Luigi Capuana: Raccolta di opere
Luigi Capuana
Verga e D'Annunzio
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I. SCRITTI VERGHIANI

LA CRISI DEL ROMANZO

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LA CRISI DEL ROMANZO11

I.

Ragioniamone poiché ne ragionano tanti altri.

Dunque il romanzo moderno è malato, e i dottori che si affollano attorno al suo letto, e fanno la diagnosi del male da cui è abbattuto e che ne minaccia l'esistenza, non ci sanno ancora dir niente di chiaro su la soluzione della crisi.

A dar retta alla gente, questo povero romanzo moderno è una creatura infermiccia, o uno di quegli organismi facili a prendere ogni malattia. Dev'essere però anche un organismo molto resistente, se di tratto in tratto sentiamo dire che ha lasciato il letto, che sta benissimo e che va pel mondo vispo e allegro, roseo e ringiovanito, quasi non fosse mai stato malato in vita sua.

Tempo fa aveva avuto un accesso di romanticismo; febbre a quaranta gradi, allucinazioni, delirio! Un dottore disse:

– È bello e ito! Se gli si potrà somministrare una buona dose di naturalismo e di sperimentalismo, forse, chi sa!...

E quella specie di chinino infatti fece il miracolo.

Il malato non solamente si rimise in salute, ma ingrassò tanto che non sembrava piú lui. Qualcosa però gli si era guastato nel cervello; da bravo figliuolo, onesto, morigerato e col timore di Dio, che era prima, era diventato assiduo frequentatore di bettole e di donnacce; sbraitava canzoni oscene, e nelle conversazioni si lasciava scappare di bocca sconcezze di ogni sorta, senza badare alle ragazze e ai bambini che si trovavano presenti. Alla fine, bevi, bevi, una sbornia oggi, un'altra domani, rieccolo all'ospedale, col delirium tremens!

– Ben gli stia! – diceva la gente pulita. – Lasciatelo morire; meglio per lui e per noi.

I dottori intanto volevano sperimentare non so qual nuovo rimedio trovato allora allora dalla scienza; tentare non nuoce, specialmente quando il male è assai grave; e tentarono. Iniezioni sottocutanee di psicologismo in tutte le parti del corpo: non gli rimase un centimetro di pelle intatta dalle punture della siringa Pravaz. E il delirium tremens fu vinto.

Il malato uscí dall'ospedale, riprese le sue faccende; ma era cosí mutato di carattere da riconoscersi a stento. Non piú canzoni oscene, non piú bettole, non piú donnacce; aveva un sacro orrore del vino e delle bibite alcooliche; mostrava un'eccessiva affettazione di vestir bene, di frequentare l'alta società, misurato nei gesti, gentilissimo nelle maniere, e un po' ammalinconito. Per cose da nulla si scrutava dentro, faceva lunghi esami di coscienza; voleva indagare il perché di ogni suo sentimento, di ogni suo atto, e farlo sapere a tutti, con cert'aria dottorale che spingeva la gente a guardarlo in viso. Dapprima, la novità di vederlo trasformato in quel modo lo aveva reso interessante; ma, a lungo andare, quei suoi sproloqui, quelle sue divagazioni divennero insopportabili. Non era cosa naturale. Si capí che il rimedio lo aveva guarito, , del delirium tremens, ma gli aveva inoculato un male peggiore.

Se non era stato molto divertente con le sue sconcezze e con le sue sbornie, con la prosopopea psicologica era mortale addirittura. E poi, gonfiava, gonfiava, quasi la siringa Pravaz, assieme col psicologismo, gli avesse introdotto sotto la pelle molt'aria. Dovevano vederselo, un giorno o l'altro, crepare davanti agli occhi come una vescica troppo tesa? E lo ricondussero all'ospedale.

Ed è ancora, non dico tra la vita e la morte, ma seriamente malato. I dottori, se sono concordi intorno alla diagnosi dell'attuale malattia, non vanno punto d'accordo intorno al rimedio da somministrare. Chi propone una cura ricostituente di idealismo o di neocattolicismo; chi sciroppi di simbolismo e anche di lirismo. Speriamo che s'intendano finalmente tra loro, e che non accada quel che dice il proverbio: Mentre i medici si accapigliano, il malato muore.

