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Sette anni fa, a proposito d'un altro libro del D'Annunzio, Terra vergine, dove egli mostrava nella prosa, come saggio, tutte le sue stupende qualità di colorito e di evidenza e gli eccessi di forma e di esteriorità che caratterizzavano i suoi versi, esprimevo un voto e un augurio:
«Sarebbe bella se un giorno arrivasse a convincersi che in arte la vita è tutto, anche poesia; e che, potendo infondere nella semplice rappresentazione della realtà lo spirito creatore, il fare dei versi, pure bellissimi, non sia il meglio che egli possa fare».
Nella lettera dedicatoria del Piacere a Francesco Paolo Michetti, il D'Annunzio scrive:
«Io sono ora, come te, convinto che c'è per noi un solo oggetto di studi: la Vita».
Non è precisamente la convinzione che gli auguravo, ma è già molto per la lenta evoluzione del suo meraviglioso ingegno d'artista.
Il prosatore, nel nuovo libro, è tuttavia sopraffatto dal poeta: l'osservatore vi si lascia tuttavia prender la mano dal colorista e dallo stilista; la visione schietta e sincera dalla realtà vi è velata da un'importuna nebbia di lirismo che fa impazientire e produce stanchezza. Intanto molte solide qualità di narratore e di analizzatore vi si ammirano in pienissima fioritura o in isplendida maturità; e l'insieme ha un'impronta cosí schietta e cosí elevata di opera d'arte, e gli stessi difetti arrivano a parere talmente connaturali all'indole dell'artista e al soggetto da lui preso a trattare, che ne risulta un particolar gusto strano, quasi esotico, aggradevolissimo, e si sente la malsana voluttà di tornare a provarlo.
Malsana, sí; perché, nello stesso tempo che il lettore si lascia vincere dalla capziosa malia dell'artifizio squisito, ha la coscienza della vacuità di esso e dello spreco di tanta forza. E di mano in mano che scorge come l'artifizio abbia esercitato sulla mente dello scrittore lo stesso cattivo potere, e sia riuscito a impedirgli d'infondere nella sua concezione quella compiuta vitalità artistica della quale in parecchi punti del romanzo scappano fuori, quasi a dispetto di lui, bellissimi saggi; il lettore si stizzirebbe facilmente, se non riflettesse che c'è pure nello stesso artifizio un gran passo in avanti. In molti punti l'evoluzione dell'artista si rivela con deliziosa evidenza; e l'assistere al suo incompiuto processo diventa un estetico godimento, molto prossimo a quello che si proverebbe osservando l'evoluzione bella e compiuta. Intendo, si capisce, di un lettore che nell'opera d'arte non ricerchi soltanto la soddisfazione immediata di una curiosità sempre volgare quantunque in qualche modo intellettuale, ma sappia trovar l'interesse e la commozione artistica arche dove i lettori ordinari meno crederebbero che commozione ed interesse possano mai venir trovati.
Su la comune dei lettori il libro del D'Annunzio potrà esercitare attrattive e repulsioni egualmente forti ed egualmente giustificate. Molti si lasceranno abbagliare dai fulgori della forma, da quell'ostentazione di raffinato arcaismo che (bisogna convenirne) è seducentissimo se non si possiede una chiara nozione della essenziale natura dell'opera d'arte, cioè di quella efficace riproduzione del mondo esterno ed interno per cui l'arte, rinnovando il miracolo della natura, produce un organismo vivente. Molti altri si sentiranno nauseati dell'esplosione di sensualità, di voluttuosa raffinatezza nel vizio, compiacentemente ostentate e accarezzate, senza si vegga nessuna traccia di quella tristezza che ha spinto l'autore a studiare tanta corruzione e tanta depravazione e tanta sottilità e falsità e crudeltà vane per poi rappresentare tutta la miseria del Piacere.
Altri, e non pochi, terranno conto al poeta, diventato inattesamente romanziere, di quei capitoli, di quei brani dove la fortunata coincidenza del soggetto coi mezzi artistici da lui prediletti fa venir fuori una rappresentazione cosí geniale, cosí vigorosa, cosí fulgida, da compensarli abbastanza di quanto nel resto dell'opera può esservi, e c'è, di manchevole, d'incerto, e di fiacco. Giacché, dove quella fortunata coincidenza è avvenuta, gli splendori dello stile, la delicatezza dei sentimenti, fin la raffinatezza delle sensazioni son tali da rendere quelle pagine un'apparizione veramente eccezionale nella nostra odierna produzione letteraria. E questi lettori non dimenticheranno piú la gentile figura di donna Maria Ferres y Capdevila, scendente per la grande scala della villa di Schifanoia, mentre Andrea Sperelli l'attende nel giardino.
«Scendeva pianamente. Su la prima terrazza presso una delle fontane, si soffermò. Andrea la seguiva con li occhi, sospeso, provando ad ogni moto, ad ogni passo, ad ogni attitudine di lei una trepidazione come se il moto, il passo, l'attitudine avessero un significato, fossero un linguaggio.
«Ella si mise per quella successione di scale e di terrazze intramezzato d'alberi e di cespugli. La sua persona appariva e scompariva, ora tutta intera, ora dalla cintola in su, ora emergente con la testa fuor d'un rosaio. A volte l'intrico dei rami la celava per un buon tratto: si vedeva soltanto nelli spazii piú radi passare la sua veste oscura o brillare la paglia chiara del suo cappello. Come piú s'avvicinava, piú ella facevasi lenta, indugiando per le siepi, arrestandosi a guardare i cipressi, inchinandosi a raccogliere un pugno di foglie cadute. Dalla penultima terrazza salutò con la mano Andrea che l'aspettava ritto su l'ultimo gradino; e gli gettò le foglie raccolte, che si sparpagliarono come uno sciame di farfalle, tremolando, rimanendo qual piú qual meno nell'aria, posandosi su la pietra con una mollezza di neve.»
