IntraText Indice: Generale - Opera | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText | Cerca |
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Ugo Ojetti ha predicato, giorni fa, a Venezia il suo vangelo letterario. Ripercosso dall'eco del telegrafo e dalle rassegne dei cronisti, è giunto fino a qui il rumore degli applausi prodigati dall'uditorio al conferenziere. Me ne rallegro con lui. Egli possiede tutte le qualità necessarie per farsi applaudire: è bel giovane, ha lo stile vivace, immaginoso, un po' vaporoso, ora di moda; dice delle cose non comuni e le afferma con calda convinzione di neofita, senza esitanze, senza riserve. La foga giovanile lo ha spinto a cercarsi, prima del pubblico veneziano, un pubblico piú vasto, quasi mondiale. Per ciò, nel febbraio scorso, si è rivolto alla Revue de Paris per bandire da quel pulpito che questa povera Italia non ha una letteratura contemporanea e non l'avrà per un buon pezzo. I signori della Revue e i francesi che la leggono devono essere stati lietissimi di vedere un italiano chieder loro ospitalità per ragionare della letteratura della sua patria quasi con lo stesso tono d'un francese della piú bell'acqua.
Immagino che, gratissimo dell'ospitalità accordatagli, l'Ojetti abbia voluto comportarsi verso quei signori con straordinaria cortesia, e sapendoli d'una ignoranza a tutta prova riguardo alle cose straniere, ha avuta la compiacenza di mettere anche lui nel suo scritto qualche inesattezza, sia intorno alle cose letterarie nostre, sia intorno a quelle francesi. A gentiluomo, gentiluomo e mezzo; ove cosí non fosse, quelle inesattezze e certi suoi giudizii rimarrebbero proprio inesplicabili.
La sua conferenza di Venezia, dal sunto dei giornali, pare una nuova edizione, anzi una semplice traduzione dello scritto pubblicato nella Revue de Paris. Se gli applausi non dimostrano che il pubblico sia rimasto convinto (in fatto di letteratura il pubblico italiano, lo confessa lo stesso l'Ojetti, est naturellement sceptique et somnolent) dimostrano che gli italiani di oggi sono molto diversi da quelli di mezzo secolo fa. Il Gioberti del Primato e i suoi contemporanei strabilierebbero, se per un miracolo potessero tornare in mezzo a noi. Dall'eccesso dei vanti un po' declamatori, quarantotteschi, siamo balzati all'eccesso opposto, a una modestia che confina col disprezzo di noi stessi. Fra i due, non è forse preferibile il primo? Almeno n'è nata l'unità d'Italia. Non so prevedere che cosa di buono possa produrre il secondo.
L'Ojetti però non è giovane per nulla; non scettico né sonnacchioso, ha anzi una fede profonda e la proclama ad alta voce: crede nell'arte cosmopolita. Come lo Zola disse della letteratura francese: Sarà naturalista o niente, l'Ojetti oggi dice dell'italiana: Sarà simbolista o niente, o meglio: Sarà cosmopolita o niente.
Infatti quel che piú l'attrista è il vedere che i letterati italiani non hanno un indirizzo comune, non formano una scuola, non vivono nella capitale, né in un gran centro qualunque. Lavorano, disseminati qua e là, ognuno per proprio conto, secondo il proprio ideale: il Carducci a Bologna, il Fogazzaro a Vicenza, il Verga a Catania o a Milano, Matilde Serao a Napoli. Fin i giovani, egli dice, hanno orrore della parola scuola; preferiscono avventurarsi, ribelli e orgogliosi, per le vie dell'arte, invece di stringersi, non fosse per altro, per istinto di conservazione, attorno alla bandiera d'un capitano insigne per vittorie riportate o per gloriose disfatte; e cosí finiscono, spesso, miseramente. Tanti capi, tante sentenze. La baraonda dei concetti artistici, si traduce naturalmente in una peggiore baraonda di lingua e di stile. Chi può credere che lo stile e il vocabolario del Carducci, del D'Annunzio, del Fogazzaro, di Ferdinando Martini, del Verga, della Serao, di Edmondo de Amicis appartengano a scrittori della stessa epoca e della stessa razza?