* * *

Una relazione, molto accurata e molto ben fatta, delle varie malattie del romanzo moderno ho letto in questi giorni in una promettente rivista napoletana12; la conclusione è questa:

«Dal crudo naturalismo, che già pare definitivamente abbandonato e dall'idealismo assoluto, contro cui si ribella la coscienza scientifica dei nostri tempi, pare che l'arte disorientata e pur imperiosamente necessaria alla vita moderna, si raccolga in un'atmosfera di superiorità aristocratica. Già in tutta l'arte contemporana si osserva la tendenza ad una obbiettivazione sempre crescente dei suoi fini; non forse dal sentimento che l'arte debba essere la cultura di ogni elemento di bellezza, debba prolungare l'intima necessità del sogno, deriva tutta la fortuna di cui gode presentamente la musica e la poesia che ha temperate le ali dei ritmi a delle idee musicali?

«E cosí quando un artista vorrà narrare agli umani, ad alleviare in loro la stanchezza della vita vissuta, qualche superbo suo sogno, scriverà un'opera dove tutte le essenze della bellezza saranno rivelate ad occhi mortali, e vi palpiterà dentro l'eco di un mondo affascinante, e ne sorgeranno in uno splendore di aurora imagini di forza, di grazia, di armonia.

«Questo sarà il romanzo dell'avvenire: un poema che si servirà d'una prosa piú nitida del marmo, piú fluente di qualunque regale corrente di acqua, piú complessa e piú varia dei cieli notturni. Aspettiamone l'evento.

Aspettiamo pure. Intanto, poiché il malato non ci sente, discutiamo del suo male.

Ho un'idea un po' stramba e la voglio dire.

Io credo che il preteso malato sia uno di quegli organismi cosí bene impostati da poter campar cento anni. Ha un difetto: troppo retta ai consigli dei medici e si rovina la salute.

Quando i dottori credono che egli abbia la febbre tifoidea del romanticismo, prendono un abbaglio; scambiano per tifoidea una semplice febbricciuola di crescenza e rischiano di ammazzarlo con le loro grosse dosi di naturalismo e di sperimentalismo.

Ingrassa, alza il gomito fuor di misura, si perde dietro le donnacce, parla sboccato? Dio mio! C'è da meravigliarsene? Bisogna pure che la giovinezza si scapricci e si sfoghi; non si è mai savii a venti anni. Che delirium tremens ci andate contando! Qualche scossettina di nervi; eh, via! Passerà. Le persone ragionevoli avrebbero detto cosí; ma fate capir questo ai dottori!

Psicologismo ci vuole! Serietà! Non siamo per niente nel secolo della scienza positiva!

Ed ecco come l'hanno conciato, povero diavolo!

Ebbene: se lo lasciassimo stare un po' tranquillo? Se gli permettessimo di seguire liberamente gli impulsi del suo istinto, della sua natura? Se invece di parlargli di ricostituenti idealisti o neo-cattolici, di sciroppi simbolistico-lirici, ci risolvessimo a dirgli:

– Su, caro amico, vivi, agisci come ti pare e piace; mangia quel che meglio ti garba, quel che piú si confà col tuo stomaco, e non dar ascolto a nessuno?

Scommetto che il povero romanzo contemporaneo non farebbe piú guadagnare neppure un soldo ai medici e agli speziali, e andrebbe attorno sano, bello, vigoroso come madre natura lo ha creato, con gran piacere di lui e di tutti noialtri.

Smettiamo il parlar figurato, ragioniamo seriamente.

Che ha da spartire il romanzo con la filosofia, con la scienza, con la religione? Dopo la mala prova del romanzo sperimentale escogitato dallo Zola, avremmo dovuto capirlo.

Già io credo che lo stesso Zola abbia mai preso sul serio la sua ricetta. Aveva bisogno di un motto, di una bandiera per mettere in vista l'opera sua; e, trovatasi tra le mani la Scienza sperimentale di Claudio Bernard, visto l'esempio del Taine che adattava, forzandoli un po', i criterii delle scienze naturali alle belle arti e alla letteratura, immaginatosi che un romanzo opera di arte e di scienza sarebbe stato certamente una bella novità, imbastí in fretta e in furia la teoria del romanzo sperimentale e la predicò ai quattro venti.

