoria; e mi sembrava di sentirgli ripetere, come ogni volta che richiesto m'aveva dettato qualcuno dei suoi canti: – Che vuole voscenza? (che vuol lei?) sciocchezze da ignorante; deve compatirle.

Ed io non sapevo se piú ammirare l'uomo o il poeta.

Non lo avrei riveduto; e mi consolavo – l'uomo si consola presto di tutto! – pensando che avrei trovato certamente qualche suo successore...

Ebbene, o Signori, sono rimasto deluso in questo, e in altro, e in altro... Ma non voglio interrompere il processo della mia incosciente inchiesta.

* * *

Ah! Finalmente, dopo sei anni, potevo di nuovo affacciarmi a un terrazzino di casa mia, e beare l'occhio e lo spirito guardando l'immenso paesaggio sottostante! Ecco la mitologica pianura dove Cerere era venuta a cercare la rapita Proserpina, col laghetto presso cui s'innalzava una volta la placabilis ara Palici cantata da Virgilio; ecco le colline, ora brulle, dove un tempo nereggiava il bosco sacro di Marte, rammentato da Diodoro; e, in fondo, a destra, l'Etna gigantesco, bianco di neve, con un sottile pennacchio di fumo, lieve indizio delle ribollenti materie fuse dal fuoco nelle profonde sue viscere, eterna minaccia e frequente pericolo dei paesetti e delle città che gli s'affollano intorno alla base, scura di foreste e di lava. Piú in , dirimpetto, le Madonie, le antiche Nebrodi, coperte di neve anch'esse, dietro un enorme anfiteatro di colli e di colline che la trasparenza dell'aria, purificata da recente pioggia, rende piú spiccato quasi ravvicinandolo all'occhio.

E laggiú laggiú, a sinistra, sul filo dell'orizzonte, le cupole, i campanili, il castello di Castrogiovanni, l'Enna delle guerre servili; e piú sotto, Calascibetta, in cima a un colle tutto fiammeggiante di sole. Ma a poca distanza da me, davanti, attorno, case, chiese, campanili, viuzze, spianate, e le massicce torri del castello di Mineo, rovesciate dal terremoto del 1693 come un gioco di birilli. Non guardo piú il lago dei Palici, ora detto Naftia, lago in continua ebollizione; non guardo piú l'Etna né le Nebroidi, ma qualcosa di piú caro, di piú intimo: tutte quelle case e casette che dovrebbero dirmi tante vecchie cose, e mi sembrano restie a mettersi di nuovo in comunicazione con me. C'è qua e un che, che mi resiste e non si lascia intendere. Che mai? Non so spiegarmelo.

E torno ad affacciarmi a tarda notte, col plenilunio che raggiunge quasi lo splendere del giorno, e che mi rifà sotto gli occhi le stesse ombre, le stesse chiazze di colore notate tante volte anni addietro...

Ed ecco un suono festoso di violini, un grugnire di contrabasso.

Lo stato di assedio non impedisce le serenate; la gente qui si accorge appena che è messa fuori legge. E per le vie accosto, rumore affrettato di passi, quasi di armento che si precipiti per la china d'una strada di campagna. Poi, silenzio; i violini strillano, il contrabasso ripiglia a grugnire, e una voce intuona... Oh!...

Capille nire comme no velluto,
Capille nire, vi vurria vasà...

E, subito dopo, un'altra canzonetta napoletana, una delle tante da me udite e riudite a sazietà per le vie e pei caffè di Roma!

E di nuovo, nel silenzio notturno, quel rumore di armento che passa... Ah! non aspetto che la serenata ricominci piú in , e chiudo, indignato, la imposta.

