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Giosuè Carducci Odi barbare IntraText CT - Lettura del testo |
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Dinanzi alle terme di CaracallaCorron tra 'l Celio fosche e l'Aventino le nubi: il vento dal pian tristo move umido: in fondo stanno i monti albani bianchi di nevi.
A le cineree trecce alzato il velo verde, nel libro una britanna cerca queste minacce di romane mura al cielo e al tempo.
Continui, densi, neri, crocidanti versansi i corvi come fluttuando contro i due muri ch'a più ardua sfida levansi enormi.
- Vecchi giganti, - par che insista irato l'augure stormo - a che tentate il cielo? - Grave per l'aure vien da Laterano suon di campane.
Ed un ciociaro, nel mantello avvolto, grave fischiando tra la folta barba, passa e non guarda. Febbre, io qui t'invoco, nume presente.
Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti e de le madri le protese braccia te deprecanti, o dea, da 'l reclinato capo de i figli:
se ti fu cara su 'l Palazio eccelso l'ara vetusta (ancor lambiva il Tebro l'evandrio colle, e veleggiando a sera tra 'l Campidoglio
e l'Aventino il reduce quirite guardava in alto la città quadrata dal sole arrisa, e mormorava un lento saturnio carme);
Febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli quinci respingi e lor picciole cose: religïoso è questo orror: la dea Roma qui dorme.
Poggiata il capo al Palatino augusto, tra 'l Celio aperte e l'Aventin le braccia, per la Capena i forti omeri stende a l'Appia via.
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