Né dimenticheranno piú il delizioso quadretto dove donna Maria, dopo aver aiutata la sua figlioletta Delfina a incoronare d'edera l'erma quadrifronte, accortasi dei versi scritti da Andrea sulla pietra, si china per leggerli.
«E subito, si mise in ginocchio su l'erba a leggere; curiosa, quasi avida. Per imitazione, Delfina si chinò dietro la madre, cingendole il collo con le braccia e avanzando il viso contro una guancia di lei e cosí quasi coprendola... Ella infatti, per gioco, voleva costringer la madre a restare in ginocchio. Le si abbandonava sopra e la premeva con le braccia attorno al collo, gridando fra le risa:
« – No, no, no; tu non ti alzerai.
«E come la madre apriva la bocca per parlare, ella le metteva su la bocca le sue piccole mani per impedir che parlasse; e la faceva ridere; e poi la bendava con la treccia; e non voleva finire, accesa e inebriata dal gioco.»
E la bambina lungo la passeggiata nel bosco?
«Si rimisero pei sentieri. Delfina ora parlava, parlava, abbondantemente, ripetendo senza fine le stesse cose, infatuata della cerva, mescolando le piú strane fantasie, inventando lunghe storie monotone, confondendo una favola con l'altra, componendo intrichi nei quali si smarriva ella stessa. Parlava, parlava, con una specie d'incoscienza, quasi che l'aria del mattino l'avesse inebriata; e intorno a quella sua cerva chiamava figli e figlie di re, cenerentole, verginelle, maghi, mostri, tutti i personaggi de' regni imaginarii, in folla, in tumulto, come nella metamorfosi continua d'un sogno. Parlava allo stesso modo che un uccello gorgheggia, con modulazioni canore, talvolta con successioni di suoni che non erano parole, nei quali esalavasi l'onda musicale già iniziata, come il fremito d'una corda nella pausa, quando in quello spirito infantile il legame tra il segno verbale e l'idea rimaneva interrotto.
«Li altri due non parlavano, né ascoltavano. Ma pareva loro che quella cantinela coprisse i loro pensieri, il murmure de' lor pensieri, poiché pensando essi avevan l'impressione come se qualche cosa di sonoro sfuggisse dell'intimo del loro cervello, qualche cosa che nel silenzio sarebbesi potuto fisicamente percepire; e se Delfina per poco taceva, provavano uno strano senso d'inquietudine e di sospensione, come se il silenzio dovesse rivelare e direi quasi denudare l'animo loro.»
Mi sembrano certamente molto scusabili coloro che si lasceranno lusingare dalla preziosità della forma, visto come questa riesca spesso a rendere con le sue sinuosità, col suo colorito sovraccarico, con le sue mezze tinte, con la stessa monotonia dell'artifizio, e mirabili impressioni di colori, di sapori, di suoni, di profumi, e quasi impercettibili gradazioni di sensuali godimenti. Reputo però non meno scusabili coloro che dalla larga e minuta analisi dell'erotico furore di Andrea Sperelli avrebbero voluto veder scaturire un proporzionato effetto psicologico, in guisa che il carattere del personaggio, ottenendo maggior espressione e piú rilievo, avesse potuto assumere un'altezza drammatica e tragica, quale parevan prometterla le parole citate dalla prefazione. Né avranno torto finalmente coloro che, in grazia del già ricevuto con artistica munificenza in regalo, si sentiranno disposti a perdonare al romanziere quanto aveva accennato di voler dare, quanto era anzi in obbligo di dare e che poi non ha dato.
Cosí il romanzo del D'Annunzio sarà stimato una bella opera d'arte, o una sconcia mostruosità morale, o un'opera mancata; e il diverso giudizio non andrà piú in là, cioè, non oltrepasserà la critica comune, superficiale, incompiuta, perché incompiute, superficiali e comuni sono state le opposte impressioni ricevute dal libro.
Pei pochi lettori di cui parlavo in principio, è un'altra cosa. Essi somigliano agli scienziati che, ricercando i misteri della vita, trovano piú agevole studiarne e sorprenderne le funzioni nell'organismo malato, che non osservarle nel sano. Dalla alterazione della salute, dal processo ricostituitore, dal risultato finale della malattia vien permesso di fare raffronti e deduzioni che lo stato fisiologico nasconde gelosamente all'occhio indagatore; e la scienza si giova di quelle osservazioni e di questi studi ad aiutare poi il còmpito della Natura medicatrice nello sforzo ch'essa va facendo per combattere la malattia ed espellerla dell'organismo. Allo stesso modo l'evoluzione incompiuta di un'artista, come si manifesta in un'opera d'arte non del tutto ben riuscita, porge la occasione di studiare consimili alterazioni e ricostituzioni nello organismo artistico; e la soddisfazione di sorprendere il processo vitale nello stato patologico, per quei raffinati osservatori è piú istruttiva, piú proficua e immensamente piú importante che non sarebbe l'assistere al muto mistero dell'assoluta sanità nell'organismo artistico perfetto.