Cosí, tutti i momenti, tutti i giorni, nelle cose e nelle persone, scopro qualcosa che mi offende. Non ritrovo piú la corrente di simpatia, il legame, direi, di parentela, che sentivo una volta. : la generazione mia coetanea parte è invecchiata, parte sparita; ma so di essere invecchiato anch'io, e per ciò non me ne stupirei. Vivendo colà da fanciullo, da giovane, tante altre cose ho viste trasformarsi e perire, tant'altre ho viste sostituirsi a quelle, e che già sapevo destinate a non durar lungo tempo. Ma allora, assistendo giorno per giorno alla trasformazione, l'occhio e il cuore si andavano inavvertitamente abituando, accorgendosi a mala pena di quel moto perenne, di quel fluire che agitavano, e urgevano me insieme con le altre persone e le cose. Ora no. Mi sentivo isolato, tagliato fuori di quella vita, che pure avrebbe dovuto essere la mia; e cosí m'invadeva quel senso di tristezza indefinita che mi annebbiava la gioia del rimpatrio, scoloriva il verde del paesaggio, rendeva muta e sorda ogni cosa.

Avevo richiesto parecchie giovani contadine di dettarmi qualche bella canzone, tentando di trovarne qualcuna ancora inedita; ne sapevano poche, e non si curavano di apprenderne ora che, essendo state a scuola, potevano leggicchiare dei libri; o sapevano a mente soltanto le sguaiate canzonette napoletane, che hanno già smarrito il loro schietto carattere paesano al contatto delle canzonette francesi, viennesi, cosmopolite.

Mi era stato detto che un giovane contadino, poeta, voleva farmi sentire una sua poesia; venne da me infatti... ma col suo bel manoscritto in tasca. Ahimé!... era passato anche lui per le scuole elementari, per la milizia; parlava di Napoli, di Milano, di Bologna, di Venezia, di Roma, e rammentava golosamente le servotte dai candidi grembiuli, dalle pettinature rabbuffate, le balie dai giardini pubblici, e qualcosa di peggio. La sua poesia non erapopolareletterata, ma un prodotto stitico e pretenzioso che faceva pietà. Egli era andato via deluso di non sentirsi ammirato.

Per ciò, quando giunse il momento di ripartire pel continente, montai in legno senza rimpianger niente, all'infuori delle dilette persone della mia famiglia; e presa la ferrovia, al ripassare del treno da Acireale, rievocai, quasi per interrogarla, la figura del Vigo, di colui che prima giudicavo un'esagerazione, in tutto e per tutto, del carattere isolano; di colui che, è vero, non vedeva altro all'infuori della sua isola e soleva iperbolicamente chiamare Palermo: – La prima città del mondo! – ma che però aveva amata la Sicilia nei canti popolari, e in essi l'aveva studiata, non da critico, né da filologo, né da erudito, ma da persona infiammata d'intenso affetto filiale, adorandola come cosa sacra, nei difetti e negli eccessi, al pari che nei generosi istinti e nelle solide qualità del cuore e dell'ingegno.

E per poco ora non gli davo ragione, rammentando il suo grido imprecante: – Matricidi! – che un giorno aveva spento su le labbra ai miei compagni e a me un irriverente sorriso!

* * *

Eppure mi avvedevo che c'era un'enorme sproporzione tra la causa e l'effetto in quella cupa tristezza che mi pesava su l'animo; facevo, , la parte della lunga lontananza, ma la spiegazione non arrivava per questo a parermi sufficiente.

E allora incominciava dentro di me un processo quasi all'inverso, processo di ricordi piú antichi, di raffronti, di coordinazioni di fatti, di sensazioni e di impressioni, rapido, affannoso, angoscioso per le scoperte che andavo di mano in mano facendo, per la compenetrazione, per la fusione che vedevo accadere di tutto quel vasto materiale accumulato in tanti anni, ripensato sovente, e tentato di fissare con procedimento di arte, o, se cosí vogliono, con infelice artificio d'arte.