Non lo dice, ma l'Ojetti sembra voglia mettere in confronto la letteratura italiana contemporanea con la letteratura francese, dove le scuole sbocciano e fioriscono a ogni pie' sospinto, dove gli scrittori, coloro che vivono d'arte, se ne stanno accalcati nel cervello della Francia, Parigi. Ed è strano che egli guardi con invidia quest'accentramento appunto quando in Francia si manifesta già qualche sintomo di reazione contro di esso. È strano che egli, autore di un libro Alla ricerca dei letterati, evidentemente ispirato da uno consimile dell'Huret, si lasci ingannare dalle apparenze e non ricordi che baraonda d'ideali d'arte, di lingua e di stile risulti dall'inchiesta del suo predecessore francese. Tralasciando, per un istante, di parlare d'ideali, consentiamo che l'italiano del Carducci, del d'Annunzio non sia l'italiano del Verga e del Fogazzaro; ma forse il francese dello Zola, del Daudet è una stessa cosa con quello dei De Goncourt e del Mallarmé, per citarne soli quattro?
Tra la baraonda italiana e la francese quale apparisce dai due libri, la differenza piú notevole è questa: l'Ojetti non ha trovato un solo letterato italiano che abbia detto male di un collega, mentre la enorme vanità dei letterati francesi si è manifestata nel libro dell'Huret con una gara, edificantissima, di morsi e di calci fraternamente dati e resi, e non solamente fra artisti di scuola diversa, bensí tra proseliti di una stessa scuola.
Ma per tornare alla questione veramente seria della lingua e dello stile, l'Ojetti, parlando della baraonda italiana su questo punto, ha dovuto far sorridere i colti lettori della Revue de Paris, che sanno di stare quasi peggio di noi. Lo Zola, il Daudet, i De Goncourt sono stati accusati di barbarismi e di sgrammaticature per lo meno quanto la Serao, il Verga, il De Roberto e qualche altro citati all'Ojetti dalla scrittrice napolitana; il Mallarmé e i suoi seguaci vengono giudicati o matti o incomprensibili dalla maggior parte dei loro contemporanei; ognuno di essi ha il suo vocabolario, il suo modo di esprimersi, precisamente come i poveri scrittori italiani; stavo per dire il suo gergo. Parecchi di loro si regalano a vicenda gli epiteti di puri, d'impeccabili; ma ci sono tant'altri che chiamano con nome diverso quell'impeccabilità, quella purezza, e preferiscono qualcosa di impuro e di peccaminoso, se l'impurità e il peccato recano con loro il compenso dell'originalità e della vita.
Tra gli scrittori italiani e i francesi, da questo lato, la questione si riduce a una proporzione aritmetica. Quelli sono molti, i nostri pochi. Avrei dovuto forse dire: a una questione commerciale; giacché la produzione letteraria si sviluppa (e l'arte non ci perde, anzi!) in ragione dei vantaggi che arreca con la facilità dello smercio. Non credo che, in un problema d'arte, l'Ojetti voglia dare molta importanza al valore numerico.
Nel suo scritto la questione della lingua e dello stile vien posta da due che hanno nome autorevole, dal Verga e dal D'Annunzio. «Lo stile non esiste fuor della idea. Se lo stile consiste massimamente nella forma del periodo, esso deve adattarsi all'idea, deve vestirla, investirla. Quanto maggiore sarà questa rispondenza, questa fusione, tanto migliore sarà lo stile. Alcune forme di periodo fisse, apprese da alcuni classici, applicabili a tutte le idee, sono mortali allo stile». Questo è il concetto del Verga. Pel D'Annunzio le frasi, le parole hanno un valore di trasformazione, di idealizzazione, se si può dire, dell'idea, un valore quasi per se stesse. Cosí il Verga, per esempio, se dovrà parlare di una vecchia contadina, la chiamerà semplicemente za Maruzza e la descriverà, se occorre, in guisa da mettercela viva sotto gli occhi. Il D'Annunzio non saprà resistere alla tentazione di chiamarla ripetutamente antica Cibele. Pel Verga, una comitiva di ragazze, che coglie uva o sarchia grano, sarà semplicemente una comitiva di ragazze che lavorano, ridono, cantano; e le descriverà, se occorre, parcamente, incisivamente, in guisa da mettercele vive sotto gli occhi; il D'Annunzio la chiamerà classicamente una teoria.