Qualunque opera d'arte è, in fondo, un'individuale maniera di sentire e di ripensare il mondo e l'uomo, espressa cosí evidentemente con la parola da produrre una ripercussione identica in chi legge, quasi sensazioni e sentimenti gli arrivassero di prima mano.
Pel D'Annunzio del Canto Novo, di Terra Vergine e del Libro delle Vergini, la natura riducevasi, piú che ad altro, a un barbaglio di colori, a un'elegante combinazione di linee; e la figura umana appariva nel paesaggio soltanto come una macchietta pittorica da dar rilievo e valore a quell'ardita festa di colori e a quella gentile ondulazione di linee. Nessuna compenetrazione avveniva tra l'aspetto esteriore della natura e l'anima del poeta; nessuna commozione eccitavano in esso le figure femminili emergenti qua e là con notevole delicatezza di tratti, per esempio, quella di Lalla. Egli la vede alta nel peplo, con la castanea chioma abbandonata al bacio fresco del vento, disegnata, e potrei dire ritagliata, su lo azzurro cupo, fuor dalla roccia. E non sé medesimo gli passa pel capo d'immaginare ai piedi di lei, ma uno schiavo etiope dal felino occhio avvampante di desio, stringente in mano il lunato arco d'argento; e poi:
L'onde nel sole come serpi
immani
verdi s'incalzino a la spiaggia... Ridi?
Ne l'insueto saffico un'antica
Nient'altro. Cosí nella prosa.
Fra Lucerta, breve novella, è, piú che altro, un pretesto per dipingere l'erompente rigoglio d'un giardinetto di chiostro.
La infelice violata e moribonda, di cui ci si narra la storia nel Libro delle vergini, altro pretesto per schizzare e lumeggiare visioni di feste, di funzioni sacre, e paesaggi che opprimono o rimpiccioliscono, quando non giungono a nasconderla affatto, la figura umana che si vorrebbe veder campeggiante e dominante nel quadro. Poi, quasi tutt'a un tratto, ecco l'Intermezzo di rime, scoppio furente di sensualità, dove prendono un po' di movimento e di agitazione le figure di Iella e di Nara, e l'altra senza nome ma viva e reale piú di queste due. Parrebbe che qui la sensualità dovesse esercitare la sua azione un po' piú in là dell'epidermide, piú in là dei nervi tesi e solleticati; parrebbe, ma non è.
Sul divano di scarlatto
tutto a grappoli d'argento
ella adagia il sonnolento
capo stanco, un po' disfatto.
Ne' suoi tondi occhi di
gatto
il bagliore è semispento,
sul divano di scarlatto
tutto a grappoli d'argento.
Co 'l piacer fine de 'l tatto
a la gola, io l'addormento;
spira un fievole lamento
ella, e resta in quel dolce atto
su 'l divano di scarlatto.
Il verso è mirabile, specialmente in quella Venere d'acqua dolce che suscitò tanto scandalo. L'espressione afferra, stringe da vicino, si compenetra col concetto, scolpisce, cesella, comunica fin qualche breve illusione di vita alle figure, come poche volte era accaduto nella nostra poesia e da un pezzo. Ma soprattutto, lí e altrove, e piú evidente delle sue stesse figure, si scorge sempre il poeta, nell'atteggiamento in cui egli stesso si compiace di descriversi:
Tacito, su la vana opera,
in atto
d'artefice chinato su 'l gioiello,
per voi, madonna, vigilando, io tratto
ogni lamina a punta di cesello...
Le gemmee rime sprizzano
barbagli
d'iride, in mezzo a toni opachi d'oro,
su 'l molle raso ov'è trapunto il gallo.
Impetuosamente io su i fermagli
de l'ultima terzina ancor lavoro;
e mi stride ne l'impeto il metallo.
Questa voluttà di sensazioni par piuttosto pensata, che veramente sentita. Non oltrepassa il verso, non ci dà un palpito del cuore, un fremito dell'anima. E ci vien da sorridere, sentendogli dire che da quella putredine di fiori e foglie corrotte a cui egli paragona i suoi versi, da quella flora maligna esali un triste odore umano. Per poco non crediamo un facile vanto di fanciullo l'apostrofe ai bei corpi di femine attorcentisi con le anella di un serpe agile e bianco, dei cui allacciamenti si dice non ancora sazio; e quei fiorenti seni dall'erte punte su cui gli cade all'alba il capo stanco e pei quali gli è dolce cosí sfiorire!
È ben chiaro però che il mondo esteriore comincia ad attirarlo non unicamente come colore, come linea, e neppure come sola sensualità. Qualcosa fluttua qua e là non ben definita, una specie di smania di spingersi avventurosamente oltre quel limite, una trepida incoscienza di elevazione, di spiritualizzazione. Perciò egli torna alla prosa.
Artefice meraviglioso di versi, ha forse paura che il ritmo non lo costrirga talvolta a cedere un po' troppo alle sue pretese e a quelle della rima, e gli faccia dire ora piú, ora meno di quel che egli vorrebbe; mentre, invece, il periodo della prosa stretto o largo a piacere, duttile e docilissimo, gli lascia intera libertà, senza vietargli una certa sapiente cadenza melodica da non fargli rimpiangere il verso?