E mi tornavano in mente, foggie, costumi caratteristici, spariti per sempre: il manto, per esempio, che avvolgeva una volta la donna siciliana nell'andare in chiesa, in visita o al passeggio, e che accresceva dignità e grazia alla persona. Nero, di seta lustra o matta per le signore, di semplice mussola nera per le popolane, scendeva dall'alto della testa ampio attorno il corpo, fissato con un nodo da piè, sul davanti, raccolto sotto il braccio destro da un laccetto infilato in una guaina e legato alla spalla. Mi tornava in mente la mantellina di panno azzurro cupo, o bianco, nero nel lutto, corta fino sotto la vita in alcuni paesi, in altri piú corta assai, in altri lunga fino al ginocchio e, nelle grandi solennità, orlata con galloni d'oro trasmessi da madre a figlia, gelosa eredità delle contadine. Copriva la testa e le spalle, contornava il viso... Il manto lo avevo visto venir meno dopo il sessanta, la mantellina poco appresso. Ora non avevo trovato piú vestigio dell'uno e dell'altra. Il volgarissimo scialle di lana o di cotone dilagava dappertutto. Per questo le donne siciliane non mi erano piú sembrate quelle d'un tempo; non mi erano quasi sembrate siciliane.

E ripensavo le casette basse, scurite dagli anni e dalla pioggia, pittoresche, care come persone vive al mio cuore, delle quali conoscevo ogni macchia, ogni screpolatura, ogni buco; casette dalle finestre ben note, fiorite di garofani e di basilico, una volta ridenti di profili ben noti anch'essi, e che ora avevo trovato rifatte, con la facciata intonacata, con le finestre trasformate in balconi di sguaiata architettura. Per questo non mi dicevano piú niente; no, non erano quelle di prima!

Ora riflettevo ch'era stato bene che il Vigo, il Pitrè, il Salomone-Marino e i loro anonimi collaboratori si fossero affrettati a raccogliere il tesoro dei canti popolari siciliani, canti di passione, canti di soggetto religioso, di leggende di santi, di storie di briganti mutati in eroi.

E la mente divagava.

A proposito di briganti, mi rifiorivano nella memoria le impressioni della storia di Antonio Testalonga, del Linaressaggio primitivo, incerto, impacciato della novellistica siciliana odiernaletta avidamente e ammirata da giovanetto, riletta anche dopo e con uguale interesse, quantunque con giudizio critico molto diverso.

Anche questa volta avevo inteso parlare di briganti; ma la fantasia popolare non li elevava piú a dignità di leggenda, perché i briganti si sono anche loro trasformati, diventati audaci ma volgari malfattori; di fronte ai quali, Antonio Testalonga, Angelo Falcuneddu e fin Antonio Catinella, detto Saltaliviti, appaiono persone veramente degne d'essere assunte agli onori della poesia popolare.

A tutti cosí ha curpanza l'amuri,
La donna è la ruina di lu cori,
Massimamente si cci trasi onuri,
Chi adduma focu, e poi cu' mori mori.
Una giuvina bella come un suli
A Falcuneddu cci accisi lu cori,
Si vidinu in sigretu di tutt'uri,
Ci nesci a tutti dui l'arma e lu cori.

Cioè: In tutte le cose ha colpa amore. La donna è la rovina dell'uomo, massime se l'onore c'entra di mezzo, e fa divampare il fuoco; allora, chi ha da morire muoia! Una giovane, bella come un sole, ha acceso il cuore di Falcuneddu. Si vedono segretamente, di giorno, di notte. Dalla passione, si spiccano a tutti e due anima e cuore.

Cosí comincia la leggenda (storia, diciamo laggiú) di Angelo Falcuneddu, che si dava alla campagna dopo aver commesso un omicidio appunto per amore di quella giovane bella come un sole. Antonio Testalunga invece si dava alla campagna perché un esattore del fisco aveva scacciato dal misero tugurio la madre di lui, e in cosí malo modo che la poveretta, cascando, avea sbattuto la testa sul selciato ed era morta. Il figlio l'aveva vendicata, prendendosi la vita di colui.