La novità c'era, senza dubbio, ma non era precisamente quella da lui bandita; non consisteva nel dimostrare per mezzo della finzione artistica un principio scientifico, ma piuttosto nell'assimilarsi il metodo di osservazione, dentro i limiti, s'intende, consentiti dall'indole e dalla natura dell'opera d'arte; anzi la precisa novità si riduceva alla coscienza piú chiara, piú categorica, del dovere dell'artista di dare al suo lavoro un fondamento di osservazione diretta e nel lasciare ai fatti, ai caratteri, alle passioni la loro piena libertà di azione, senza mescolarvi i suoi particolari criterii; insomma nell'imitare proprio la natura, che mette al mondo le creature e le abbandona a sé stesse, e al giudizio della società.

Tale cosa era avvenuta, da un bel pezzo, nel teatro; lo Shakespeare aveva praticato quel metodo in modo supremo.

Si trattava in fine di metterlo in pratica anche nel romanzo. Non era facile. Occorreva un genio per lo meno uguale a quello del gran tragico inglese, istintivo, incosciente come lui; e la Natura non si era trovata, chi sa perché, in caso di crearlo. Ma un'opera di arte ha piú genio di tutti gli artisti presi insieme; e il romanzo, visto che il suo uomo tardava a comparire, si è risoluto a tentare parecchie prove parziali, piú o meno estese, piú o meno riuscite, pur di raggiungere, in un modo in un altro, il perfezionamento del suo organismo. E l'ha raggiunto.

Una cosa però è il romanzo, e un'altra i romanzieri; non dobbiamo confonderli. E non si deve credere che l'organismo di un'opera di arte sia qualcosa di astratto, perché ha bisogno, per manifestarsi, di particolari incarnazioni nelle particolari opere di questo o di quell'artista. Niente di piú reale di questa creduta astrattezza che forma e realtà a migliaia di opere di arte, le quali rappresentano, come direbbero i metafisici, tutte le possibilità di essa, e avranno ancora molto da fare prima di giungere ad esaurirle.

I romanzieri naturalisti o sperimentalisti che si vogliano dire, mettevano in atto, esagerandola, come accade sempre, una di queste possibilità, e anche svisandola. Un'opera di pensiero – giacché la immaginazione è una forma inferiore del pensiero – non può non risentire le influenze dell'ambiente in cui viene alla luce. Correvano i bei tempi del naturalismo scientifico, del positivismo, e sarebbe stato assurdo pretendere che i romanzieri potessero fare a meno di servire ai loro lettori pietanze materialiste e positiviste. Ma lo sbaglio lo commetteva loro, non il Romanzo. Il Romanzo li lasciava fare perché ci aveva il suo tornaconto. I romanzieri confondevano il concetto materialista col metodo positivo: e intanto che essi commettevano l'imbroglio, il Romanzo però si serviva anche del metodo, lo metteva in evidenza, lo faceva insensibilmente penetrare nella loro coscienza; ed essi, non accorgendosi del tiro che veniva lor fatto, continuavano a ciarlare a tutto spiano di naturalismo, di positivismo, di verismo, di sperimentalismo e simili teoriche, le quali hanno poco o niente che vedere con l'arte.

In un certo paese di questo mondo, la questione è stata capita dirittamente; i novellieri e i romanzieri di quel paese non hanno infatti parlato di naturalismo o di sperimentalismo; e poiché pareva occorresse che mettessero fuori una bandiera anche loro, per avere un segno attorno a cui raccogliersi durante la mischia, inalberarono il vessillo del verismo, il quale accennava particolarmente piú al metodo che non alla materia di cui l'arte loro si serviva.

E in quel tale paese c'è stato qualcuno che ha applicato il metodo con rigore straordinario, raggiungendo quasi di primo acchito il limite oltre il quale l'opera d'arte, se imprudentemente vi si avventura, perde la sua caratteristica, diventa qualcosa di ibrido, d'infecondo, e corre pericolo di rimetterci la pelle.

Ma di quel povero paese e di quel tale qualcuno io non voglio neppur fiatare, per paura di sentir dire che voglio vantare i tagliatelli di famiglia.

E poi, non è passata in cosa giudicata che la letteratura narrativa italiana non conta niente? Siamo noi stessi i primi a proclamarlo dai tetti; e il voler ora insinuare che essa abbia qualche valore può sembrare aberrazione. Zitti, dunque!

