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Giosuè Carducci Odi barbare IntraText CT - Lettura del testo |
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Alle fonti del ClitumnoAncor dal monte, che di foschi ondeggia frassini al vento mormoranti e lunge per l'aure odora fresco di silvestri salvie e di timi,
scendon nel vespero umido, o Clitumno, a te le greggi: a te l'umbro fanciullo la riluttante pecora ne l'onda immerge, mentre
vèr lui dal seno de la madre adusta, che scalza siede al casolare e canta, una poppante volgesi e dal viso tondo sorride:
pensoso il padre, di caprine pelli l'anche ravvolto come i fauni antichi, regge il dipinto plaustro e la forza de' bei giovenchi,
de' bei giovenchi dal quadrato petto, erti su 'l capo le lunate corna, dolci ne gli occhi, nivëi, che il mite Virgilio amava.
Oscure intanto fumano le nubi su l'Apennino: grande, austera, verde da le montagne digradanti in cerchio l'Umbrïa guarda.
Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte nume Clitumno! Sento in cuor l'antica patria e aleggiarmi su l'accesa fronte gl'itali iddii.
Chi l'ombre indusse del piangente salcio su' rivi sacri? ti rapisca il vento de l'Apennino, o molle pianta, amore d'umili tempi!
Qui pugni a' verni e arcane istorie frema co 'l palpitante maggio ilice nera, a cui d'allegra giovinezza il tronco l'edera veste:
qui folti a torno l'emergente nume stieno, giganti vigili, i cipressi; e tu fra l'ombre, tu fatali canta carmi, o Clitumno.
O testimone di tre imperi, dinne come il grave umbro ne' duelli atroce cesse a l'astato velite e la forte Etruria crebbe:
di' come sovra le congiunte ville dal superbo Cìmino a gran passi calò Gradivo poi, piantando i segni fieri di Roma.
Ma tu placavi, indigete comune italo nume, i vincitori a i vinti, e, quando tonò il punico furore dal Trasimeno,
per gli antri tuoi salì grido, e la torta lo ripercosse buccina da i monti: - O tu che pasci i buoi presso Mevania caliginosa,
e tu che i proni colli ari alla sponda del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti sopra Spoleto verdi o ne la marzia Todi fai nozze,
lascia il bue grasso tra le canne, lascia il torel fulvo a mezzo solco, lascia ne l'inclinata quercia il cuneo, lascia la sposa a l'ara;
e corri, corri, corri! con la scure corri e co' dardi, con la clava e l'asta! corri! minaccia gl'itali penati Annibal diro. -
Deh come rise d'alma luce il sole per questa chiostra di bei monti, quando urlanti vide e ruinanti in fuga l'alta Spoleto
i Mauri immani e i nùmidi cavalli con mischia oscena, e, sovra loro, nembi di ferro, flutti d'olio ardente, e i canti de la vittoria!
Tutto ora tace. Nel sereno gorgo la tenue miro salïente vena: trema, e d'un lieve pullular lo specchio segna de l'acque.
Ride sepolta a l'imo una foresta breve, e rameggia immobile: il diaspro par che si mischi in flessuosi amori con l'ametista.
E di zaffiro i fior paiono, ed hanno de l'adamante rigido i riflessi, e splendon freddi e chiamano a i silenzi del verde fondo.
A piè de i monti e de le querce a l'ombra co' fiumi, o Italia, è de' tuoi carmi il fonte. Visser le ninfe, vissero: e un divino talamo è questo.
Emergean lunghe ne' fluenti veli naiadi azzurre, e per la cheta sera chiamavan alto le sorelle brune da le montagne,
e danze sotto l'imminente luna guidavan, liete ricantando in coro di Giano eterno e quanto amor lo vinse di Camesena.
Egli dal cielo, autoctona virago ella: fu letto l'Apennin fumante: velaro i nembi il grande amplesso, e nacque l'itala gente.
Tutto ora tace, o vedovo Clitumno, tutto: de' vaghi tuoi delùbri un solo t'avanza, e dentro pretestato nume tu non vi siedi.
Non più perfusi del tuo fiume sacro menano i tori, vittime orgogliose, trofei romani a i templi aviti: Roma più non trionfa.
Più non trionfa, poi che un galileo di rosse chiome il Campidoglio ascese, gittolle in braccio una sua croce, e disse - Portala, e servi. -
Fuggîr le ninfe a piangere ne' fiumi occulte e dentro i cortici materni, od ululando dileguaron come nuvole a i monti,
quando una strana compagnia, tra i bianchi templi spogliati e i colonnati infranti, procedé lenta, in neri sacchi avvolta, litanïando,
e sovra i campi del lavoro umano sonanti e i clivi memori d'impero fece deserto, et il deserto disse regno di Dio.
Strappâr le turbe a i santi aratri, a i vecchi padri aspettanti, a le fiorenti mogli; ovunque il divo sol benedicea, maledicenti.
Maledicenti a l'opre de la vita e de l'amore, ei deliraro atroci congiungimenti di dolor con Dio su rupi e in grotte:
discesero ebri di dissolvimento a le cittadi, e in ridde paurose al crocefisso supplicaro, empi, d'essere abietti.
Salve, o serena de l'Ilisso in riva, o intera e dritta a i lidi almi del Tebro anima umana! i foschi dì passaro, risorgi e regna.
E tu, pia madre di giovenchi invitti a franger glebe e rintegrar maggesi, e d'annitrenti in guerra aspri polledri Italia madre,
madre di biade e viti e leggi eterne ed inclite arti a raddolcir la vita, salve! a te i canti de l'antica lode io rinnovello.
Plaudono i monti al carme e i boschi e l'acque de l'Umbria verde: in faccia a noi fumando ed anelando nuove industrie in corsa fischia il vapore.
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