Cosí, in tempi piú recenti, e che pure paiono assai lontani, Gramigna – si chiamava altrimenti, ma il Verga l'ha ribattezzato con questo nome nell'arte e non è lecito piú di mutarlo – si dava alla campagna per avere ucciso, trattovi pei capelli, il suo tutore infedele e tiranno. Non la fantasia popolare, ma una potenza artistica che rivaleggia con essa, ha svolto e fissato quest'accenno della vita reale. Col Verga avevo discorso d'una persona di servizio in casa mia, quando Gramigna errava per la campagna inseguito dalla forza pubblica, dapprima innocuo latitante, poi di nuovo omicida, per difesa, in uno dei frequenti agguati e scontri da cui riusciva a sfuggire quasi per miracolo. La poverina udiva parlare della sete, della fame che il latitante, inseguito come una bestia feroce, dicevasi patisse spesso per piú giornate; e il pensiero di quell'uomo affamato e assetato la invasava; la tormentava sveglia, le agitava i sonni la notte, la faceva deperire, diventava fissazione, fantasma, che le pareva le chiedesse, in grazia, una goccia di quell'acqua ch'ella cavava dal pozzo, una goccia della altra che le serviva per risciacquare i piatti e che a lui, riarso, sarebbe parsa nettare deliziosissimo; un boccone di quel pane ch'ella buttava ai cani, un pugno di quella crusca ch'ella intrideva per l'animale immondo! E quando il latitante, diventato brigante per necessità, avuta spezzata una gamba da una fucilata era stato preso, la poveretta s'era sentita liberare da quell'incubo, aveva rifiatato, ed era presto rifiorita, pensando che ormai, nel carcere, colui non avrebbe piú patitofamesete.

E, ricordando, io tornavo ad ammirare l'arte del novelliere, che da quest'accenno, da questo spunto, per servirmi d'una bella metafora dei maestri di musica, avea saputo cavare l'Amante di Gramigna della Vita dei Campi.

E rammentavo la Rediviva del Linares, morta come opera d'arte e come superstizione popolare. E mi tornava alla memoria il tetro raccontoudito in Bronte, quando ero colà in collegio e avevo appena undici anni – che narrava della bella figliuola d'un amministratore dei beni del Nelson, portata come morta nella Chiesa dei PP. Cappuccini, svegliatasi dal letargo durante la notte, saltata giú dal cataletto dov'era stata messa a giacere in attesa della sepoltura, e trovata rabbrividita dal terrore, rannicchiata in un angolo, dal frate sagrestano sceso mattiniero a spazzare la chiesa.

Allora durava tuttavia la credenza popolare che la estrema unzione rendesse sacrati alla morte, e che bisognasse far rimorire, a colpi di croce benedetta, la persona rediviva. Raccontavano che quel frate avesse fatto cosí. E cosí fa il marito di Lena nella novella del Linares, e impazzisce dall'orrore. Oggi la superstizione è sparita; peccato che l'arte non sia riuscita a fissarne per sempre la tragica terribilità!

E qui uno sgomento m'invadeva, al sospetto se mai anche i novellieri contemporanei, piú fini osservatori e infinitamente piú artisti del Linares, morto nel '41, non si trovassero nel caso di lui; se mai non avessero già descritto, dipinto, scolpito, secondo la loro diversa potenza, persone, caratteri, usi, costumi, sentimenti spariti pur essi al pari di quella tetra superstizione.

E tutti i personaggi delle novelle del Verga, del De Roberto, del Navarro della Miraglia, del Varvaro – che è alle sue prime armi e mostra di poter diventare qualcuno, tutti, anche, – perché non confessarlo? – quelli da me tentati di far vivere nel mondo dell'arte e che, senza dubbio, erano vivissimi nei miei ricordi, tutti mi s'affollarono attorno con ressa, e mi sfilarono sotto gli occhi in un balenio di paesaggi, di luoghi, di circostanze: Jeli il pastore perduto fra le solitudini di Tèbiti, Rosso Malpelo nella cava di rena della Carvana; il Reverendo, a cavallo della mula, su e giú per le sue tenute e per le aie, tra i fittaiuoli da spremere e da imbrogliare nella spartizione del grano trebbiato; Mazzarò, squallido dalle febbri, nelle mortali pianure di Lentini, Mazzarò che ammassa roba e non sa darsi pace di doverla lasciare, morendo, a chi non ci ha lavorato; e Turiddu, e Santuzza, e la gna Lola e compare Alfio, rivissuti tre volte per virtú dell'arte, nella novella, nel dramma, e nel melodramma già di fama mondiale... E tutti gli altri, fino i piú recenti: Don Candeloro il burattinaio, frate Angelico detto Papa Sisto, e le monache pettegole dell'Opera del Divino Amore.