Può darsi. Sembra che, piú di tutto, lo attiri un vivo desiderio di accostarsi alla realtà e di renderla, come oggi si dice, oggettivamente. Nelle novelle che formano il volume del San Pantaleone questo desiderio e questo sforzo sono notevolissimi e dànno mirabili resultati; nel Martirio di Gialluca, per esempio, dove per infondere una maggiore efficacia al dialogo il D'Annunzio si serve (e pare una straordinaria arditezza, quasi una stonatura nel suo stile) del dialetto pescarese; e in quella Guerra pel Santo, dove le stonature son di diversa maniera.
«Tre lampade alimentate d'olio d'oliva, ardevano dolcemente nell'aria umida del sacrario; dietro un cristallo, l'Idolo cristiano scintillava con la testa bianca in mezzo a un gran disco solare.»
Le parole: idolo cristiano non diventano uno sbruffo d'acqua fredda buttato in viso al lettore, nel punto che si vuol farlo assistere a un'esplosione di fanatismo religioso intorno al sacrario del santo?
La novella che dà il titolo al volume comincia cosí:
«La gran piazza sabbiosa scintillava come sparsa di pomice in polvere. Tutte le case attorno imbiancate di calce avevano una singolare luminosità metallica, parevano come muraglie d'un'immensa fornace presso ad estinguersi. In fondo, i pilastri di pietra della chiesa riverberavano l'irradiamento delle nuvole e si facevano rossi come di granito; le vetrate balenavano quasi contenessero lo scoppio d'un incendio interno: le figurazioni sacre prendevano un'aria viva di colori e di attitudini; tutta la mole ora, sotto lo splendore del nuovo fenomeno crepuscolare, assumeva una piú alta potenza di dominio su le case dei Radusani.»
Descrizione eccessiva e inutile, perché l'azione comincia da lí a poco innanzi la chiesa, intorno a un pilastro del vestibolo.
Ma una ventina di pagine in là, il lettore però stupisce, sentendo un linguaggio diverso:
«Dal congiungimento nacque Anna; e fu nel mese di giugno del 1817. Siccome il parto veniva difficile e si temeva di qualche sventura, il sacramento del battesimo fu amministrato su 'l ventre della madre, prima che uscisse alla luce l'infante.
«Dopo molto travaglio, il parto si compí. La creatura bevve il latte dalle mammelle materne e crebbe in salute e in letizia.»
Cosí per quasi un centinaio di pagine, con ingenuità e semplicità che però stentano a parer sincere. Infatti, di tratto in tratto, il segreto della fattura si scopre.
«Nella chiesa già ardevano le lampade votive; e in fondo, a traverso i sette cancelli di bronzo, il busto dell'Apostolo luccicava come un tesoro. Le preghiere invocavano la benedizione celeste sul capo della figliuola. Nell'uscire, quando la madre bagnava la fronte d'Anna con l'acqua della pila, li strilli infantili echeggiavano a lungo per quelle navate sonanti come conche di metallo puro.»
Eppure lo sforzo fa impressione, e dimostra una gran padronanza dello strumento artistico anche nelle stesse affettazioni. Chi si aspetterebbe di sentirgli dire, a proposito di un cane, delizia di certe ragazze, e che sta per morire, una frase come questa?
«Natalia osava ridere, mentre quel povero Sancio moriva? Le innupte sensibili volsero un acre sguardo d'indignazione alla cognata irriverente e crudele.»
No; quantunque le figure già si disegnino nettissime, bene atteggiate, spicchianti in rilievo sul fondo, e negli Annali d'Anna ci sia il tentativo di lumeggiare un carattere, di studiare minutamente un'anima semplice e pia; no, egli non può, né sa ancora deliberarsi a buttar via tutti gli artifizi complicati della sua forma poetica. E, alla fine, si lascia andare, si abbandona, quasi stanco o seccato dello sforzo fatto. Allora, non solamente gli accade di riprendere a sfogarsi pienamente con la sua solita orgia di colori, di suoni, di odori, ma di raddoppiarne l'artifizio ma d'inventare nove preziosità di stile, d'immagini e novissime affettazioni, quasi intenda manifestare cosí quel bisogno di spiritualizzazione che, forse, non gli sembra di poter esprimere in altro modo. Appunto in San Pantaleone si delinea questa nuova fase di misticità della forma (non può chiamarsi altrimenti) omai cosí caratteristica nel D'Annunzio. E la leggenda di San Laimo navigatore sarebbe un curioso soggetto di studio per chi volesse osservare in che modo questo nuovo elemento, non ancora intieramente compenetrato con gli altri, germogli e si spieghi, per poi fiorire nelle meraviglie del Dolce grappolo e in tutto il libro d'Isaotta.
Ho detto: misticità della forma, perché l'arcaismo riflesso, voluto, rivelato dal D'Annunzio in questo suo ritorno al ritmo è, precisamente, una sua maniera di spiritualizzare la forma, di idealizzarla, di renderla qualcosa d'indipendente, di darle, direi quasi, personalità propria. E dicendo forma, intendo tutto; in un artista come lui la parola e il concetto si fondono, ma con naturale prevalenza della parola; la materia di un'arte – colore, marmo, bronzo, vocabolo – riman sempre qualcosa di piú visibile e di piú tangibile di quell'altro intimo elemento che la foggia.
Per questo il Libro d'Isaotta è una cosa squisitissima, probabilmente la cosa piú bella che abbia mai scritto il D'Annunzio, sia per le superate difficoltà del ritmo, sia pel concetto non meno musicale né meno impalpabile del verso, e altrettanto delizioso quanto i profumi esalanti da ogni strofa.
