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Giosuè Carducci
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  • LIBRO PRIMO
    • Scoglio di Quarto
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Scoglio di Quarto

 

Breve ne l'onda placida avanzasi

striscia di sassi. Boschi di lauro

frondeggiano dietro spirando

effluvi e murmuri ne la sera.

 

Davanti, larga, nitida, candida

splende la luna: l'astro di Venere

sorridele presso e del suo

palpito lucido tinge il cielo.

 

Par che da questo nido pacifico

in picciol legno l'uom debba movere

secreto a colloqui d'amore

leni su zefiri, la sua donna

 

fisa guatando l'astro di Venere.

Italia, Italia, donna de i secoli,

de' vati e de' martiri donna,

inclita vedova dolorosa,

 

quindi il tuo fido mosse cercandoti

pe' mari. Al collo leonino avvoltosi

il puncio, la spada di Roma

alta su l'omero bilanciando,

 

stiè Garibaldi. Cheti venivano

a cinque a dieci, poi dileguavano,

drappelli oscuri, ne l'ombra,

i mille vindici del destino,

 

come pirati che a preda gissero;

ed a te occulti givano, Italia,

per te mendicando la morte

al cielo, al pelago, a i fratelli.

 

Superba ardeva di lumi e cantici

nel mar morenti lontano Genova

al vespro lunare dal suo

arco marmoreo di palagi.

 

Oh casa dove presago genio

a Pisacane segnava il transito

fatale, oh dimora onde Aroldo

sitì l'eroico Missolungi!

 

Una corona di luce olimpica

cinse i fastigi bianchi in quel vespero

del cinque di maggio. Vittoria

fu il sacrificio, o poesia.

 

E tu ridevi, stella di Venere,

stella d'Italia, stella di Cesare:

non mai primavera più sacra

d'animi italici illuminasti,

 

da quando ascese tacita il Tevere

d'Enea la prora d'avvenir gravida

e cadde Pallante appo i clivi

che sorger videro l'alta Roma.

 




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