Era effetto della mia immaginazione pregiudicata, del mio nuovo stato d'animo? Mi sembravano vivi, vivissimi, , ma velati di malinconia, o meglio, velati da vapori che li slontanavano nello spazio e nel tempo; e mi sembrava che scotessero la testa e facessero dei gesti per farmi intendere: – Oramai non ci saranno piú altri Reverendi, altri Papa Sisto, né altri compari Alfii che mordano il lobo dell'orecchio all'avversario in segno di sfida mortale! Non c'è piú, da un pezzo, la lettiga di compare Cosimo il lettighiere, e non ci saranno piú tante e tant'altre cose che erano al tempo nostro. Hai visto? Fin le nostre vecchie cantilene non si cantano quasi piú!

Ed era vero, lo riconoscevo: tant'altre cose del tempo loro non ci sarebbero state piú. E mi si riproduceva davanti gli occhi il cortile della Nanacosí bene descritto dal Navarro della Miraglia nel racconto che ha questo titololargo, chiuso da un muro con in mezzo un portone, strada e piazzetta insieme; con le porte delle case attorno sempre spalancate, con le cordicelle tese da un angolo all'altro per stendervi i panni, i cenci dovrei dire; con le finestre, senza vetri ma ornate di graste di fiori, da dove le comari chiacchierano, leticano, schiamazzano, mentre gli uomini fumano la pipa e lavorano davanti le porte, e chiacchierano e leticano anche loro e si spaccano le teste; mondo a parte nel paesetto, che i sindaci spenderecci e gl'ingegneri municipali han cominciato a sfondare e allargare, e continueranno a sfondare e allargare, quasi non vogliano piú lasciarne nemmeno il vestigio.

* * *

E passi il cortile, passi il Reverendo, passino Papa Sisto e le monache pettegoline! Ma da tutto quell'insieme di cose e di persone, riprodotto dall'arte e ricordato dalla memoria, si sprigionava un significato piú intimo: la sparizione d'un'impronta particolare dai caratteri e dai sentimenti; si vedeva l'opera livellatrice dei tempi nuovi; l'opera però che ha distrutto e scancellato e non ha ancora creato niente da sostituire; che ha spazzato via ogni cosa, il cattivo e il buono, la superstizione e la fede, l'eccesso e l'abuso della forza e la forza stessa insieme, la tradizione e la particolarità originale, il costume e il sentimento; e che ha pure alterato il significato d'una bella parola, riducendola ad esprimere soltanto una bruttissima cosa, e l'ha imposta ai siciliani cosí come l'ha fraintesa; sapranno quale, se avranno ancora un po' di pazienza.

No, non era effetto della mia immaginazione pregiudicata, e del mio nuovo stato d'animo. Ero proprio cosí.

Capisco bene, Signori, che sentendomi ragionare a questo modo io debbo sembrar loro quel vecchio di Orazio,

difficilis, querulus, laudator temporis acti
se puero.

Certamente la mia tristezza proveniva dalla grande e profonda trasformazione che è effetto degli anni e del lavoro della civiltà; ma io non rimpiangevo il cortile, e le casette sudicie, e i poeti analfabeti, e le cantilene, e le sfide mortali col morso al lobo dell'orecchio, e le leggende dei briganti, e i caratteri rozzi e tutti d'un pezzo – come quello di donna Antonia nel Rosario del De Roberto, la quale non perdona alla figliuola, rimasta vedova e povera, pur recitando il Paternostro, che dice: Perdona a noi come noi perdoniamo ai nostri nemici! – Non li rimpiangevo per una specie di malintesa predilezione archeologica, ma perché mi sembravano piú belli, piú buoni, piú caratteristici di tutto quel che gli si è venuto sostituendo; perché fin dalle cose superficiali, accidentali, scorgevo la trasformazione sostanziale e non potevo esserne lieto. Ho accennato, e serva di esempio, a una parola il cui significato frainteso è stato talmente imposto ai siciliani, che essi non sanno quasi adoprarla piú nel significato primitivo. Chi non l'ha sentita ripetere? Chi non l'ha spesso ripetuta?