E, a proposito dello stile di questi due autori, un'altra prova concludentissima. Prima assai dell'avvento del D'Annunzio in Francia, il Verga aveva visto tradotti i suoi Malavoglia per opera del Rod e pubblicati dall'editore Savine. Il Rod ha compiuto un miracolo di lucidazione del testo italiano, sorprendente per fedeltà ed esattezza; ma il lavoro del Verga non ha avuto però successo presso i lettori francesi, e non poteva averne soggiungo io. La personalità del suo stile, il carattere speciale di esso nella traduzione era sparito; il traduttore era riuscito traditore per la evidentissima buona intenzione di non tradire l'originale. Invece quello era il caso, se mai, di rifare con colorito francese, con forme dialettali di qualche provincia francese, un libro dove le forme dialettali si fondono assolutamente nella lingua comune e vestono e rivestono l'idea in modo cosí organico che la forma non può scindersi dal concetto. Che ne è avvenuto? L'opera del Verga nella veste straniera è apparsa scialba, stinta.
I lavori del D'Annunzio nella traduzione del d'Herelle si sono trovati come a casa loro; il traduttore non ha dovuto penare molto; gli è bastato togliere in prestito a questo o a quello scrittore francese decadente certe forme in voga tra i seguaci della letteratura cosmopolita (or ora mi scappava dalla penna: della massoneria letteraria cosmopolita) e il colpo è riuscito.
Dico questo senza nessun maligna allusione a recenti polemiche, senza voler discutere o menomare il valore del nostro fortunato romanziere; e posso affermarlo con faccia franca, perché intorno ai lavori del D'Annunzio io ho scritto quasi un volume; e se ho fatto degli appunti, ho ammirato anche senza mezzi termini, pur sapendo e accennando, tra i primi, i plagi, o assimilazioni ecclettiche che si vogliano chiamare, insomma quelle cose dalle quali sarebbe stato bene che il D'Annunzio non si fosse lasciato allettare.
Il problema dello stile e della lingua va proposto come l'ha proposto il Verga. Lasciamo stare se egli lo abbia o no praticamente risoluto; potremo ragionarne un'altra volta. Se pare che l'abbia risoluto il D'Annunzio (e 1'Ojetti non ne dubita punto) la ragione di questa illusione bisogna cercarla altrove, nel concetto. Il Verga crea delle creature vive, di sangue, carne e ossa; il D'Annunzio, finora almeno, ha creato quasi sempre fantasmi di creature, ombre vane. Un nuovo Dante che volesse abbracciarle, sentirebbe cingersi il petto dalle proprie braccia passate a traverso quei corpi inconsistenti.
Ed ho detto: – Quasi sempre – perché nel Trionfo della morte per esempio, c'è un punto, a metà del volume, in cui il protagonista e la sua famiglia riescono persone vive, di sangue, carne e ossa; ma allora il D'Annunzio si vede costretto dal suo istinto di artista, a mutar tono; non sembra piú lui, o per lo meno non rassomiglia piú a quel tale D'Annunzio che la leggenda ha foggiato e che poi, di rimpallo, si è foggiato secondo la leggenda. Il primo è il D'Annunzio che fa sperare possibile e augurare assai prossimo un completo rinnovellamento dell'artista, appena gli sarà passata la cosmopolitite acuta che ora lo ha invaso. L'altro D'Annunzio lasciamolo ai francesi o a chi lo vuole.
Tutto questo l'Ojetti lo sa meglio di me, ma non ha voluto tenerne conto. Ed era, se non sbaglio, il cardine della questione della letteratura italiana contemporanea. Egli però scriveva per una rivista francese, e preso il la, si è sentito forzare la voce. Ma, forse, con tutto quel la, non avrebbe stonato, senza l'altro pregiudizio della letteratura cosmopolita.
«Il campanilismo ormai è ridicolo, specialmente in materia d'arte. Di là dai monti, di là dai fiumi, di là dai mari ecco artisti che rinascono, e si levano, e si chiamano ad alta voce, e si nutrono fraternamente dello stesso pane, al sole. L'arte è universale; l'artista non è piú né italiano, né francese, né norvegiano: il suo genio è umano!»