Come nel San Pantaleone incontriamo Commiato, brano del primo capitolo del Piacere, cosí nelle ultime parti che seguono il Libro d'Isaotta troviamo un accenno dei motivi che poi tenteranno di trasformarsi in organismo nel romanzo Il Piacere.
Ho detto: accenni di motivi, e non vorrei esser franteso.
Chi ha letto la Isaotta Guttadauro (un amatore d'ogni fina opera d'arte deve averla già letta) ha dovuto notare il grande stacco tra la prima e l'ultima parte del volume.
Il vero e proprio Libro d'Isaotta è una cosa speciale, un capriccio artistico fuori d'ogni realtà, un sogno del Rinascimento, dove la mitologia classica e le fantasie cavalleresche ricercano un innaturale connubio, proseguendo ibridismi di forma, come oggi si ricercano ibridismi di fiori. Il resultato è tanto piú bizzarro e piú interessante, quanto piú agli elementi greci e latini e del Rinascimento si mescola qui un altro elemento: la riflessione che vuol ripetere, senza la primitiva spontaneità incosciente, la produzione di una forma, pure ingegnandosi di dare l'illusione dell'incosciente spontaneità. Cosí tutta l'originalità del lavoro consiste in una specie di contraddizione, che può venir gustata dagli artisti soltanto; da coloro che, conoscendo tutti i misteri della tecnica, trovansi nel caso di apprezzare giustamente, dagli effetti ottenuti, l'altissimo valore di quello.
Perciò lo stacco produce meraviglia nell'Intermezzo mèlico e nei componimenti che gli fanno seguito, allorché spunta tutt'a un tratto una nota insolita, un vivo riflesso di vita reale, e ai boschi incantati, alle fate, ai paesaggi fantastici si sostituiscono Villa Ludovisi, Piazza Barberini, l'Arco dei Pantani, il severo paesaggio dei dintorni di Roma, e quella che nel romanzo egli chiamerà latinamente: l'Urbe, per esprimere con un solo vocabolo la sua ammirazione d'artista:
Nei religïosi albori
sorge Roma augusta e mite;
e le sue cupole ardite
prende il sole, e i vasti fôri,
augurando ai nostri amori!
E poi: tutta la gran piazza di Spagna aulisce al sole come un rosaio, e la tripla scala della Trinità accesa dai novelli fochi ride, mentre l'obelisco, che par fiorito, gioisce, come un roseo stelo, nell'azzurro; e odesi a piè dell'alta scala la fontana mormorare e veggonsi scintillare al sole le acque scroscianti nella barca del Bernini.
In sua gloria la Madonna
sorridendo benedice
di su l'agile colonna
lo spettacolo felice.
Cresce il sole per la piazza
dilagando in copia d'or.
È passata la mia bella,
e con ella va il mio cor!
Chi è passata? Donna Maria Ferres y Capdevila o donna Elena Muti, le due eroine di Piacere?
A chi ha già letto il romanzo parrà quasi di riconoscerle tutt'e due in quei dolci ritrovi, in quelle dolcissime passeggiate di amanti; e gli parrà anche di leggere non una lirica di Gabriele D'Annunzio, ma qualcuno di quei componimenti poetici che Andrea Sperelli scriveva e faceva stampare in belle edizioni da bibliofilo, come la Favola dell'Ermafrodito, e in pochissime copie, al pari delle prove avanti lettera delle sue stupende acqueforti.
Non è forse Andrea Sperelli, il raffinato e corrotto amatore di cui il neo-romanziere ha impreso a narrarci le gesta, colui che ha scritto la strofa di questo rondò?
Quante volte, in sui
mattini
Chiari e tiepidi, io l'aspetto!
............................................
Su la piazza Barberini
S'apre il ciel, zaffiro schietto.
Il Tritone del Bernini
Leva il candido suo getto.
I nudi olmi ai Cappuccini
Metton già qualche rametto.
............................................
Come il cor mi balza in petto
Se colei vedo, che aspetto!
Non pare proprio di lui la romanza che segue?
Vi sovviene? Fu il convegno
sotto l'arco dei Pantani.
Voi saltando giú dal legno,
mi porgeste ambo le mani.
..........................................
Voi chiedeste, con un riso
nei belli occhi: – Dunque andiamo?
Era bianco il vostro viso,
bianco assai. Risposi: – Andiamo –
Ma facean altre parole
gran tumulto in fondo a me.
Le contenni: il cuor nel petto
con che furia mi batté!
E non è una passeggiata fino alla piccola chiesa di San Giorgio, con donna Elena Muti o con donna Maria Ferres, quella che egli continua a descrivere con semplicità rara, efficacissima?
I mattoni bisantini
rilucean vermigli al sole
come fosser pietre fini,
carboncelli o corniole.
Oh San Giorgio benedetto!
Ivi alfin l'amor s'aprí.
Dolci cose io vi parlai.
Piano voi diceste sí.
E nell'altra romanza? Bisogna citare ancora:
Su l'Aventino ardeva
lento il giorno; e una gloria
come di bianche rose
versava il cielo...
Al pian nebbie leggere
si spandeano da 'l fiume,
.......................................
Dietro, grandi e vermigli
tra i cipressi, i palagi
su 'l colle imperiale
parean arsi da chiusi
fochi... In un sol confusi
romor profondo eguale,
suoni d'opere umane
salian dalla vicina
ripa; a Santa Sabina
squillavan le campane.