Il povero romanzo contemporaneo vorrebbe comportarsi da indifferente con tutte le materie d'arte, materialismo, psicologia, idealismo, misticismo, neocattolicismo; ma inutilmente egli grida: – Sono Romanzo e tale voglio restare, unicamente romanzo, unicamente opera d'arte! – Nessuno gli bada.

Il bello poi è che i critici e il pubblico se la prendono con lui; quasi che il colpevole sia proprio lui e non i romanzieri mezzi artisti e mezzi scienziati, esseri neutri che non appartengono per ciò né alla scienza né all'arte; quasi che i critici non abbiano contribuito e non contribuiscano ogni giorno, dal canto loro, a ingarbugliare la matassa, a confondere i critici degli artisti e del pubblico.

Il Romanzo non c'entra per niente in questa baraonda. Egli non vorrebbe far altro che cavar fuori creature vive da qualunque materia; metterle al mondo con la stessa varietà, con la stessa prodigalità della Natura, ma superiori a quelle della Natura, perché non soggette alla schiavitú delle contingenze e alla fatalità della morte. Qualunque sia lo stato sociale, quali che siano i sentimenti, le passioni, le opinioni politiche, le credenze religiose, le convinzioni scientifiche dei personaggi, il Romanzo vorrebbe riprodurre non il meccanismo ma proprio la funzione normale o anormale di quegli elementi cosí disparati, nel loro cuore, nella loro mente e quindi nei loro atti e nella complicazione di questi...

Ma forse, lo lasciano liberamente agire?

E in questa opera d'impedire al povero Romanzo ogni naturale movimento, critica e pubblico sono cosí accecati, da non capire neppure gli scherzi che il Romanzo si permette, allucinandoli di tanto in tanto, facendoli andare in visibilio dietro apparenze di nuove forme, come è accaduto ultimamente coi romanzi russi.

II.

Bisogna innanzi tutto metter fuori di causa il publico, come dicono i legali. Egli legge, riceve impressioni, e non discute; o, se discute, ragiona senza sofistiche sottigliezze di scuole e di metodi, e soprattutto non confonde mai, o raramente, il concetto con la forma. Ne abbiamo uno stupendo esempio in Italia.

Nel piú bel tempo della nostra letteratura politica, quando la lirica, la drammatica, il romanzo erano avvisaglie, scaramucce, battaglie contro la dominazione straniera e l'influenza clericale, appaiono inattesamente i Promessi Sposi. Il pubblico non si cura dei lombardismi, né del concetto di rassegnazione cristiana che i critici vi scoprono; gli basta l'opera d'arte e lascia dire. Il Manzoni risciacqua in Arno la sua prosa; i critici, chi lo loda, chi gli rimprovera di aver guastato lo stile del suo romanzo: il pubblico gusta di piú in piú l'opera d'arte, e lascia dire. Viene il Settembrini e scomunica i Promessi Sposi come lavoro reazionario, appunto quando si gridava da ogni parte: O Roma, o morte! Per ammazzare qualunque altro romanzo, ci sarebbe voluto meno assai. Il pubblico sorride alla tirata dell'onesto patriotta, e continua a leggere i Promessi Sposi e ad ammirarli sempre, piú.

E quando un altro professore avea messo in un mazzo il Guerrazzi e il P. Bresciani, cioè il diavolo e l'acquasanta, il pubblico non si era scandalizzato e gli avea dato ragione. Gliela aveva anzi data anticipatamente, cominciando a lasciar da parte le Battaglie di Benevento, gli Assedii di Firenze, le Beatrici Cenci come armi già inservibili, da riporre nei musei per gli storici e per gli archeologi dell'avvenire.

Mettiamo dunque fuori di causa il pubblico.

Ecco un francese, critico di professione, che vuole spiegarsi il fenomeno dell'entusiasmo prodotto in Europa dai romanzi russi.