Mafia, una volta non voleva dire in Sicilia una specie di associazione di malfattori: e il mafioso non era un ladro, né molto meno un brigante. L'aggettivo mafioso significava qualcosa di grazioso e gentile, qualcosa di bizzarro, di spocchioso, di squisito; mafiosa veniva chiamata una bella ragazza, mafioso qualunque oggetto che i francesi direbbero chic. E il mafioso era ordinariamente un giovane con qualche grillo in testa, vanitoso della sua bellezza virile, della sua forza muscolare; che non si lasciava posare una mosca sul naso; che riparava a modo suo torti, o imponeva riconciliazioni; e che, quasi per insegna del suo carattere, vestiva con pantaloni larghi, con cravatte svolazzanti, camminava dondolandosi un po', con gli occhi socchiusi e il cappello su le ventitrè, palleggiando la mazza nodosa; spesso personaggio innocuo affatto, se non aveva altro che la vanità.

Oggi mafia e mafioso non sono piú niente di tutto questo. Com'è avvenuto? Non m'importa di ricercarlo in questo punto, ma non nascondo che deploro che sia avvenuto.

E per la stessa ragione rimpiango, quasi, la sfida mortale col morso al lobo dell'orecchio e il relativo duello col coltello; c'era in essi qualcosa di cavalleresco, di generoso. Il morso, la sfida sono spariti, e son rimaste in vece le coltellate, quali avvengono in tutte le taverne, in tutte le risse di tutte le città di questo mondo!

E rimpiango il contadino siciliano d'una volta che aveva, non lo nego, scatti di selvaggia ribellione, come i recenti incendiari di Valguarnera e di Caltavuturo, ma irriflessivi, ma quando proprio non ne poteva piú; e che era buono, ossequioso, paziente e parco lavoratore, superstizioso parecchio ma nello stesso tempo religioso davvero, e che fin nella bestemmia metteva un senso d'arte, non ingiuriando Dio e la Madonna, ma contentandosi di fare santissimo il diavolo, l'avversario di Dio. E non so rassegnarmi a vederlo diventato ciarliero pappagallescamente libero pensatore, mitingaio, incendiario e assassino per riflessione, dopo che gli hanno predicato. Quelle terre altrui ti appartengono, invadile, spartiscile; quelle ricchezze sono tue, depredale pure! – talché gli son rimasti soltanto l'avidità, l'odio, la brutalità; schiavo che ha mutato padroni e non se n'accorge, ignorante e di buona fede com'è.

* * *

E cosí intanto, a poco a poco, ero giunto a capire quel che mi aveva turbato e rattristato nel mio recente viaggio in Sicilia; e da quel viluppo di cose viste, di cose rammentate, dai casi della vita reale e dagli altri rappresentati dall'arte, era lentamente scaturita la soluzione del mio dubbio.

Ero cangiato io, ne convenivo, ma erano pure cangiati, e molto, uomini e cose nella cara provincia riveduta!

Forse ero capitato in mal punto, durante una specie di età ingrata, come quella dei fanciulli non diventati affatto giovinotti e rimasti mezzi fanciulli; nel mal punto in cui la Sicilia vecchia non aveva avuto tempo di divenire la Sicilia nuova, come sarà fra qualche lustro, fra una cinquantina di anni. Voglio augurare all'amata mia Isola che in questo non lontano avvenire cose e persone possano colà spogliarsi del loro cattivo, del loro eccessivo, del loro falso, e il loro buono divenga piú forte e non meno caratteristico di prima, piú equilibrato e non meno semplice e schietto.

E pensando che è sangue sinceramente italiano anche quello che scorre nelle vene della gente di laggiú, uniscano, Signori, i loro auguri e i loro voti ai miei; e in grazia della futura rinnovata Sicilia, perdonino alla disadorna e malinconica parola d'un siciliano d'oggi.





7 Il testo della conferenza venne pubblicato in opuscolo a Bologna nel 1894.



«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License