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32. Un brutto guaio per Stefano!
Lo stesso giorno egli apprendeva da un giornale che Stefano era stato gravemente ferito in rissa e che si trovava all'ospedale della colonia italiana tra la vita e la morte. Aveva ferito anche lui, e perciò un policeman lo guardava a vista.
La rissa era avvenuta in un negozio di rigattiere al n. 30 di Mulberry Street e il giornale faceva credere che fosse nata per dissensi sorti nella divisione di danaro e di oggetti furtivi.
Presso il rigattiere ne erano stati sequestrati parecchi ed egli non aveva saputo giustificare la provenienza.
Santi si sentì salire vampe di rossore al viso, vedendo il nome di suo fratello mescolato con quello di coloro che il giornale chiamava vecchi arnesi di prigione. Pensò al nonno e alla mamma che forse la malignità di qualche compaesano non avrebbe tardato d'informare della disgrazia di Stefano, e gli vennero le lacrime agli occhi.
Il giornale parlava di feriti gravi. Santi corse alla bottega dello zi' Carta. Trovò Menu che piangeva in un canto con le mani sul volto. Aveva letto, poco prima, la triste notizia anche lui.
«Zitto, non è niente! » disse Santi accostandosi al fratello. «Ora andremo a vederlo».
«Una volta o l'altra», fece lo zi' Carta, tentennando la testa, «qualcosa doveva accadere. Il meno sono le ferite. Stefano deve avere in tasca la ricetta del poeta Paolo Maura:
Stativi allegru, signuri cumpari,
L'omini mali nun ponnu muriri!
Dico per dire. Gli servisse almeno di lezione!»
Lo zi' Carta sbrigava alcuni avventori; ma pesando e avvolgendo nella carta straccia fichi secchi e uva passa continuava a parlare con Santi.
«Non mi vogliono lasciare in pace. Ieri ho ricevuto con la posta un'altra lettera di minaccia. Dice che non hanno paura della polizia... Un quarto di dollaro... Ma io voglio vederla tutta! Che ci sta a fare la polizia, se non garantisce le sostanze e la vita dei cittadini? Venti, cento... Ah, caro mio! Un cantuccio di Ràbbato, con tutti i guai della miseria, vale assai più di questa babilonia qui!»
«Io non posso dirne male», rispose Santi. «Lavoro, mi faccio i fatti miei, quel che guadagno con le mie braccia...»
«Ed io?» lo interruppe lo zi' Carta. «Sto inchiodato qui, dalla mattina alla sera. Chi si mescola degli affari degli altri? E intanto... Trecento dollari! quasi io fossi un milionario! Ammazzatelo meglio un povero diavolo! Non se ne può più.»
«Vado all'ospedale; vorrei condurvi anche Menu».
«Lascialo stare, poverino. E non dar retta ai fogli; non saranno ferite gravi; vedrai».
Erano invece gravissime. Santi dovette pregare a lungo e raccomandarsi caldamente prima che gli permettessero di entrare a visitare il fratello.
La barba nerissima rendeva più evidente il pallore del volto fasciato di larghe bende, per la ferita al collo e l'altro allo zigomo sinistro, che aveva prodotto un gran gonfiore all'occhio.
Più grave era la terza ferita al fianco, intorno alla quale i dottori non avevano espresso un giudizio definitivo.
«Fratuzzu miu, fatti curaggiu!» gli disse Santi con voce commossa.
Stefano accennò di voler parlare, ma l'assistente glielo impedì, prendendo Santi per un braccio e allontanandolo dal letto del ferito.
«È in pericolo?» egli domandò.
«Non si può affermare nulla. Il giovane però è forte», rispose l'assistente.
Santi pensava al nonno e alla mamma. La notizia avrebbe tardato quasi un mese prima di giungere a Ràbbato: questo lo confortava.
Pensava anche alla situazione di Menu. La bottega dello zi' Carta non gli pareva più un posto sicuro. Quando quelli della «Mano nera» prendevano di mira una persona, non smettevano facilmente se non avevano raggiunto il loro scopo. Il mascalucioto aveva dovuto chiudere il negozio e andarsene lontano, a Boston. E bisognava vedere se gli amici lo avrebbero lasciato tranquillo colà!
Santi era stato fortunato. Con un po' di buona volontà si era improvvisato mezzo giardiniere. Da prima aveva fatto rozzi lavori di braccia nel vasto parco del banchiere Keller. Poi, per via delle canzoni siciliane e delle fiabe, l'aveva preso a ben volere la sua giovane figlia che aveva visitato la Sicilia pochi anni prima, e n'era tornata entusiasta; e, per mezzo di essa, Santi era stato incaricato della coltura di certe piante rare. Tra le rarità contavano alcune piante di fichi d'India che lo facevano sorridere, quando pensava che alla sua Nicchiara essi servivano da siepe e nessuno badava a coltivarle.
Era stata una festa per la signorina Mary il giorno che Santi le aveva sbucciato i primi frutti.
Ella correva pei viali in bicicletta e si fermava volentieri a discorrere con lui, facendogli ripetere davanti alle sue amiche i canti popolari siciliani che quelle ascoltavano con grande curiosità senza intenderne una parola. Miss Mary li traduceva alla meno peggio e chiamava Santi il suo professore di dialetto siciliano: professore molto impacciato.
«Mio fratello Menu potrebbe spiegarglieli meglio».
«Verrà?»
«Se sapessi di collocarlo bene, lo farei venire».
«Fatelo venire. Interesserò mio padre per lui».
«È istruito; ha passato tutte le scuole».
Perciò ora che la signorina era tornata da Trenton, Santi aveva colto l'occasione di rammentarle la promessa.
«Conducetelo qui», gli disse miss Mary una mattina. E soggiunse: «Mi avete parlato tempo fa anche di un altro vostro fratello».
«È ammalato», balbettò Santi. «Tornerà al paese per rimettersi in salute».
«Poveretto!... Ha lavoro troppo. Qui gli italiani sono molto sfruttati, se càpitano in mano di certi boss. I siciliani, specialmente, sono troppo ignoranti da guardarsene. E poi fanno vita a parte. Ho visitato il loro quartiere nell'East U. Street. Ho creduto di riveder certe vie di Palermo e di Messina. Ho voluto assistere una volta anche alla festa di una Madonna. Mi sembra di essere trasportata centinaia di miglia lontana da qui. Mi piace però quest'attaccamento alla terra d'origine che dimostrate voialtri siciliani in particolare. Vostro fratello è ammalato di nostalgia?»
Santi non comprese, esitò un momento, poi rispose di sì.