Quel critico è un ingegno sottile, e conosce benissimo la letteratura romanzesca del suo paese. Infatti egli scorge subito che le crisi di coscienza, le lotte dell'anima per affrancarsi dall'oppressione dei pregiudizi e delle convenzioni sociali sono concetti di antica data: tutta la produzione francese della metà di questo secolo n'è riboccante, dall'Hugo e dalla Sand al Balzac, al Flaubert e allo Zola. Egli crede per ciò, e mi servo delle parole della relazione citata, «che tutto il patrimonio di sentimenti e d'idee, di cui i romanzieri russi han dato per cosí dire la rifazione in una forma nuova, passando per piú vergini spiriti, arricchitosi di quelle speciali visioni e concezioni che ogni razza porta nella vita e nella storia, è parso un mondo affatto originale e diverso da ogni altro.»

Ho sottolineato io le parole: forma nuova per notare che il critico si è ingannato. Neppur quella forma è nuova; o meglio non era piú cosí nuova, come egli immagina, al tempo della sua prima rivelazione all'Europa. I romanzieri russi, quei due o tre romanzieri russi che sono davvero grandi artisti, avevano soltanto fatto sviluppare, per istinto piú che per riflessione, il germe della impersonalità artistica, che è la piú alta conquista del romanzo contemporaneo, il compimento assoluto del suo organismo. Necessità naturale, se mentre i romanzieri russi la mettevano in pratica senza anticipatamente discuterla, veniva discussa e messa in pratica nello stesso tempo in altri paesi di Europa e in Francia specialmente, quantunque per via indiretta, cioè col pretesto di voler ridurre il romanzo a una specie di succursale della scienza.

Il clamoroso successo dei romanzi russi non è provenuto soltanto dai concetti di crisi di coscienza, di lotte dell'anima, o dalle speciali visioni della razza dei loro autori, ma dal rigoroso metodo di osservazione e dalla straordinaria sincerità con cui era adoperato. Tanto è vero che, passata la prima impressione prodotta dall'esoticismo, le opere di quei due o tre romanzieri non hanno perduto niente, son rimasti dei capolavori. Per la stessa ragione tutta la fungaia degli altri romanzieri russi rivelata dopo è rimasta in seconda, in terza linea, anche in Francia, non ostante che la politica si sia mescolata un poco all'entusiasmo letterario. E per la stessa ragione le imitazioni, i rifacimenti, i riporti in diverso ambiente di quei concetti e di quei sentimenti non hanno attecchito. A questi altri romanzieri russi e agli imitatori manca la genialità, manca la coscienza della forma; non sono veri artisti, non sono sinceri. Il Gogol, il Tolstoi, il Dostojewscki concepivano anime e corpi russi, creature vive, e non si curavano di altro. I loro concetti, i loro sentimenti non riuscivano a manifestarsi senza la solidità della forma. Il giorno che uno di loro, il Tolstoi, preso da aberrazione religioso-umanitaria, non ha piú creduto sufficiente quella forma per esprimere il suo pensiero, ha rinunciato al romanzo; ed ha fatto bene. Tutti coloro che vogliono esprimere puramente un concetto dovrebbero imitarlo; facciano dei trattati, delle conferenze, degli opuscoli, delle prediche magari, ma non si servano del romanzo. La forma, cioè la creatura viva, è assai piú complessa del pensiero astratto. È del tal luogo, del tal tempo; ha troppe relazioni di eredità, di parentela, di condizioni politiche e sociali; troppe fatalità di vizii, di virtú, di passioni da poter essere l'espressione limpida e chiara di un concetto astratto. E quando quella creatura viva si è impossessata dell'immaginazione dell'artista non si lascia piú guidare o comandare; lei comanda e guida, lei agita, sconvolge, imbroglia e scioglie a modo suo gli avvenimenti, senza che l'artista possa disubbidire, se non vuole venir meno al suo dovere e cessare di esser tale.

Ora, se un critico fine e arguto come il Lemaître non ha veduto chiaramente questo, è assurdo pretendere che abbia a vederlo il pubblico che non fa il mestiere di lui e dei suoi colleghi, e non ha obbligo di farlo. Sono anzi costoro che gl'imbrogliano il cervello, classificando, distinguendo, creando specie e sottospecie, generi e sotto-generi di romanzo, secondo i concetti piú o meno abilmente trovati e messi in voga dai cercatori di novità, dai propugnatori di tesi.