E chi legge il romanzo s'avviene in questo richiamo:
«D'intorno, i fiorai andavano offerendo in canestri le giunchiglie gialle e bianche, le violette doppie, lunghi rami di mandorlo. Un fiato di primavera passava per l'aria. La colonna della Concezione saliva agile al sole, come uno stelo, con la Rosa mystica in sommo: la Barcaccia era carica di diamanti: la scala della Trinità slargava in letizia i suoi bracci verso la chiesa di Carlo VIII erta con le due torri in un azzurro annobilito dai nuvoli, in un cielo antico del Piranesi.
« – Che meraviglia! – esclamò Donna Maria – Avete ragione d'essere tanto innamorato di Roma...»
E in quest'altro:
«Una sera, tornavano a cavallo dall'Aventino, giú per la via di Santa Sabina avendo ancora nelli occhi la gran visione dei palazzi imperiali incendiati dal tramonto, rossi di fiamma tra i cipressi nerastri che penetrava una polvere d'oro... E subitamente spinse al trotto il cavallo. Dietro loro, le campane di Santa Sabina e di Santa Prisca cominciavano a suonare, nel crepuscolo... Si fermarono all'Arco dei Pantani, dove li attendevano gli staffieri e le carrozze.»
E in quest'altro:
«La mattina dopo, egli andò, verso le undici, a piedi, lungo la via Sistina, per la piazza Barberini e su per la salita, Era un cammino ben noto (sottolineo io) Gli parea di ritrovare le impressioni d'una volta: ebbe un'illusione momentanea: il cuore gli si sollevò. La fontana del Bernini brillava singolarmente al sole, come se i delfini, le conchiglie, il Tritone fosser divenuti d'una materia piú diafana, non pietra e non ancor cristallo, per una metamorfosi interrotta.»
L'accenno ch'egli fa nella lettera dedicatoria al Michetti:
«Siamo in verità assai lontani dal tempo in cui, mentre tu nella galleria Sciarra eri intento a penetrare i segreti del Vinci o di Tiziano, io ti rivolgeva un saluto di rime sospiranti
all'Ideale che non ha tramonti
alla Bellezza che non sa dolori!
(e questi versi sono appunto in una lirica in fondo al volume Isaotta) tal accenno, dico, darebbe una definitiva conferma della derivazione del romanzo Il Piacere da quest'ultima fase poetica, se non ci fosse ancora di piú; se un'altra lirica, Gorgon, fin col mistico titolo, non desse il nodo del pathos di Andrea Sperelli, il motto rivelatore di tutto l'organismo del libro.
Ella tacque. Io la guardava.
In quell'attimo confuse
le nostre anime rimasero.
Io non seppi dirle: – V'amo.
Ella, forse paventando
l'ora, disse: – Rientriamo;
È già tardi. Io vi saluto. –
E tendendo la sicura
man, sorrise un'altra volta.
Quindi uscí.
La sua figura
ondeggiava alta ne 'l passo,
con un ritmo affascinante.
Un pensier dolce mi venne:
– Io sarò forse l'amante;
io felice le mie notti
dormirò sopra il suo cuore! –
Ah perché voi mi fuggiste?
Ebro, come d'un liquore
troppo forte, ebro di voi,
de 'l ricordo di voi, sento
da quel giorno in tutti i baci,
sento in ogni blandimento
feminile, sento in ogni
voluttà piú desiata,
o signora, voi, voi sola;
voi che tanto avrei amata!
Un rapido schizzo della tela del romanzo basterà ora anche per quei lettori che non hanno ancora avuto il tempo di leggerlo.
La famiglia Sperelli, napolitana, apparteneva a quella classe d'antica nobiltà italica in cui era tenuta viva, di generazione in generazione, una certa tradizione familiare di eletta cultura, di eleganza artistica. Il conte Andrea «era, per cosí dire, tutto impregnato d'arte.» Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte.» Gli aveva anche detto: «Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà fin nell'ebrezza.» Ed aveva soggiunto: «Il rimpianto è il vano pascolo di uno spirito disoccupato. Bisogna soprattutto evitare il rimpianto, occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove imaginazioni.» Morto il padre, passata a seconde nozze la madre, egli venne a Roma, per predilezione. Sopra un albo di confessioni mondane, alla domanda: «Che vorreste voi essere?» aveva risposto: «Principe romano.»
E, poiché l'autore si compiace di farci l'analisi del suo personaggio, togliamo in prestito altre sue parole:
«Certo egli ora entrava in un novello stadio. – Avrebbe alfin trovato la donna e l'opera capaci d'impadronirsi del suo cuore e di divenire il suo scopo? – Non aveva dentro di sé la sicurezza della forza, né il presentimento della gloria o della felicità. Tutto penetrato e imbevuto d'arte, non aveva ancora prodotto nessuna opera notevole. Avido d'amore e di piacere, non avea ancòra intieramente amato, né avea ancor mai goduto ingenuamente. Torturato da un Ideale, non ne portava ancòra ben distinta in cima dei suoi pensieri l'imagine... Nel tumulto delle inclinazioni contraddittorie egli avea smarrito ogni volontà, ed ogni moralità. La volontà, abdicando, avea ceduto lo scettro agli istinti; il senso estetico avea sostituito il senso morale.»
Aveva già avuto varie amanti. Incontrando però donna Elena Muti, duchessa di Scerni, disse: «Ecco la mia donna.» E da lí a poco fu sua. L'amava? Era amato? Pare di sí. «Un bacio li prostrava piú d'un amplesso. Distaccati, si guardavano, con gli occhi fluttuanti in una nebbia torpida. Ed ella diceva, con la voce un po' roca, senza sorridere: Moriremo.» Poi, un giorno, tornando da una passeggiata a cavallo, Andrea, vedendola muta, le domandò ripetutamente:
« – Che pensi?