Ben detto, caro Ojetti; se non che è stato sempre cosí. L'opera d'arte italiana o francese o norvegiana è stata sempre opera del genio umano, e non poteva essere diversamente. Tempo fa il pregiudizio retorico, pedantesco non riconosceva altra arte all'infuori di quella greca e latina. Ma noi ci siamo finalmente liberati dal giogo dei greci e dei romani, abbiamo allargato il nostro orizzonte. Shakespeare non ci apparisce piú un barbaro, come al signor di Voltaire; da qualunque parte ci venga, qualunque forma rivesta, qualunque concetto esprima, pur che abbia assunto una forma vivente, l'opera d'arte è accolta, compresa, festeggiata, ammirata. Nazioni che prima non avevano preso parte al banchetto artistico – che non hanno tradizioni classiche né di nessuna sorta, e non intendono certi nostri pregiudizi – sono venute a sedervisi insieme con noi, balde, piene di entusiasmo, giovanilmente sincere, e anche, non le dispiaccia, giovanilmente ingenue; e ci hanno mostrato, col fatto, l'inanità di certe convenzioni dalle quali non sapevamo sottrarci. Queste nazioni avevano qualcosa di nuovo da dirci: il loro particolar modo di sentire, di pensare; e ciò dava alle loro opere aspetto insolito, attraente, suggestivo. La natura e la vita ci apparivano guardate da occhi diversi dai nostri, da intelligenze piú libere e quindi piú forti. Noi abbiamo sentito trasfondere nelle nostre vene un'onda di sangue piú fresco, ci siamo sentiti ringiovanire. Abbiamo guardato la natura con altre intenzioni anche noi; e anche noi abbiamo osservato la vita che quasi avevamo perduto di vista, tanto ci eravamo abituati a guardarla non direttamente, ma a traverso l'altrui opera d'arte. Per dire la verità, questa trasformazione, questa rinnovazione l'avevamo già iniziata da un pezzo, un po' per istinto, un po' per riflessione; ma i nuovi venuti l'hanno affrettata, l'hanno compiuta. Si trovavano in migliori condizioni; arrivavano ultimi; e senza accorgersene, senza volerlo, usufruendo del nostro lavoro di preparazione, lo hanno spinto molto avanti.
Tutto questo, ripeto, sta benissimo, non fa una grinza. Ma c'è un equivoco prodotto dalla parolina umano buttata là dall'Ojetti, quasi sbadatamente, la quale vuol significare quel sentimento di pietà, di carità universale, piú profondo e piú vasto, che pervade la società moderna, la rimescola e che, creato il socialismo in politica, vorrebbe pure importarlo tale e quale nell'arte.
Nella politica esso nega il concetto di patria, nell'arte il concetto di letteratura nazionale. Da questo strano equivoco è venuto fuori il cosmopolitismo letterario di cui l'Ojetti è uno dei piú caldi e dei piú ingegnosi banditori.
È un'astrattezza. Se con quella parola si volesse soltanto significare l'alto senso di comprensione che ci fa penetrare, intendere e ammirare tutte le forme artistiche da qualunque parte del mondo ci vengano: o la urgenza vitale dell'assimilazione delle varie forme quando esse rappresentano qualcosa di organico nell'arte, non ci sarebbe niente da ridire. Ma il fatto dimostra che per cosmopolitismo artistico s'intende tutt'altro. S'intende una certa uniformità di sentimenti, di concetti, e per conseguenza, un'uguale corrispondenza di forma che dallo stile va su su fino al modo di concepire l'opera d'arte; e lo stile diventa quindi un gergo comprensibile soltanto dagli iniziati, e la personalità umana si assottiglia, si assottiglia per diventare simbolo piú o meno trasparente. In questo caso non veggo una bella ragione di dare il bando ai greci e ai latini, che sono chiari, solidi, risplendenti, e parlano un linguaggio armonioso, comprensibile da tutti per sostituir loro qualcosa di inconsistente, di torbido e, quel che è piú, di mortalmente uniforme.
Si perdonino queste astrattezze anche a me; era impossibile scansarle. Veniamo ora a qualche esempio. Le nazioni sono degli individui grandi, direbbe il De Meis; e come tutti gl'individui hanno un modo speciale di sentire e di pensare e un modo altrettanto speciale di dar forma ai loro concetti.
Ora ecco una poesia di amore di un poeta cosmopolita. Non ne ho il testo per le mani, e la trascrivo quale è stata recentemente tradotta da Vittorio Pica, nel suo studio premesso alla Belkiss, poema drammatico simbolista del giovane poeta portoghese Eugenio De Castro. Descrive l'istante in cui apparve al poeta l'Amata.
«Trionfale, vespertino, mineralmente rosso – nella diafana pace d'un tramonto di ottobre, – il sole, lacerando l'incenso degli spazii, – cammina verso la morte ad indugiati passi, – come le bande che vanno a suonare nelle esequie...
«Fu in un'ora cosí soave, crepuscolare – che, lungo questo esteso e fogliuto viale, – altiera, imperiale, tra un fruscío di seta, – vidi per la prima volta l'Eletta della mia anima – il grande Fiore sottile, impareggiabile, almo – la Maggiore, la piú Bella, la piú Amata, l'Unica.