Classificando a questo modo, si può andare all'infinito; e si capisce come un critico, quello prima citato, trovi da far le meraviglie per l'affermazione del Verga, che si possa scrivere un romanzo mistico con una forma naturalistica. Tutt'al piú, egli avrebbe potuto dire che il Verga non è stato preciso, e che invece di naturalistica avrebbe dovuto dire meglio: impersonale. Intendeva appunto dir questo: e forse l'accusa d'imprecisione è una meticolosità. Il Verga, che come artista sa il fatto suo, capisce benissimo che un romanziere ha l'obbligo di dimenticare, di obliterare se stesso, di vivere la vita dei suoi personaggi. E se tra essi c'è un mistico, il romanziere deve sentire e pensare come lui, non ironicamente, non criticamente, ma con perfetta obiettività, lasciando responsabile il personaggio di tutto quel che sente e pensa. In questo senso il romanziere non deve avere nessuna morale, nessuna religione, nessuna politica sua particolare, ma penetrarle e intenderle tutte, spassionatamente, almeno per quanto è possibile. Con questo mezzo soltanto egli potrà mettere al mondo non fantocci, non manichini vestiti con una o con un'altra foggia, atteggiati in una o altra maniera, ma creature libere, viventi nella elevata serenità dell'atmosfera artistica, veramente ideali, cioè veramente conformi all'idea. Con questo mezzo soltanto egli non dovrà stillarsi il cervello a proporsi tesi e risolverle, che è quanto dire tentar di fare opera vana a cui non basta la stessa scienza; può risolvere casi parziali, perché ogni individuo è un mondo a parte, la qual cosa significa tutt'altro che risolvere una tesi.

I romanzieri di nascita, i vari artisti hanno istintivamente orrore della tesi. Niente è piú mutabile del punto di vista da cui il pensiero umano, progredendo, guarda una tesi. La pretesa soluzione di oggi diventerà ridicola o assurda domani. Far dipendere la vitalità dell'opera d'arte dal valore problematico di una tesi è introdurre nell'organismo di quella un elemento di corruzione e di morte. Giacché la tesi è astrattezza, e per risolverla l'artista dovrà forzare, falsare la realtà, adattare caratteri, passioni, avvenimenti a uno scopo prestabilito, fare insomma opera artificiale o artifiziosa, il rovescio di un'opera d'arte.

I lavori d'arte di questo genere, quando sono produzione di un uomo d'ingegno, possono abbagliare per un po' di tempo, fare qualche rumore, ma alla fine svaniscono come ombre e non lasciano rimpianti. Potranno qualche volta interessare il psicologo, il psichiatra, e anche i curiosi di stranezze simili a quelle dei decadenti neo-cristiani.

Il nostro critico giudica cosí questi neo-cristiani: «Dove trovare in costoro il sincero sentimento del cristianesimo che rappresentò lo spostamento dell'ideale umano da qualche cosa d'insito alla vita stessa in un mondo ultra sensibile? Che vuoto quindi in questa tendenza letteraria! Il disfacimento dei suoi ideali si può constatare nell'Huysmans, uno dei piú nuovi suoi rappresentanti. Nel suo romanzo En route, in cui è descritta la crisi di un'anima che si rifugia dalle insidie e dalle suggestioni del mondo entro la fede dei padri, non si scorge la vittoria di questa nuova direzione contro la quale tutte le facoltà umane, passionali, carnali del protagonista si ribellano con una violenza inaudita; e si può dire che quel misticismo vi rappresenti un dilettevole esercizio retorico, una novità da réclame

E il critico ha ragione per questa ultima parte: ha torto, chiedendo la vittoria della nuova direzione. Non avrebbe dovuto chiedere altro all'infuori della piú grande sincerità possibile nello studio di quel caso particolare.

Ed esprimendo il voto, l'augurio per la forma futura del romanzo, egli non avrebbe dovuto accumulare, nelle poche righe citate da principio, tante astrattezze e contraddizioni che sono infallibile indizio della nebulosità e della inconsistenza del suo concetto. Chiamiamo pure superbo sogno il futuro romanzo. Ogni opera d'arte, su per giú, è un sogno ad occhi aperti; e, se si vuole, chiamiamolo anche simbolo, perché ogni opera d'arte non è la realtà ordinaria, ma la realtà immaginata, lavorata dalla fantasia, purificata, idealizzata. Ricordiamoci però che i vocaboli hanno un significato ben definito, e che l'adoperarli senza le dovute cautele può condurci a conseguenze funeste.