« – E bene, te lo dirò. Io parto mercoledí, non so per quanto tempo; forse per molto, forse per sempre, non so. Quest'amore si rompe per colpa mia; ma non mi chiedere come, non mi chiedere perché, non mi chiedere nulla: te ne prego. Non potrei risponderti.»
Egli, che credeva morirne, si consola presto, dimentica presto, o almeno cerca di consolarsi e di dimenticare con donna Ippolita Albonico. Ma fatti appena i primi passi, inciampa in un duello con un rivale e rimane ferito gravemente. Nella villa di Schifanoia, ospite di sua cugina la marchesa d'Ateleta, insieme col ritorno delle forze fisiche, prova nell'animo e nel cuore un ritorno all'arte, all'ideale, una mistica elevazione di tutto l'esser suo. Ahimé! Anche questa va a finire quasi subito in un'altra avventura d'amore.
Le prime fila s'intrecciano lungo i profumati viali del giardino di Schifanoja, tra le ombre deliziose del bosco, nella serenità della villeggiatura; idillio, quale poteva accadere tra due persone di straordinaria raffinezza nella coltura e nei gusti; idillio in cui la gentile figura di donna Maria Ferres spande attorno un'irradiazione purificatrice, e che intanto la snerva, la spossa; e, quando torneranno a rivedersi in Roma, la metterà in balía di un ingannevole miraggio di misericordia e d'immolazione:
« – A poco a poco io lo salverò.»
Troppo tardi. Andrea Sperelli ha riveduta Elena Muti, divenuta lady Heatfield, e si è sentito avvampare dal desiderio di possederla di nuovo. Cosí, per un perfido gioco della sua immaginazione di artista, per quel fascino di simbolismo che gli soggioga l'anima nello stesso tempo che gli acuisce i sensi, durante il suo lavoro di seduzione attorno a Maria Ferres (la quale sembra assapori con voluttà la lentezza della propria caduta) egli è assediato, tormentato dalla rinascenza della sua antica passione che il reciso rifiuto di Elena eccita maggiormente. E mentre un soffio di lirismo, di misticismo poetico la conduce fino a fargli spargere, di notte, un fascio di rose bianche su la neve dinanzi alla porta di Maria Ferres, come un omaggio; quell'altra che gli si piega, dopo d'esser tornata a inebriarlo con una visita nello stesso salotto del palazzo Zuccari già consapevole di tante delizie d'amore, lo fa fremere sotto l'ansia d'una fallace promessa. E piú la sua «intelligenza gli fa trovare in fondo a ogni atto, a ogni manifestazione dell'amor di Elena, l'artificio, lo studio, l'abilità, la mirabile disinvoltura nello eseguire un tema di fantasia, nel recitare una parte drammatica, nel combinare una scena straordinaria» piú gli si accende nel cuore il malefico desiderio «di riprendere soltanto il possesso materiale della bellissima donna, di trarre dalla bellezza di lei il maggior possibile godimento, e quindi esserne per sempre liberato dalla sazietà.»
Calcolo sbagliato. Lo invadeva, invece, «un rincrescimento non bene definito, ma in fondo a cui si movevano forse, confuse con le memorie, la gelosia, l'invidia e quella suprema intolleranza egoistica e tirannica che lo spingeva talvolta a desiderare quasi la distruzione d'una donna già preferita e goduta, affinché ella non fosse piú goduta da altri.»
Questo vile sentimento si traduce in una perversione di cuore e di sensi di cui la povera donna Maria ha il fosco presentimento e di cui riman vittima. In quel consapevole salotto, la sera che Maria vi venne la prima volta, egli confondeva in un unico abbraccio reale e ideale le due donne, e quasi godeva piú del corpo dell'assente che non di quello della presente. «A un tratto ebbe un sussulto. Aveva sentito su le labbra palpitare rapidamente i lunghi cigli di lei, a similitudine di un'ala irrequieta. Era una carezza strana, che dava un piacere insostenibile, era una carezza che Elena un tempo soleva fare ridendo, piú volte di seguito, costringendo l'amante al piccolo spasimo nervoso della vellicazione; e Maria l'aveva appresa da lui, e spesso egli sotto una tal carezza aveva potuto evocare l'imagine dell'altra.»
Allora un furore bestiale lo prende, quello di farle ripetere tutte le cose fatte dall'altra; il the sorbito dalla bocca di quell'altra, le parole: Mi piaci!, che gli aveva detto l'altra. «Egli la strinse di nuovo fra le braccia, la stese, la coprí di baci furiosi, ciecamente, perdutamente, con un divorante ardore, senza parlare, soffocandole il gemito su la bocca, soffocando su la bocca di lei un impeto che gli veniva, quasi invincibile, di gridare il nome di Elena!...»
Un sacrilegio!
Ebro, come d'un liquore
troppo forte, ebro di voi,
del ricordo di voi, sento
da quel giorno in tutti i baci
sento in ogni blandimento
femminile, sento in ogni
voluttà piú desiata,
o signora, voi, voi sola!...
E il giorno appresso, «smarrita, sbigottita, innanzi al cupo ardore del forsennato, ella gridava:
« – Ma che hai? Ma che hai?
