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Giosuè Carducci
Odi barbare

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  • LIBRO PRIMO
    • Miramar
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Miramar

 

O Miramare, a le tue bianche torri

attedïate per lo ciel piovorno

fosche con volo di sinistri augelli

vengon le nubi.

 

O Miramare, contro i tuoi graniti

grige dal torvo pelago salendo

con un rimbrotto d'anime crucciose

battono l'onde.

 

Meste ne l'ombra de le nubi a' golfi

stanno guardando le città turrite,

Muggia e Pirano ed Egida e Parenzo

gemme del mare;

 

e tutte il mare spinge le mugghianti

collere a questo bastïon di scogli

onde t'affacci a le due viste d'Adria,

rocca d'Absburgo;

 

e tona il cielo a Nabresina lungo

la ferrugigna costa, e di baleni

Trieste in fondo coronata il capo

leva tra' nembi.

 

Deh come tutto sorridea quel dolce

mattin d'aprile, quando usciva il biondo

imperatore, con la bella donna,

a navigare!

 

A lui dal volto placida raggiava

la maschia possa de l'impero: l'occhio

de la sua donna cerulo e superbo

iva su 'l mare.

 

Addio, castello pe' felici giorni

nido d'amore costruito in vano!

Altra su gli ermi oceani rapisce

aura gli sposi.

 

Lascian le sale con accesa speme

istorïate di trionfi e incise

di sapïenza. Dante e Goethe al sire

parlano in vano

 

de le animose tavole: una sfinge

l'attrae con vista mobile su l'onde:

ei cede, e lascia aperto a mezzo il libro

del romanziero.

 

Oh non d'amore e d'avventura il canto

fia che l'accolga e suono di chitarre

ne la Spagna de gli Aztechi! Quale

lunga su l'aure

 

vien da la trista punta di Salvore

nenia tra 'l roco piangere de' flutti?

Cantano i morti veneti o le vecchie

fate istriane?

 

- Ahi! mal tu sali sopra il mare nostro,

figlio d'Absburgo, la fatal Novara.

Teco l'Erinni sale oscura e al vento

apre la vela.

 

Vedi la sfinge tramutar sembiante

a te d'avanti perfida arretrando!

È il viso bianco di Giovanna pazza

contro tua moglie.

 

È il teschio mózzo contro te ghignante

d'Antonïetta. Con i putridi occhi

in te fermati è l'irta faccia gialla

di Montezuma.

 

Tra boschi immani d'agavi non mai

mobili ad aura di benigno vento,

sta ne la sua piramide, vampante

livide fiamme

 

per la tenèbra tropicale, il dio

Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta,

e navigando il pelago co 'l guardo

ulula - Vieni.

 

Quant'è che aspetto! La ferocia bianca

strussemi il regno ed i miei templi infranse;

vieni, devota vittima, o nepote

di Carlo quinto.

 

Non io gl'infami avoli tuoi di tabe

marcenti o arsi di regal furore;

te io voleva, io colgo te, rinato

fiore d'Absburgo;

 

e a la grand'alma di Guatimozino

regnante sotto il padiglion del sole

ti mando inferia, o puro, o forte, o bello

Massimiliano. -

 

 

 




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