Il simbolo è opera d'arte primitiva. In esso il concetto, per speciali condizioni, non ha avuto tempo di condensarsi compiutamente nella forma; è rimasto trasparente; o, per condizioni ancora piú speciali, si è prestato a divenire trasparente senza sua colpa.

Prendiamo per esempio il mito di Psiche. Nella narrazione di Apuleio, Psiche non è ancora l'Anima, è una fanciulla come tutte le altre. La riflessione se ne è impossessata e ne ha cavato fuori qualcosa che poteva esserci o poteva benissimo adattarvisi; e da allora in poi, la forma, già inizialmente condensata, si è venuta sempre piú sempre piú assottigliando. La fanciulla di Apuleio infatti è divenuta un'astrazione nel poema del Laprade, cioè lo Spirito umano, che per la sua curiosità e per la sua smania dell'ignoto, viaggia attraverso la civiltà, a traverso le religioni, e si adagia finalmente in un panteismo indefinito. Pare un progresso ed è una decadenza. Non c'è piú la semplice creatura, né il suo concetto; a traverso la creatura scorgiamo il concetto, e quel po' che rimane della creatura sminuisce il concetto.

Prendiamo Prometeo. È dapprima un uomo, o un semideo. Nella trilogia eschiliana è una specie di gigante profeta. La riflessione vi ha lavorato attorno ed è già divenuto il pensiero umano in lotta con la potenza teocratica, con Dio stesso; né l'essere stato quasi confuso con Satana è la minore delle sventure che siano capitate a quella creazione primitiva. Primitiva fino a un certo punto, poiché le concezioni jeratiche non possono dirsi proprio primitive.

In ogni modo il simbolo è creazione ibrida. Non è assolutamente opera d'immaginazione, né assolutamente opera di riflessione. Noi abbiamo varcato questo punto intermedio; abbiamo dato all'opera d'arte la sua completa libertà, il suo perfetto organismo. Voler tentare un'opera d'arte dove l'immaginazione deve per forza creare esseri ibridi, è impresa di persone che sconoscono la natura dell'opera d'arte.

Se intendiamo dire con questo che l'opera d'arte ha terminato la sua funzione, diciamolo pure; ma io non so se diremo una verità. Certe quistioni bisogna lasciarle distrigare all'avvenire.

Restringiamoci al romanzo, che non è poi l'opera d'arte assoluta. Sarà un superbo sogno, dice dunque il nostro critico. E sia. Ma perché dovrà vestirsi di una prosa piú nitida del marmo? Piú fluente di qualunque reale corrente di acqua? Piú complessa e piú varia dei cieli notturni? Io confesso di non arrivare a intendere queste belle metafore.

Il romanzo, probabilmente, superbo o umile sogno, se vorrà e potrà rimanere romanzo, avrà la prosa che piú converrà al suo soggetto. Questa prosa non esisterà per sé stessa, ma pel soggetto; e sarà tale da non potersi affatto scindere da esso. Sarà forma nata in un parto con lui; sarà anzi talmente lui, da impedire che si possa fare distinzione fra essa e lui.

Il romanzo, probabilmente, se vorrà e potrà rimanere romanzo, non si metterà a servizio di questa o quell'idea, di questo o quel sistema; continuerà a sviluppare il suo organismo adoperando sempre meglio il metodo impersonale, divenendo sempre piú nazionale, anzi sempre piú regionale, per dare alle sue creazioni la stessa varietà e ricchezza delle creazioni della Natura.

E allora non si parlerà piú di crisi né di malattie ma di pienezza di salute; e i suoi medici potranno andare a riporsi, e i suoi speziali chiudere bottega.

Tanto, è inutile; neppur volendo, giungeremo ad ammazzarlo con le discussioni e gli intrugli critici. Ha la pelle dura il nostro amico. E quando sarà pieno di anni – è giovanissimo ancora – chi sa che sorpresa sarà capace di farci?

Io ne ho un vago sospetto, e un giorno o l'altro forse lo confiderò in un orecchio ai miei buoni lettori. Se mi ingannerò, peggio per me. Infine ho detto sospetto: non ho la pretensione di voler fare il profeta.





11 Da Gli ismi contemporanei, Catania 1898, pagg. 61 sgg.



12 La rivista contemporanea, anno 1, N. 1. La crisi del romanzo di Raffaele Gioffredi.



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