«Ella voleva guardarlo nelli occhi, conoscere quella follia; ed egli nascondeva il viso, perdutamente, nel seno, nel collo, ne' capelli di lei, ne' guanciali.
«A un tratto, ella gli si svincolò dalle braccia, con una terribile espressione d'orrore in tutte quante le membra, piú bianca dei guanciali, sfigurata piú che s'ella fosse allora allora balzata di tra le braccia della Morte.
«Quel nome! Quel nome! Ella aveva udito quel nome!»
Questo è il nodo del romanzo. La sua derivazione dalle liriche da me citate mi sembra evidentissima. E quest'ultima è la parte piú vera, piú viva del libro, la piú profondamente osservata, la piú efficacemente resa.
Non c'è che dire: il romanziere ha studiato la vita. E se l'ha studiata e sorpresa in flagranti dentro il suo stesso cuore, come provano quelle liriche, e come talvolta egli si compiace lasciar trasparire, tanto meglio. Ma, forse, appunto perché il caso è troppo recente, non ha ancora avuto il tempo di mutarsi in ricordo, la realtà non è riuscita a trasformarsi pienamente in fantasma artistico, libero d'ogni dipendenza, esistente da sé, fuori della personalità dell'artista. Anzi questa personalità, tuttavia troppo invadente, non copre soltanto la figura del personaggio principale, ma si riversa, si effonde su tutto e su tutti, fino a ridurre il romanzo una bizzarra e potente condensazione dell'intiero lavoro artistico dell'autore.
Se non temessi di stancare la pazienza dei lettori, potrei facilmente radunare riscontri di tutte le grandi e piccole forme, dalle rappresentazioni della natura e degli uomini alle movenze dello stile e della parola. Né sarebbe opera inutile; perché da essi verrebbe fuori, se non m'inganno, la ragione intima d'ogni difetto del Piacere e rifulgerebbe maggiormente la conquista, già fattavi dall'artista, di forme superiori, lietissimo augurio per l'avvenire. Il lettore se ne avvedrà da sé, leggendo il capitolo ottavo e le cento trenta pagine che vanno dall'undecimo al penultimo, bellissime.
Sono però capitoli, pagine, parte piú o meno estesa di un'opera d'arte, e che fanno maggiormente rimpiangere la mancanza dell'opera d'arte completa. Concentrando tutta la luce sul protagonista, lasciando nella penombra le altre figure, anche le piú importanti – donna Elena e donna Maria – e facendoci sapere di esse solo quel tanto che ha stretta relazione con quello, l'artista rimane nei limiti del suo diritto. Fargliene una colpa sarebbe pedanteria, se Andrea Sperelli fosse riuscito una creatura organata; se, con tutta la luce rivolta su lui, molte ombre non ne celassero tuttavia i lineamenti, o per lo meno non li velassero; se il pathos di costui, anima non volgare, intelligenza fine, immaginazione squisita, cuore sensibile, volontà fiacca, personalità squilibrata, si svolgesse intiero sotto gli occhi del lettore; o, almeno, se dai casi raccontati e rappresentati risultassero tali e tanti elementi che questi potesse, alla fine, sotto l'influsso della suggestione, finir di crearsi il personaggio da sé.
E di nuovo mi tornano in mente il mio voto e il mio augurio di sette anni fa: Se il D'Annunzio arrivasse a convincersi che in arte la vita è tutto, anche poesia! – Esser convinto che per l'artista c'è un solo oggetto di studio, la Vita, no, non basta. Molti la osservano piú seriamente di un artista, e intanto sono incapaci di infondere in quel materiale il soffio creatore. Quei personaggi visti vivere devono rivivere in un'altra luce piú pura, incorruttibile. L'artista, che ha dato ad essi la sua carne, il suo sangue, l'anima sua, dee vedere staccata e indipendente da lui la sua prole, sempre carne e sangue suo, come i figli sono carne e sangue dei padri. Il D'Annunzio già tende a questo; anzi si è accostato alla mèta e ben piú d'una volta è riuscito a toccarla. Guardando con occhio attento, si può trovare una ragionevole spiegazione di alcuni difetti del romanzo, soltanto nell'ipotesi che egli abbia qui riversato, per liberarsene, quanto aveva già accumulato, di tentativi, di ricerche, di preziosità, di eccessi nelle concezioni precedenti e nelle loro forme. Certe insistenze, certe calcature direbbonsi un'assurdità in cosí fino e potente artefice, se non fossero fatte a posta, proprio per dispregio di esse, per metterle fuori e purgarsene. E quest'albero carico di fronde e di frutta, fatto cosí crescere quasi per violenza di cultura, io desidererei fosse precisamente quello della sua bella Parabola:
Sarò come colui che si distende
sotto l'ombra d'un grande albero carco,
ormai sazio di trar balestra ed arco
e in su 'l capo il maturo flutto pende.
Non ei scuote quel ramo, né
protende
la man, né veglia in su le prede al varco.
Giace; e raccoglie con un gesto parco
i frutti che quel ramo a 'l suolo rende.
Di tal soave polpa ei ne 'l
profondo
non morde, a ricercar l'intima essenza,
perché teme l'amaro; anzi la fiuta,
poi sugge, con piacer limpido, senza
avidità, né triste, né giocondo.
La sua favola breve è già compiuta.
E poiché il citare da lui è tanto piacevole, farò un nuovo augurio alla sua arte con altri suoi nobili versi:
O buono
Spirito de la terra, e tu rinnova
La sua vita! Fa' lei piú pura e forte!