«Incedeva gloriosa e triste, ravvolta in nera tunica, – che sul suolo strisciava in ondeggianti pieghe; – aveva nel calmo andare l'eleganza della serpe, – la leggerezza d'uno spettro e la grazia d'un'anfora...
«Il gran Fiore passava, imperturbabilmente, – col suo volto enimmatico ed il suo sguardo vago – ieratico, ricordanti le mistiche immagini, – mentre i miei occhi seguivano come paggi – il suo ritmico incesso sonnambulo e triste...»
Basti questo saggio. Aprendo a caso qualunque volume di poeti cosmopoliti, troveremmo gli stessi aggettivi: trionfale, mineralmente rosso, applicati indeterminatamente e un po' a caso; e troveremmo Belle, Amate, Uniche, ugualmente imperiali, o reali, o ducali; e tutte avranno l'eleganza della serpe, e tutte si muoveranno leggere come spettri, e tutte avranno la grazia di un'anfora. Il poeta che ho citato è portoghese; ma potrebbe anche essere francese, tedesco, italiano, esquimese, come, viceversa, i suoi confratelli esquimesi, italiani, tedeschi, francesi, potrebbero essere benissimo portoghesi. Sono state soppresse nel paesaggio e nella figura umana le particolari caratteristiche; non piú quel tal paesaggio, o quella tale persona, ma dei sostantivi astratti, degli aggettivi astratti. Avremmo voluto avere l'impressione di un angolo di cielo e di terra portoghese; avremmo voluto vedere una signora o una signorina di Lisbona o di Oporto, vestita in una certa foggia che neppure la universalità della moda riesce a sopprimere, soprattutto una signora e signorina che sente e pensa in modo assolutamente individuale; e invece non abbiamo niente.
Ed ecco i drammaturgi norvegiani, ecco i romanzieri russi.
Ibsen irrompe sul palcoscenico spingendosi innanzi una folla di creature della sua Norvegia, strane, malate d'ideali, con la coscienza sconvolta dai problemi religiosi e sociali che colà lavorano sordamente i cuori e le teste; nature complicate, nevrotiche, che soffrono e fanno soffrire.
Per condurle sul palcoscenico, l'Ibsen non bada alle forme drammatiche usate altrove. È artista, e capisce istintivamente che quelle creature devono parlare e agire a modo loro, sincere, senza preoccupazioni del pubblico; ma è complicato, nevrotico, malato d'ideali pure lui; com'esse, è lavorato dentro sordamente dai piú alti problemi religiosi e sociali; e per ciò s'interessa di costoro fino a un certo punto. Artista, non può vedere il concetto altrimenti che come forma; ma, pensatore, vuole poi cosí spietatamente che quelle creature agitate e sconvolte dicano chiaro e aperto che non sono loro, soltanto loro, lo scopo di lui, ma l'intimo concetto che le anima; lo vuole cosí spietatamente, che all'ultimo le sforma, le strappa, le distrugge, e non permette che arrivino fino in fondo dell'atto quinto creature reali e vive quali le avea mostrate sin dalle prime scene.
Intanto, invece di contentarsi d'intendere e d'ammirare l'opera dell'Ibsen, invece di limitarsi all'assimilazione dei perfezionamenti di forma ch'egli ha recato nella drammatica, si è voluto norvegizzare tutte le creature del teatro europeo, anzi cosmopolita.
Il Tolstoi, il Dostoiewski appartengono a una razza che si occupa anch'essa del mondo interiore, e rimugina le proprie sensazioni, e si tormenta con i casi di coscienza. I tre grandi artisti rappresentano la concentrazione, la somma di queste qualità morali e intellettuali. Il Dostoiewski, inoltre, è un nevrotico, un perturbato, e nelle sue creazioni rispecchia lo stato irregolare della sua mente. Con essi la forma si è avvantaggiata dei pregi di sincerità, di rappresentazione evidente e vigorosa di cui hanno dato esempi meravigliosi. Non trovandosi però alle prese con i limiti e le convenzioni della forma drammatica, i tre romanzieri non sono stati costretti a sformare, alla fine, le loro creature per mettere in maggiore evidenza il loro intimo concetto; e cosí esse han conservato, piú delle figure ibseniane, la loro caratteristica di pure opere d'arte.
Intanto, invece di assimilarsi quel che c'è di nuovo e di organico nella forma del romanzo russo, operando una confusione tra forma e concetto, è stata egualmente tentata la sciocchezza di russificare alla lor volta i personaggi del romanzo europeo.
