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Da due mesi Menu era dallo zi' Carta un po' da contabile, un po' da giovane di bottega.
Stava ancora con l'animo sospeso, e squadrava da capo a piedi gli avventori che affluivano, specialmente quelli che erano decentemente vestiti e portavano fagotti e panieri in mano.
Si divertiva un po' occupandosi a disporre nelle ceste gli aranci avvolti nella carta stampata a colori diversi; formava disegni a croce, a rosoni, a circoli, perché allettassero l'occhio dei compratori, secondo la qualità, secondo il prezzo; e in ogni cesta metteva un arancio senza involucro, per mostra.
Così pei limoni, pei cedri, per le cassette di uva passa, di fichi secchi.
Quando non aveva da fare, si sedeva sull'uscio dalla parte interna, e leggeva il giornale allo zi' Carta, che ora lo comprava ogni giorno, e voleva le notizie della Talia, della Siggilia, maravigliandosi che quei bestia dei giornalisti non dessero neppure notizia di Ràbbato, come se non esistesse.
E un giorno che il foglio riportava un dispaccio con l'annunzio di una scossa di terremoto avvenuta colà, la compiacenza dello zi' Carta fu tanta, che si lasciò scappare di bocca:
«Ci vorrebbero almeno tre terremoti al mese per sapere qualcosa di lassù!»
Ma soggiunse subito:
Già Ràbbato lo aveva tutti i giorni sotto gli occhi nelle due larghe cartoline affisse al muro, insieme con l'immagine di sant'Isidoro, com'era nel quadro dell'altare maggiore della sua chiesa, con gli angioli che aravano mentre il santo glorioso faceva orazione, e il re, venuto a certificarsi del miracolo, apriva le braccia e spalancava gli occhi, che pareva proprio vivo.
«Cose dei tempi antichi. Oggi santi non ce ne sono più!» concludeva ogni volta che si raccomandava al santo Patrono perché lo aiutasse a far prosperare il suo negozio.
E poi, occorrevano forse le cartoline e le immagini del santo per ricordarsi ogni giorno di Ràbbato?
Non ne passava uno che egli e Menu non si sentissero salutare da qualche «americano» del paese:
«Ah! Sei ancora qui? Ti credevo già andato via».
«Salutiamo, zi' Carta! Tu sei nipote di zi' Santi Lamanna, mi pare».
«Sì», rispondeva Menu.
Di tanto in tanto, ecco Nascarella col suo organino, e la moglie e la figlia che cantava in siciliano, storpiando le canzonette napolitane. Si fermavano davanti ai caffè, davanti alle osterie della via e la gente usciva fuori per guardare quella ragazza che si sgolava, contorcendosi, ballando, facendo scoppiettare le castagnette, con gran stupore di Menu che vedeva Nascarella travestito da napolitano, coi fiori al cappello, e le due donne coi cappellini sgualciti infiorati stranamente, e certe vesti rosse e verdi evidentemente comprate da un rigattiere. Agli americani dovevano però sembrare proprio costumi napolitani, si divertivano allo spettacolo, a star a sentire, e buttavano bei soldi nel piattino delle donne che andavano attorno e raccattavano a terra quelli che piovevano dalle finestre piene di curiosi.
Nascarella, per saluto al paesano faceva una breve sosta davanti alla bottega dello zi' Carta e le due donne accettavano volentieri un regalo di arancie sbucciandone qualcuna, e mangiandola: per rinfrescarsi la gola, diceva la ragazza. Qualche volta accadeva di veder passare tre quattro poveri rabbatani che parevano sperduti, e con la fame sul viso. Lo zi' Carta li riconosceva agli abiti, alle mosse, e non s'ingannava mai, preso da grande pietà per quei disgraziati.
«Voi siete di Ràbbato?»
«Sissignore!»
«Io sono lo zi' Paolo Carta; e questo è nipote dello zi' Santi Lamanna».
«Ah!»
Quei poveretti quasi non credevano alla fortuna di avere incontrato due compaesani.
«Siamo stati ingannati. Ci hanno lasciato in mezzo a una via. Non sappiamo come fare».
«Vi condurrò io dal commissario... Intanto... Venite con me...»
Li faceva entrare nella vicina osteria.
«Prendete un boccone. Se non ci aiutiamo tra noi! Non sono ricco...».
Così ne aveva consolati parecchi, trovando di collocarli bene, di salvarli dalle unghie degli sfruttatori.
Menu, che passava tutte le domeniche in compagnia di Santi, aveva riveduto due sole volte Stefano dalla mattina in cui erano stati a colazione nell'osteria di compare Cheli Murabitu.
La prima volta era venuto col pretesto d'informarsi se miss Stoppa fosse tornata.
«Io avrei da collocarti come fattorino in una banca; poi potresti passare ad usciere e andare su su, se sapresti fare».
«Che banca?» aveva domandato lo zi' Carta. «Di quelle che falliscono a ogni sei mesi?»
«Voi non ve n'intendete».
«Lasciane la cura a Santi. Se lo prende a proteggere la figlia del suo padrone...»
«Sarà un pulcino... nella stoppa», sghignazzò Stefano.
«Hai voglia di chiamarla miss Stoppa! Quella ci ha qualche milioncino che non avremo mai né tu né io».
«Suo nonno vendeva cerini, dicono».
«Questo le fa onore».
«Diglielo a Santi che il posto è pronto. Avete sentito, zi' Carta? Hanno accoltellato il mascalucioto».
«Dopo che gli hanno ammazzato la moglie e la figlia!»
Aveva dato la notizia sul punto di andar via.
«Se la caverà con trenta giorni all'ospedale. Vi saluto, zi' Carta. Se scrivi al nonno e alla mamma...»
«Tu non hai mani per prender la penna?»
«La zappa m'insegnò il nonno, zi' Carta».