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Giosuè Carducci Rime e ritmi IntraText CT - Lettura del testo |
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La chiesa di Polenta
Agile e solo vien di colle in colle quasi accennando l'ardüo cipresso. Forse Francesca temprò qui li ardenti occhi al sorriso?
Sta l'erta rupe, e non minaccia: in alto guarda, e ripensa, il barcaiol, torcendo l'ala de' remi in fretta dal notturno Adrïa: sopra
fuma il comignol del villan, che giallo mesce frumento nel fervente rame là dove torva l'aquila del vecchio Guido covava.
Ombra d'un fiore è la beltà, su cui bianca farfalla poesia volteggia: eco di tromba che si perde a valle è la potenza.
Fuga di tempi e barbari silenzi vince e dal flutto de le cose emerge sola, di luce a' secoli affluenti faro, l'idea.
Ecco la chiesa. E surse ella che ignoti servi morian tra le romana plebe quei che fûr poscia i Polentani e Dante fecegli eterni.
Forse qui Dante inginocchiossi? L'alta fronte che Dio mirò da presso chiusa entro le palme, ei lacrimava il suo bel San Giovanni;
e folgorante il sol rompea da' vasti boschi su 'l mar. Del profugo a la mente ospiti batton lucidi fantasmi dal paradiso:
mentre, dal giro de' brevi archi l'ala candida schiusa verso l'orïente, giubila il salmo In exitu cantando Israel de Aegypto.
Itala gente da le molte vite, dove che albeggi la tua notte e un'ombra vagoli spersa de' vecchi anni, vedi ivi il poeta.
Ma su' dischiusi tumuli per quelle chiese prostesi in grigio sago i padri, sparsi di turpe cenere le chiome nere fluenti
al bizantino crocefisso, atroce ne gli occhi bianchi livida magrezza, chieser mercé de l'alta stirpe e de la gloria di Roma.
Da i capitelli orride forme intruse a le memorie di scapelli argivi, sogni efferati e spasimi del bieco settentrïone,
imbestïati degeneramenti de l'orïente, al guizzo de la fioca lampada, in turpe abbracciamento attorti, zolfo ed inferno
goffi sputavan su la prosternata gregge: di dietro al battistero un fulvo picciol cornuto diavolo guardava e subsannava.
Fuori stridea per monti e piani il verno de la barbarie. Rapido saetta nero vascello, con i venti e un dio ch'ulula a poppa,
fuoco saetta ed il furor d'Odino su le arridenti di due mari a specchio moli e cittadi a Enosigeo le braccia bianche porgenti.
Ahi, ahi! Procella d'ispide polledre àvare ed unne e cavalier tremendi sfilano: dietro spigolando allegra ride la morte.
Gesù, Gesù! Spalancano la terra bocca i sepolcri: a' venti a' nembi al sole piangono rese anch'esse de' beati màrtiri l'ossa.
E quel che avanza il Vìnilo barbuto, ridiscendendo da i castelli immuni, sparte - reliquie, cenere, deserto - con l'alabarda.
Schiavi percossi e dispogliati, a voi oggi la chiesa, patria, casa, tomba, unica avanza: qui dimenticate, qui non vedete.
E qui percossi e dispogliati anch'essi i percussori e spogliatori un giorno vengano. Come ne la spumeggiante vendemmia il tino
ferve, e de' colli italici la bianca uva e la nera calpestata e franta sé disfacendo il forte e redolente vino matura;
qui, nel conspetto a Dio vendicatore e perdonante, vincitori e vinti, quei che al Signor pacificò, pregando, Teodolinda,
quei che Gregorio invidïava a' servi ceppi tonando nel tuo verbo, o Roma, memore forza e amor novo spiranti fanno il Comune.
Salve, affacciata al tuo balcon di poggi tra Bertinoro alto ridente e il dolce pian cui sovrasta fino al mar Cesena donna di prodi,
salve, chiesetta del mio canto! A questa madre vegliarda, o tu rinnovellata itala gente da le molte vite rendi la voce
de la preghiera: la campana squilli ammonitrice: il campanil risorto canti di clivo in clivo a la campagna Ave Maria.
Ave Maria! Quando su l'aure corre l'umil saluto, i piccioli mortali scovrono il capo, curvano la fronte Dante ed Aroldo.
Una di flauti lenta melodia passa invisibil fra la terra e il cielo: spiriti forse che furon, che sono e che saranno?
Un oblio lene de la faticosa vita, un pensoso sospirar quïete, una soave volontà di pianto l'anima invade.
Taccion le fiere e gli uomini e le cose, roseo 'l tramonto ne l'azzurro sfuma, mormoran gli alti vertici ondeggianti Ave Maria.
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