E passi per l'Ibsen, passi poi romanzieri russi! Nell'uno e negli altri il concetto ha preso vera forma; l'uno e gli altri hanno creato persone vive della loro nazione, del lor tempo. Il cosmopolitismo va piú in là. Per quanto ossessi dei problemi di religione, di morale, di sociologia, i personaggi dell'Ibsen, del Tolstoi, del Dostoiewski sono figure vive, consistenti, e in che modo!
Il cosmopolitismo non sa che farsene di queste figure vive e consistenti. Simboli! Astrattezze! Ecco quel che egli vuole, cioè cose che sono l'opposto, anzi l'assoluta negazione dell'arte.
Il norvegizzare e russificare l'opera d'arte è stata insomma l'operazione preliminare del cosmopolitismo letterario, in Francia, in Germania e, pel poco che ha potuto, in Italia.
Ora esso vuole andar oltre, è andato già oltre.
Ha tutto un programma pieno di concetti che sembrano elevati, pieno di buone intenzioni da lastricarne non uno ma piú inferni. E bisogna guardarlo da vicino, sviscerarlo per convincersi se mai si tratti di cosa seria, o piuttosto di aberrazione passeggera, o di risibile ciarlataneria che vuol mascherare coi paroloni un'irrimediabile impotenza creatrice.
Sventuratamente forse si tratta di ben altro.
– Ma dunque lei è un codino!
– Niente affatto. Nessun nuovo ideale umano mi lascia indifferente. Ma qui si tratta d'arte, non di pensiero filosofico o scientifico.
– Vorrebbe forse un'arte vuota di contenuto, forma soltanto?
– Niente affatto. Tutto il contenuto possibile, a patto però che egli prenda forma vitale per via dell'immaginazione creatrice. Intendiamoci. Io odio le cose a mezzo, gli ibridismi. Il puro concetto, se mi occorre, vado a cercarlo nei libri dei filosofi o in quelli degli scienziati. Lí trovo la verità astratta o nuda, cioè quella che provvisoriamente sembra verità; e coi filosofi e con gli scienziati mi insuperbisco della divina potenza dell'intelletto umano, e insieme con loro mi umilio e mi scoraggio davanti all'infinità dell'Ignoto che riduce a ben misera cosa la nostra piú profonda filosofia, la nostra piú ardita e piú meravigliosa scienza. Quando poi mi rivolgo all'opera d'arte, ricerco invece sensazioni, impressioni, caratteri, rappresentazioni nelle quali quel tal concetto filosofico o scientifico, prima ricercato altrove, può benissimo tornarmi dinanzi ma incarnato nella forma, divenuto uomo, donna, paesaggio, passione, azione; e incarnato in modo cosí perfetto, che io dovrò avere l'illusione di trovarmi faccia a faccia con questa nuova e piú eccelsa Natura, e rifare intorno ad essa l'identico lavoro fatto dal poeta, dal romanziere, dal drammaturgo allorché ricavavano dalla vita sociale il soggetto che li aveva prima commossi e poi spinti a riflettere. Insomma dovrò estrarre io, se sono capace, il concetto condensatosi nell'organismo dell'opera d'arte, e rimuginarmelo senza che il romanziere o il drammaturgo abbiano a fermarmi a ogni po' e picchiarmi la spalla con un: – Bada! Qui sotto c'è un gran pensiero; bada! –
In questo senso, ogni grande opera d'arte è un simbolo; se non che divien tale spontaneamente, per virtú della propria natura intellettuale. Ma appunto per questo ella conserverà tutti i suoi caratteri particolari di tempo, di luogo; sarà prettamente italiana, prettamente francese, prettamente inglese, tedesca, russa o non sarà opera d'arte. Il cosmopolitismo invece toglie via, o tenta di toglier via, tutti i caratteri particolari, e per ciò intende ridurci al simbolismo forzato, al simbolismo artificiale.
Prendo i due scrittori che mi è piaciuto mettere in riscontro nella questione dello stile, il Verga e il D'Annunzio, per non uscire di casa nostra. Tutti e due hanno un concetto filosofico, scientifico che serve di sostrato anzi di lievito alle loro creazioni.
Nella serie dei Vinti, della quale abbiamo per ora soltanto due episodi – avremo il terzo fra poco – il Verga vuol studiare le diverse fasi della lotta pel benessere nella vita, e interessarsi specialmente dei deboli che restano per via, dei fiacchi che si lasciano sopraffare, dei vinti che levano le braccia disperate e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, dei vincitori di oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare e che saranno sorpassati domani. Dalla lotta per i piú umili e piú urgenti bisogni materiali, si andrà in su fino a quella elevatissima pei bisogni dello spirito, dove tutte le bramosie, tutte le vanità, tutte le ambizioni umane si condenseranno e diverranno piú dolorose per la intensità acquistata lungo la loro corsa vertiginosa.
Il romanziere ha dovuto esporre il suo concetto fin da principio perché non poteva presentare tutt'a una volta la intera serie e non voleva correre il pericolo di essere frainteso o non capito.
Ma appena ha terminato di esporlo, astrattamente, da pensatore, da sociologo, non ne ha piú fiatato. Ha preso i suoi personaggi e li ha mandati pel mondo: povere creature per le quali una barca e un carico di lupini travolti dalla tempesta divengono disastro irreparabile; creature agitate dall'avidità di arricchire, di elevarsi oltre la propria condizione, e che incontrano nella stessa avidità e nella stessa ambizione soddisfatte il loro inevitabile gastigo. E queste creature si chiamano Padron 'Ntoni, Alessi, Zi' Crocifisso, Piedipapera, Mena, Maruzza, la Zuppidda; si chiamano Mastro Don Gesualdo, don Niní, i fratelli Trao, la baronessa Bianca Trao; e tutte hanno il loro carattere spiccato, la loro individualità, nelle passioni, negli atti, nel linguaggio; e sono di quel piccolo scoglio di Aci Trezza, di quella cittaduzza siciliana della provincia di Catania, e ne incarnano cosí stupendamente i modi di sentire e di pensare, che non possono essere scambiate con persone di altre province neppure nella stessa Sicilia.
Un senso di gran malinconia e di tristezza scaturisce dalle pagine di quei due volumi, ma quale scaturirebbe dalla diretta impressione, se quei personaggi e quelle azioni ci si fossero presentati, nella realtà, sotto gli occhi. Certamente, personaggi ed azione sono simboli, velami di idee; ma simboli vivi, che ignorano la loro qualità di simboli, e non si analizzano da per loro e non si spremono da per loro per cacciar fuori il succo del concetto che sanno di contenere.
Il D'Annunzio vuol rappresentare stati d'animo dei piú complicati e piú varii, di cui analista si sia mai compiaciuto da che la scienza della psiche è in onore. Egli tende l'orecchio alla voce del magnanimo Zarathustra e vuol preparare con sicura fede l'avvento dell'Uebermensch, del Superuomo. E sta bene. L'un concetto vale l'altro. Sia la darwiniana lotta per la vita, sia la pessimista e aristocratica filosofia del pensatore tedesco finito miseramente in un ospedale di matti, alla quale il D'Annunzio mesce l'idea pagana del Rinascimento e l'entusiastico culto della bellezza del corpo umano, non importa. Quel che importa di vedere è se gli stati d'animo astratti siano divenuti persone, individui della tal città, della tal provincia; eccezioni, rarità quanto si vuole, ma rarità, eccezioni che debbono fare il miracolo di incarnare piú schiettamente, piú vigorosamente il carattere della razza, del paese dove son nati, perché l'eccezione e la rarità consistono in questo.
Io prendo in mano le Vergini delle Rocce e tento di scorgere questa rarità, questa eccezione organica, e non la trovo. Claudio Cantelmo ragiona, analizza, si esprime con lingua e stile elevatissimi; non sa muovere un dito senza distillare tutte le conseguenze piú riposte e piú misteriose di quella mossa; non può osservare le mani di una ragazza, senza che esse non gli sembrino come ricettacoli d'infinite forze innominate da cui potevano sorgere meravigliose generazioni di cose nuove. Ed eccolo invasato dall'idea di creare il tipo supremo dell'italiano, anzi il futuro Re di Roma!
Dobbiamo supporre che questa persona, a cui sembra non sia ignota nessuna conquista della scienza positiva odierna, non intenda creare un essere umano con mezzi e modi diversi da quelli stabiliti dalla natura, infatti non si rivolge al crogiuolo del chimico che crea, con sintesi, le sostanze organiche, per chiedergli di anticipare il miracolo scientifico preannunziato dal Berthelot; ma va in cerca di una sposa, di colei che dovrà essere l'eletta cooperatrice nella nobilissima impresa della reale generazione. Se non che, col pretesto che nelle razze di antica origine sangue, nervi, cervello siano necessariamente piú raffinati, Claudio Cantelmo va a cercare la madre del futuro re d'Italia in una famiglia, principesca, sí, ma composta di idioti, di pazzi, di nevrotiche, di isteriche. E non giudica a prima vista che di quelle tre ragazze estenuate, vissute lontane dalla società, nessuna potrà concorrere a formare la fibra nuova, vigorosa del rigeneratore del regno d'Italia; e va tastoni, ed esita e non arriva a decidersi.
È forse creatura umana Claudio Cantelmo? Diciamo pure, se cosí si vuole, che sia un simbolo. Diciamo pure, con l'amico Rod, che le tre vergini Massimilla, Violante, Anatolia rappresentano non so quali altri simboli piú reconditi e piú profondi di quello di Claudio. I lettori spassionati confesseranno che queste tre preraffaellitiche figure li colmano di vivo piacere soltanto quando, di tratto in tratto, accennano di diventare o diventano persone vive; e che piú viva di loro è la loro madre, la pazza principessa Montaga, la quale non ha missione, a quel che sembra, di rappresentare simbolo alcuno.
Le bellezze, i lenocinii dello stile, caro Ojetti, risultano cosa molto secondaria, mera esteriorità, quando non diventano cosa organica con quel che costituisce la essenza della forma in un'opera d'arte.
E il cosmopolitismo è costretto a rifarsi con la retorica – diciamo francamente la parola – rinunziando, per partito, al carattere particolare che dovrebbe imprimere in ogni opera d'arte la razza, la tradizione, il genio di ciascun popolo.
I grandi intendimenti filosofici, scientifici, si riducono a lustre, a ciarlatanerie per chiappare il momentaneo favore del pubblico, se poi non riescono a creare persone vive. Omero, Shakespeare, Balzac, che avevano reni solide per la bisogna creativa, non andavano tanto per le vie traverse: mettevano al mondo creature immortali, non vuote parvenze. Ed Elena e Andromaca e Nausica daranno, fino alla fine dei secoli, da pensare e da discorrere piú di qualunque nostro simbolo moderno; e Amleto ha fatto e farà scervellare filosofi e scienziati piú che non abbia fatto e non possa fare una persona realmente esistita; e Madame Marneffe, e il Barone Hulot, e il Père Goriot e il Cousin Pons, perché creature vive, iscritte con inchiostro indelebile nel registro dello stato civile dell'Arte, si prestano compiacentemente a fare da simboli con Elena, con Amleto, con tutti gli altri loro pari. E come no, se l'opera d'arte è pensiero condensato in una forma viva, il quale può benissimo venir di nuovo ridotto alla sua primitiva essenza di puro pensiero?
– Ma il cosmopolitismo non l'ho inventato io! – può dirmi 1'Ojetti. – È un fatto storico contemporaneo. Io lo accetto; perché voglio essere del mio tempo, perché sono giovane, perché il mio cervello affollato di concetti filosofici, scientifici, non può funzionare piú, come nelle età infantili, barbariche, da pura immaginazione e gingillarsi con semplici fantasie. Con l'arte nuova noi vogliamo rifare il mondo. E libro lux, non ha sentito? ha detto il D'Annunzio. E io non ho creduto d'ingannarmi aggiungendo che l'opera letteraria Lux sia appunto la trilogia delle Vergini delle Rocce. La odierna letteratura italiana, o meglio la nostra produzione letteraria è fuori di questo movimento, e quasi non ha ragione di esistere. Per l'avvenire? Ripeto quel che ho scritto nella Revue de Paris: «assai prima che si formi tra noi una letteratura italiana, avremo anche in Italia una letteratura europea.»
Ah, egregio Ojetti, io voglio mostrarmi piú radicale e piú cosmopolita di lei! E siccome una cosa o è quel che dev'essere o non è niente; e siccome un'opera d'arte non può essere altro che pensiero incarnato in una forma viva, cosí io credo che noi assisteremo in tal caso alla solenne agonia dell'Arte. Troppa riflessione, troppa scienza positiva ci pervade ogni fibra. L'opera d'arte che pretende di usurpare le funzioni della filosofia e nella scienza non caverà un ragno dal buco. E libro lux, sí, sí; ma questo libro (ed è giusto che sia cosí) non lo scriverà un artista. Io, per mio conto, mi contenterei che qualcuno dei nostri artisti ci desse – vede come sono poco esigente? – di quando in quando, in Italia, un nuovo Don Abbondio!
Amen.
* * *
Ugo Ojetti mi manda ed io pubblico volentieri: